Covid 19 e le “povere” donne: e se parte della soluzione fosse la cara e vecchia socializzazione del lavoro domestico?
Che le crisi del capitale colpiscano le classi subalterne, e in particolare le donne, non è una novità. Il Covid non fa eccezione. Il governo a targa 5 Stelle-PD ha preso ben pochi provvedimenti per tutelare le persone nei luoghi dove si ammalano di più: trasporti, luoghi di lavoro, scuola e famiglia.
All’ovvio criterio della tutela della salute di tutti e tutte si è sfacciatamente anteposta la strenua difesa del profitto della classe padronale, già da subito, con la mancata chiusura delle zone più colpite della bergamasca, e ancora più esplicitamente adesso, con il continuo riferimento alla “ripresa” che è necessario “agganciare”.
Il primo argine all’emergenza sanitaria è stato ed è ancora scontato nell’attuale sistema: spingere fuori dal mercato del lavoro decine di migliaia di donne e ricacciarle senza distrazioni “accanto al camino”, alle funzioni di babysitter, assistente, infermiera e insegnante richieste dalla crisi. Dopo il primo lockdown tante donne non sono più tornate ai propri posti di lavoro, ma hanno dovuto forzatamente “scegliere” di rimanere a casa a fare il welfare gratuito, nel tentativo funambolico di conciliare sopravvivenza sanitaria, lavoro e famiglia. Il 72% di chi è tornato al lavoro il 4 maggio era uomo.
Il coro di prefiche su quanto il Covid abbia colpito le donne è stato trasversale: le povere donne sono state compatite da sinistra a destra, dall’Avvenire al Manifesto. Tuttavia ben pochi hanno proposto soluzioni concrete a questo problema bifronte: da un lato di impedire o almeno ostacolare la trasmissione del contagio, soprattutto ai soggetti più deboli, dall’altro garantirsi un reddito. Un problema che smaschera l’impossibilità di trovare soluzioni efficaci nella cornice di questo sistema economico. I due pilastri su cui si doveva intervenire energicamente dovevano essere stato sociale e lavoro. Nessuno dei due è stato seriamente preso in considerazione.
Il primo pilastro, anche e soprattutto per le donne, doveva essere quindi la tutela del posto lavoro. Da un lato si dovevano rinforzare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, non solo posticipare i licenziamenti, norma peraltro facilmente aggirabile. Occorreva ripristinare tutta una serie di diritti che sono stati smantellati nel corso degli ultimi decenni, a partire dall’articolo 18, dal precariato, dalle norme del Jobs Act.
Il lavoro deve essere svolto in condizioni di sicurezza, in modo da non essere veicolo di contagio. Questa garanzia deve essere verificata dai lavoratori stessi, non dal padronato, perfettamente indifferente da sempre alla salute di chi lavora per loro.
Le donne hanno costituito una parte fondamentale delle figure professionali che hanno consentito al sistema che le sfrutta di andare avanti, pagando un prezzo altissimo in termini di sacrifici e salute: operaie, commesse, cameriere, cuoche, dottoresse, addette alle pulizie, infermiere, maestre, badanti… l’elenco potrebbe continuare all’infinito.
Nessuno ha dato loro qualche tutela in più, nessuno ha esteso qualche diritto negato, qualche aumento di stipendio, qualche riconoscimento contrattuale.
Anche se rimangono al lavoro, le donne (e i lavoratori in genere) devono sacrificarsi per niente, perché questo ci si aspetta che facciano.
L’altro pilastro è lo stato sociale, la cui assenza si fa così drammaticamente sentire in questo momento.
Le misure deboli, inutili e caotiche adottate dal governo borghese non sono bastate alle famiglie, che vedono la chiusura delle scuole come una prospettiva agghiacciante e che sono forzate, per chi un lavoro ancora ce l’ha, a decidere se licenziarsi o far ammalare i genitori.
È ormai opinione diffusa che gran parte dell’impatto di questa pandemia sia dovuta allo smantellamento della sanità pubblica e dello stato sociale. È un’argomentazione facile, ormai anche i più strenui difensori del liberismo condannano i taglia alla sanità che per primi avevano rivendicato, perché il “privato” doveva essere più efficiente. Ma non è possibile illudersi che un po’ più di stato sociale ci avrebbe tenuto al riparo dalle conseguenze delle crisi -sanitarie o finanziarie- generate dal sistema capitalista. Nessun paese capitalista, con una quota maggiore o minore di stato sociale, ha retto all’urto della pandemia.
