Di falaghiste
Il fascismo fu la massima espressione della crisi del liberalismo fra le due guerre mondiali. Quando settori maggioritari delle classe operaia si mobilitarono sotto le bandiere del socialismo contro lo sfruttamento del lavoro e l’ingiustizia sociale, tutta la borghesia (dagli industriali ai grandi proprietari terrieri) si accodò all’espressione reazionaria dei ceti medi travolti dalla crisi economica.
Al di là delle similitudini e delle differenze con la situazione attuale, dove alla crescita delle destre sotto varie forme non corrisponde una crescita del movimento operaio, il fascismo fu la soluzione estrema per il mantenimento del sistema capitalista.
Una volta eliminate manu-militari le opposizioni politiche e sociali, non fu difficile ottenere un consenso di massa anche attraverso provvedimenti di redistribuzione delle risorse con l’istituzione della previdenza sociale, dell’opera nazionale maternità e infanzia ecc.
Una politica di stampo Keinesiano che ancora oggi suscita argomentazioni a favore del ventennio fascista, ignorando l’assoggettamento del lavoro,la repressione violenta del dissenso, oltre che naturalmente l’alleanza con il nazismo, le leggi razziali e l’olocausto della guerra.
Il consenso di massa al fascismo fu un consenso passivo e ci volle la sconfitta militare e la resistenza per ripristinare fra le masse una cultura antifascista attiva.
Ma quasi subito nel dopoguerra l’antifascismo si istituzionalizzò in una liturgia costituzionalista che identificava il fascismo con le sue espressioni formali: monopartitismo, militarizzazione sociale, razzismo e violenza arbitraria di Stato, camice nere e gagliardetti, ignorando volutamente che il regime fascista modernizzò lo stato adeguando le sue istituzioni alle nuove esigenze della borghesia.
Infatti lo stato repubblicano che emerge nel dopoguerra mantiene intatta la struttura del fascismo: riconosce i patti Lateranensi con il Vaticano, mantiene gran parte delle leggi di ordine pubblico come il ”Foglio di via“ e il potere dei prefetti, ricertifica la sacralità della proprietà privata dei mezzi di produzione, messa in discussione dal movimento operaio antifascista durante la Repubblica di Salò (mentre i padroni se la passavanoin Svizzera), mantiene intatti i servizi segreti e le strutture militari.
Nessuno delle classi dirigenti complici del fascismo, esclusi i gerarchi più in vista, viene rimosso: rimangono gli stessi prefetti, docenti universitari, generali, commissari, giornalisti asserviti. E rimane la stessa borghesia, gli stessi padroni che si erano arricchiti con il sangue dei proletari italiani.
Il primo colpo di maglio all’antifascismo reale viene da una direzione inaspettata e quindi è quanto di meglio per non sembrare tale. Non già dalla Democrazia Cristiana, il nuovo partito in cui le classi sociali complici del fascismo si sono lestamente riciclate, ma proprio da PCI, il partito che maggiormente si è opposto al fascismo, fornendo la maggioranza dei combattenti partigiani.
Infatti nel 1946 Palmiro Togliatti leader maximo del partito comunista italiano, in veste di Ministro della giustizia, promulga l’amnistia per i fascisti: è la pietra tombale della memoria del fascismo reale. Al contrario di altri paesi, Germania in testa, l’Italia sceglie di nascondere gli scheletri negli armadi. Le conseguenze di quella scelta scellerata permetteranno le peggiori operazioni di revisionismo, a scredito della resistenza, della verità storica e dell’antifascismo reale.
Nel 1948 inizia la farsa della repubblica democratica fondata sul lavoro (che di per se non vuole dire niente) e sulla Resistenza, mentre si ristrutturano e adeguano alle nuove esigenze democratiche i poteri reali della borghesia.
Il tradimento della Resistenza, come lotta di classe per la giustizia sociale, inizia da allora, da quando i partigiani per essere ricevuti da una qualsiasi autorità del nuovo stato democratico devono fare ore di anticamera mentre l’industriale, l’ex repubblichino, il politico riciclato, il Cardinale che aveva benedetto i pugnali e i moschetti, vengono accolti con tutti gli onori.
Intanto ex capi e capetti repubblichini riallacciano i rapporti e le complicità con gli ex camerati e si accomodano, come pulcini sulla bambagia, nelle pieghe clandestine del nuovo Stato Repubblicano in attesa di tempi migliori. Altri di loro vengono eletti deputati al parlamento italiano nel nuovo partito Fascista (MSI) di Giorgio Almirante, ex capo di gabinetto della Repubblica di Salò. Palmiro Togliatti, tanto solerte nel reprimere i comunisti e gli anarchici del POUM, su ordine di Stalin in Spagna, non pensò nemmeno d’inserire nel provvedimento di amnistia la proibizione, per gli ex gerarchi, di essere eletti parlamentari nella Repubblica fondata sulla Resistenza.
