Dopo qualche mese di interruzione, torna l’invito alla formazione teorica all’interno della nostra rubrica – anche se la riflessione teorica è continuata con altri articoli.
Proponiamo una riflessione del compagno G. T. sul significato della “abolizione del lavoro” ne L’Ideologia tedesca di Karl Marx e Friedrich Engels [un testo presente che potete leggere in parte in italiano qui]
Innanzitutto, va considerato che l’opera è del ’45-6 e che non fu pubblicata: indice che buona parte del materiale che vi troviamo è stato ripreso e raffinato nei successivo mezzo secolo dagli autori – nel senso che, per approfondire il tema “lavoro”, c’è tanto da leggere nei testi scritti dopo questo… Credo che sia da tenere in conto il fatto che Marx ed Engels associno qui il concetto di lavoro a quello di economia individuale, cioè dell’economia che, evolvendosi in varie forme, fa da base strutturale alla società umana da quando è divisa in classi e caratterizzata dalla proprietà individuale. Il superamento dell’economia individuale verso l’economia comunista porta all’abolizione del lavoro: così, in effetti, dicono M&E. Ma che intendono? Per capirlo, è centrale secondo me questa citazione dal terzo capitolo:
Lo stato moderno, dominio della borghesia, è basato sulla libertà del lavoro . . . La Libertà del Lavoro è la libera competizione dei lavoratori tra loro . . . Il lavoro è libero in tutti i paesi civilizzati; non è una questione di liberare il lavoro, ma di abolirlo.
Dunque, il lavoro è inteso come processo di riproduzione sociale legato all’economia e allo stato moderni (cioè a quelli capitalistici), un processo che si rivela come sfruttamento dei lavoratori da parte dei borghesi e come una lotta all’ultimo sangue tra i lavoratori stessi per avere l’opportunità di essere sfruttati.
Ma come si fa a mantenere un’economia, seppur comunista, senza lavoro? Credo che, per rispondere a questa domanda rimanendo nell’ambito di questa specifica opera di M&E, si debba ricordare che, proprio come quando parliamo di famiglia o di altri concetti trattati da San Bruno e San Max e criticati da M&E, anche il discorso sul lavoro portato avanti da M&E esce dai binari dell’ideologia borghese e dell’immediata prospettiva storica a loro contemporanea. In una società, come quella comunista, dove la priorità non è più il profitto capitalistico, ma il progresso materiale e spirituale della specie umana, pensare la riproduzione della società nei termini del lavoro capitalistico porta ad un punto di vista limitato; se per i borghesi il lavoro libero è l’attuale macello chiamato mercato del lavoro, per i comunisti il lavoro è sì libero, ma in un’altra maniera:
La libera attività per i comunisti è la manifestazione creativa della vita che scaturisce dal libero sviluppo di tutte le abilità della persona nel suo complesso.
La società si riproduce nel suo complesso tramite lo sfruttamento delle macchine, poste al servizio della società senza classi e non del profitto della classe sfruttatrice, e tramite la libera attività, cioè lo sviluppo, quanto più libero possibile, delle attitudini delle persone. Di qui, l’immagine (abbastanza ambigua, anche se carica di significato) dell’uomo che la mattina si occupa di una certà attività per poi compierne una totalmente diversa il pomeriggio, senza essere costretto ad un lavoro estraniante. Se, come scrivono M&E [vedi due citazioni sotto], lo sviluppo delle forze produttive raggiunto dall’uomo fa sì che tali forze siano a oggi distruttive, e che possano tornare a essere costruttive solo coll’abolizione della proprietà privata, se ne consegue che l’evoluzione dei rapporti sociali (e quindi l’abolizione della proprietà privata) e dello stato di cose attuale porta al superamento del (libero) lavoro così come si manifesta nella società capitalistica.
L’abolizione di questo stato di cose è determinata, in ultima analisi, dall’abolizione della divisione del lavoro.
La proprietà privata può essere abolita solo come conseguenza di uno sviluppo a 360 gradi degli individui.
Come possiamo cioè noi chiamare ancora lavoro un’attività che ha al centro l’uomo stesso, e paragonare tale attività a quella dell’operaio cinematografico che, per mantenere i ritmi di produzione, pensa alle forme della collega, oggetto irraggiungibile del suo desiderio? Il superamento della divisione del lavoro – e quindi del progressivo declassamento dell’intera attività umana a mera merce del ciclo capitalistico – permette all’uomo di riprodurre la società tramite, appunto, un’attività sociale e umana, complessivamente di una qualità molto superiore al lavoro capitalistico.
Così mi pare vada letto il concetto di abolizione del lavoro nell’Ideologia tedesca.
Esatto. Bravo/a.
Aggiungiamo solo, per la precisione, che la realtà raggiunta dal lavoro liberato (nel senso quì riportato di M&E) possibile solo in una società senza classi, è esattamente la realizzazione di quella totale dis-alienazione umana nella quale si incarna il comunismo marxiano.
Aggiungiamo pure che, nell'epoca di transizione dal capitalismo al comunismo, con le sue diverse fasi di sviluppo, individualbili dialetticamente nella contraddizione tra forze propulsive di tale sviluppo e forze di resistenza ad esso, la dis-alienazione del lavoro attraversa a sua volta fasi di parziale realizzazione, all'insegna della progressiva concretizzazione (nel senso leniniano del termine) della libera associazione dei produttori. Quest'ultimo processo inpossiible da avviare senza l'insaturazione della dittatura del proletariato: cioè, la classe proletaria organizzata in potere statale.
Jure Zenon
Siamo d'accordo.