Questa pandemia ha mostrato il vero volto del capitalismo in ogni paese, ha dimostrato che a prescindere dal grado e dall’intensità con cui il capitalismo viene annacquato con un po’ di stato sociale, il risultato non cambia: dalla civilissima Svezia al Brasile di Bolsonaro, questa organizzazione economica quando va bene fa migliaia di morti al giorno (morti sul lavoro, morte per violenza domestica, morti economici, morti da migrazione, morti da povertà, morti da mancate cure) e quando va male, quando un virus si diffonde, i morti si contano a milioni. Ma il sistema continua con la stessa imperterrita disumanità. È il capitalismo che impedisce all’umanità di reagire al meglio davanti a un disastro sanitario che la sua stessa sete di profitto ha creato, grazie alla distruzione sistematica dell’ambiente.
Se un po’ più di stato sociale non basta, allora che fare?
Forse bisognerebbe rispolverare una “vecchia” rivendicazione del femminismo marxista, ossia la socializzazione del lavoro domestico. Occorre pretendere l’esternalizzazione di tutti quei lavori che le donne compiono da millenni ma che in realtà sono lavori volti alla collettività, sono lavori di cura riproduttivi e produttivi, senza retribuzione e senza riconoscimento. Questo lavoro deve essere retribuito e ricondotto alla sfera pubblica, in condizioni di sicurezza e controllo, ossia deve essere socializzato: l’intera collettività deve farsene carico perché quel lavoro oggi, oltre che di oppressione di genere, è più che mai veicolo di contagio e di morte. Solo un massiccio programma di esternalizzazione dei servizi sociali in condizioni controllate può bloccare i contagi all’interno delle famiglie e tutelare le fasce più deboli della popolazione.
Nonostante forzature e semplificazioni, la socializzazione del lavoro domestico è ben altro che uno stipendio alle casalinghe, da rigettare esattamente come il reddito alle madri di Forza Nuova.
La socializzazione del lavoro domestico non è un’elemosina per continuare a essere forzate nel ruolo di angelo tuttofare. È riconoscere quel lavoro, esternalizzarlo, retribuirlo e renderlo sicuro.
“La famiglia attualmente consuma senza produrre. Le faccende domestiche essenziali di una donna di casa si sono ridotte a quattro: pulizia (pavimento, mobili, stoviglie, ecc.), cucina (preparazione di pranzo e cena), lavaggio e cura della biancheria e dei vestiti della famiglia (rammendare o rattoppare). Questi lavori sono molto stancanti. Consumano tutte le energie, e tutto il tempo della donna lavoratrice che, per di più, deve lavorare in fabbrica. […] Invano la donna lavoratrice passa le giornate da mattina a sera pulendo casa, lavando e stirando i vestiti, consumando energie per sistemare la biancheria rovinata, ammazzandosi per preparare con i suoi scarsi mezzi il miglior pasto possibile, poiché, quando finirà il giorno, non rimarrà alcun risultato materiale di tutto il suo lavoro giornaliero; con le sue mani infaticabili non avrà creato durante il giorno, nulla che possa essere considerato merce nel mercato commerciale. Potrebbe vivere mille anni, ma tutto sarebbe uguale per la donna lavoratrice. Ogni mattina rimuovere la polvere dai mobili, il marito verrebbe la sera con voglia di cenare i bambini tornerebbero a casa con le scarpette piene di fango. Il lavoro della donna di casa diventa ogni giorno meno utile e ogni giorno più improduttivo.[…] Le mogli dei ricchi vivono da molto tempo vivono libere da queste sgradevoli e faticose mansioni. Perché la donna lavoratrice deve continuare a portare questo pesante fardello?” (A. Kollontaj, 1921)
Sono passati quasi cento anni, ma la donna è ancora lì a fare le stesse cose, pochi avanzamenti si sono ottenuti sul lavoro non pagato delle donne.