Tuttavia, sull’onda lunga della Resistenza, l’antifascismo reale non si arrende e costringe l’antifascismo costituzionale guidato dalla CGIL, dal PCI e in parte dal PSI e sinistra DC, a seguirlo sulla strada delle lotte operaie. Già nel 1960 il proletariato industriale si mobilita contro il governo Tambroni che vuole aprire il governo alle forze politiche del fascismo reale (MSI).
Poi nel biennio rosso 1969-1970 le lotte raggiungono il massimo. Alle lotte operaie seguono quelle studentesche. Non si tratta solo di mobilitazioni che rivendicano miglioramenti salariali o dei diritti ma che anelano a un’altra democrazia, a un’altra società dove le masse partecipino attivamente alle scelte produttive, si parla esplicitamente di socialismo. Allora le forze del fascismo reale secernono dai gangli clandestini dello Stato la strategia della tensione: il 12 dicembre 1969 una bomba esplode nella sede della Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, causando una strage.
L’intenzione occulta è quella di creare un clima di tensione tale da costringere le forze dell’antifascismo costituzionale ad approvare leggi repressive contro il movimento antifascista reale. Già dopo pochi mesi per tacitare le lotte operaie e riportarle nell’alveo e sotto l’influenza dell’antifascismo costituzionale, il governo Nenni (Partito Socialista e Democrazia Cristiana) approva lo statuto dei lavoratori (20 maggio 1970).
Ma questa è una vittoria anche dell’antifascismo reale che cresce sotto l’influenza delle forze politiche dell’estrema sinistra, del movimento studentesco e di settori minoritari ma influenti, soprattutto nelle grandi fabbriche del nord, del movimento operaio.
Settori dell’ultra sinistra del movimento antifascista reale decidono di rispondere alla strategia della tensione con la lotta armata: i primi attentati delle Brigate Rosse avvengono nel 1970.
Fino al 1973 la lotta per l’egemonia sul movimento (operaio e studentesco) dell’antifascismo reale, fra le direzioni riformiste dell’antifascismo costituzionale (PCI e CGIL) e le varie organizzazioni politiche dell’antifascismo reale, (Lotta Continua fondata nel 1969, Avanguardia Operaia Attiva dal 1968, Potere Operaio che nasce nel 1969, Autonomia Operaia e quelle clandestine della lotta armata, Brigate Rosse e Prima Linea, tutte in aspra concorrenza fra loro) continua ininterrottamente fra scioperi, manifestazioni, attentati e scontri di piazza.
L’antifascismo reale è diviso, manca una strategia e un progetto politico unificante per le classi lavoratrici: in molti casi prevale l’ideologia sui programmi.
Intanto per l’antifascismo costituzionale delle burocrazie del Partito Comunista e della CGIL, la crescita dell’antifascismo reale non può più essere tollerata.
Del resto, con “la svolta di Salerno” il PCI togliattiano, in ossequio al trattato di Jalta e alla politica del compromesso stalinista con le borghesie nazionali nell’Europa dell’Ovest, già nel 1944 aveva intrapreso la via riformista. Con l’accettazione implicita dell’economia di mercato, tutto ciò che andava oltre non poteva essere tollerato.
È il 1973 quando il segretario del PCI Enrico Berlinguer (con una serie di articoli sulla rivista Rinascita) propone al presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, il completamento del compromesso costituzionale del 1948 attraverso un’ alleanza fra: “le due grandi tradizioni popolari del socialismo e del cattolicesimo democratici“. Tale politica passerà alla storia come compromesso storico. Qualcuno, più concretamente, la chiamerà la seconda svolta di Salerno.
Al di là della mistificazione ideologica (le tradizioni popolari a cui si richiama il compromesso storico non esistono in Italia se non circoscritte a minoranze ininfluenti nei rispettivi ambiti politico-ideologici), Berlinguer propone un patto di governo fra l’apparato del PCI e il partito della borghesia, del Vaticano e della malavita organizzata.
Concretamente: in cambio della fine della strategia della tensione, egli offre al fascismo reale la testa del movimento antifascista reale. Inizia così, fra ambiguità reciproche e tentennamenti (sia nel PCI che nella DC vi sono tendenze che si oppongono) la rottura definitiva fra l’antifascismo reale e l’antifascismo costituzionale.
Nel 1974, il fascismo reale colpisce ancora, con le stragi di Piazza della Loggia e del treno Italicus.
Nel maggio del 1975 il Governo Moro, con il sostegno del PCI, approva la legge Reale che introduce l’arresto senza flagranza di reato. Inizia la repressione di massa, basta un semplice sospetto per venire arrestati e trattenuti come probabili terroristi; di lì a qualche anno, migliaia di militanti dell’antifascismo reale verranno incarcerati senza alcuna prova.
Contemporaneamente, nelle fabbriche, i sindacati (CGIL in testa) d’accordo con i padroni reprimono con ogni mezzo i militanti delle organizzazioni dell’antifascismo reale, mentre le organizzazioni terroristiche del fascismo reale, responsabili delle stragi, sotto la copertura dei servizi segreti dello Stato, rimangono indisturbate.
Ma il PCI prosegue l’alleanza con la DC. La nuova formula si chiama solidarietà nazionale, non più un governo PCI-DC, ma il sostegno esterno del PCI al nuovo corso democristiano (1976 governo Andreotti: monocolore DC).
Il 16 marzo del 1978, contro l’alleanza fra PCI e DC, le Brigate Rosse rapiscono e uccidono Aldo Moro.
Il movimento dell’antifascismo reale è in rotta, ormai le masse attive del movimento operaio subiscono l’influenza dell’antifascismo costituzionale.
Si svolgono enormi manifestazioni di massa “contro il terrorismo”, dove si mescolano le bandiere storiche con la falce e il martello alle bandiere crociate. È l’inizio della fine del decennio sessantottino, le masse proletarie si sono schierate, più o meno consapevolmente, al fianco del fascismo reale mascherato da antifascismo democratico.
Alle forze del fascismo reale, una volta separate dalle masse le organizzazioni politiche dell’antifascismo reale (studentesche, di estrema sinistra, operaie e della lotta armata), non rimane che attaccare il movimento operaio che, pur avendo aderito in maggioranza all’antifascismo costituzionale, non è ancora disposto a cedere nella lotta di classe per il controllo della produzione industriale.
L’attacco è portato su due fronti. Il 10 agosto del 1980 scoppia una bomba alla stazione di Bologna facendo decine di morti e centinaia di feriti.
In un momento in cui si credeva la situazione pacificata ricomincia la caccia alle streghe: l’opinionepubblica viene di nuovo predisposta ad accettare soluzioni autoritarie.
È l’occasione per aprire il secondo fronte e chiudere definitivamente con il centro della resistenza operaia: la FIAT.
Prima la direzione annuncia il licenziamento di decine di operai per attività terroristiche, poi il licenziamento di 14.000 operai. Il consiglio di fabbrica decreta lo sciopero ad oltranza, ma dopo trentacinque giorni una manifestazione di impiegati e tecnici (detta la marcia dei quarantamila ma in realtà erano molti di meno) rivendica il diritto di tornare al lavoro.
Gli operai comunque non ne vogliono sapere di rimuovere i picchetti ai cancelli, ma le direzioni sindacali si schierano di nuovo contro il movimento antifascista reale.
Infatti, nonostante l’opposizione degli operai, Luciano Lama, segretario generale della CGIL firma l’accordo con l’azienda accettando licenziamenti e cassaintegrazione. È la Waterloo del movimento operaio italiano; da allora sarà un continuo rifluire della classe operaia verso il dominio del fascismo reale.
Il ruolo dell’antifascismo costituzionale in questa vicenda rappresenta il culmine della doppiezza politica del PCI.
Qualche giorno prima della firma del famigerato accordo, Berlinguer dichiara che, qualora gli operai avessero occupato la FIAT, il partito li avrebbe sostenuti. La malafede è evidente, la verità è che il PCI delegail tradimento alla burocrazia sindacale CGIL per non compromettere l’immagine del partito di fronte al movimento operaio. Del resto, è impensabile che Luciano Lama (iscritto al PCI come la maggioranza dei sindacalisti CGIL) si sia mosso senza l’assenso implicito di Berlinguer.
Nel 1987 Mario Moretti e Renato Curcio dichiarano conclusa l’esperienza delle Brigate Rosse. Un anno dopo Bruno Trentin, subentrato a Lama alla guida della CGIL sigla un accordo con il governo e la controparte per l’abolizione della scala mobile dei salari dando il via alla politica di concertazione: il sindacato non è più un organismo di rappresentanza autonoma delle classi lavoratrici ma, per conto del governo e delle organizzazioni padronali, diventa uno strumento di controllo e repressione delle rivendicazioni delle classi lavoratrici. Inizia la trasformazione del più grande sindacato italiano in un organismo burocratico di Stato. Con la firma degli accordi interconfederali, il 23 luglio 1993, la concertazione diventa modello ufficiale di relazioni sindacali: il salario è una variabile dipendente dai profitti della borghesia.
Con la sconfitta del movimento operaio, dopo quello studentesco e della lotta armata, l’antifascismo reale scompare fra le masse popolari nel giro di pochi anni, mentre l’antifascismo costituzionale sopravvive nelle liturgie e nella retorica ipocrita delle ricorrenze.
Nel frattempo il fascismo reale avanza in ogni ambito: nell’economia, nella cultura nella politica e nella forma che via via assumono le istituzioni della repubblica.
Alle fine degli anni ottanta tutto è pronto per l’avvento della seconda repubblica. Il fascismo reale trionfa e avanza nella mentalità, nella cultura, nei modelli di riferimento. Si chiude una storia e ne inizia un’altra: l’antifascismo reale, dopo oltre vent’anni, deve trovare una nuova via, senza tradimenti, senza illusioni, senza retoriche velleitarie, ma nella consapevolezza che solo la rivolta degli sfruttati potrà dargli una nuova identità.