Quando si avanza la rivendicazione che tale lavoro va pagato ed esternalizzato tutti gridano all’utopia. In realtà però il lavoro domestico è da sempre socializzato. Ma per una classe sola, quella degli sfruttatori. A loro è concesso sfuggire dal destino biologico di genere scaricando su forza lavoro sfruttata tutti quei compiti che non vogliono svolgere. Il lockdown non è stato quello raccontato dalla vulgata dei balconi e dei proclami di unità nazionale al telegiornale: una classe di più o meno ricchi, più o meno borghesi, che poteva permetterselo, ha ricevuto a casa tutti quei beni e servizi che la classe lavoratrice ha continuato a produrre e a consegnare sulla porta di casa. A prezzo della propria salute e di quella dei propri famigliari.
Insomma quando ci dicono che la socializzazione del lavoro domestico è un’utopia, bisogna chiedersi: Per chi? Perché per una certa classe sociale è da sempre una realtà molto concreta.
Eppure, quando si parla di socializzazione del lavoro domestico pare una bestemmia. Quasi avessimo interiorizzato così tanto il destino di vittime sacrificali da non saper immaginare un sistema diverso, in cui siamo libere e liberi da quelle schiavitù e delle fatiche che la classe sfruttatrice ci subappalta per salari ridicoli.
La socializzazione del lavoro domestico è difficilmente rivendicabile, anche a sinistra, perché si capisce immediatamente che, per ottenerla, occorre polverizzare il principio su cui è fondata la nostra società, ossia lo sfruttamento. È una rivendicazione sociale che non ammette una mezza misura, che non si può ottenere per gradi, perché stiamo già verificando in prima persona che le mezze misure non ci hanno tutelato.
E allora bisogna cominciare a pensare che forse non è così sbagliato cambiare completamente paradigma sociale. In prospettiva futura, una volta allentata la necessità del distanziamento sociale, occorre imparare la lezione e fare come all’indomani della Rivoluzione russa, quando i servizi di mensa, asilo, lavanderia, farmacia, ristoranti e servizi assistenziali di varia natura erano collettivizzati e disponibili gratuitamente per tutti.
Non è forse così utopico pensare che sia la vita e la salute dei lavoratori a dover essere tutelata con le misure più efficaci. Non è ammissibile operare un compromesso con interessi diversi da quelli della classe lavoratrice, da quelli di chi produce e lavora. Non è possibile fare rientrare nell’equazione i profitti del padronato.
Anche in tempi di pandemia e di emergenza sanitaria non è utopico pensare di gestire il lavoro domestico in condizioni di sicurezza.
Non solo baby sitter, doposcuola, servizi di assistenza per malati e disabili, ma anche una rete capillare di lavanderie, mense, farmacie e servizi di cura di varia natura per chi ne ha bisogno. Un servizio di pasti che possa raggiungere chi non può più fare la spesa o che deve essere isolato, una rete capillare di luoghi in cui è possibile mangiare gratuitamente in sicurezza, una rete di operatori professionisti che si prendono cura di anziani, disabili e malati, sollevando le famiglie da compiti impossibili da svolgere in solitudine e con la sicurezza necessaria. Questo sistema di socializzazione di tutti quei compiti di cura normalmente assegnati alle donne devono essere svolti in costante collaborazione con un sistema sanitario completamente pubblico e gratuito. Un sistema che ha requisito e nazionalizzato senza indennizzo la sanità privata, ulteriore strumento di profitto del padronato, persino in un momento come questo.
Quanto costa tutto ciò? Pochissimo. Meno di quanto ci costa attualmente essere sfruttate/i. Basta abolire ciò che in un sistema capitalista viene dato per scontato pur essendo incongruo e inutile: il profitto privato ed esorbitante di pochi, l’arricchimento costante di una fascia della popolazione a scapito di un’altra, l’allargamento di una forbice dei redditi che a livello mondiale non conosce pause, la speculazione che ha accelerato persino durante la pandemia.
Il Covid ha messo a dura prova, in negativo, la nostra immaginazione. È tempo di usare la nostra capacità di concepire soluzioni diverse, soluzioni che possono apparire impensabili, com’è utopico e impensabile proseguire con il sistema attuale. Soluzioni che presuppongono che ognuno di noi prenda consapevolezza più concreta dell’assurdità di voler preservare i privilegi di pochi in cambio della vita di molti.