Se tutto va bene siamo rovinati
Le “riforme” di Lega e M5S sono fumo negli occhi dei lavoratori, vanno smascherate e combattute in quanto tali
Lunedì 17 settembre a Palazzo Chigi si è tenuto il vertice tra i due (vice)premier Salvini e Di Maio e il ministro dell’economia e delle finanze Giovanni Tria.
Tema: le possibilità economiche per l’attuazione delle promesse elettorali dei due partiti al governo, ossia flat tax e pace fiscale per la Lega, reddito di cittadinanza per il M5S.
Il professore di economia, un “indipendente” nel glossario doppiopesista del governo del Cambianiente, nella sostanza un tecnico in nulla differente dall’odiato Monti, è subentrato al precedentemente proposto Paolo Savona dato l’odore di euroscetticismo di quest’ultimo, non perdonatogli nemmeno dopo i più miserevoli autodafé.
Tria è il custode e il messaggero del grande capitale del continente, il quale risponde chiaramente alle borghesie “ribelli” in ascesa in tutto il mondo: “Se voi, piccola e media borghesia prosciugate dalla mia polarizzazione, vorrete razzolare tra le macerie che dietro di me ho lasciato, saccheggiando i poveri e togliendo solo a quelli ricchezze per voi, fate pure! Mi preme esclusivamente che l’operazione si esaurisca tutta in là dal confine che separa voi, media e piccola borghesia, da me, la grande. Di là della linea di displuvio, tutte le manbasse delle borghesie indebolite dalla mia avanzata contro gli ultimi e gli ultimissimi sono permesse. Ma che non si sconfini un centimetro in qua! Che non s’intacchi di un centesimo il grande capitale! Che voi, borghesie subalterne, non vi crediate di rifarvi del bottino venendo a ripretenderlo da me! Dividetevi quel che è rimasto nelle secche terre delle mie razzie; ma non accostatevi alle mura del mio impero”.
Con suo rincrescimento, però, una vecchia legge storica vuole che allorché si venga alla crisi di sistema, che coinvolge dalla media borghesia fino al proletariato, il grande capitale non può essere agevolmente tenuto fuori nemmeno dalle condanne dei medio e piccolo-borghesi. Quando la borghesia perdente si arrabbia, non può far a meno di lanciare, più o meno cautamente, qualche strale contro quelli che sono con sempre maggiore evidenza i responsabili della sua pauperizzazione. Mussolini li chiamava “plutocrati”, Salvini li chiama “signori di Bruxelles”, il M5S, “poteri forti”.
La “Quarta repubblica” italiana, si vede, non fa eccezione. Anche l’ultrareazionaria union sacrée Lega-M5S non ha potuto esimersi – naturalmente solo a parole, e parole decontestualizzate da ogni analisi sistemica – da qualche nota sul registro al grande capitale, provocandone la reazione e costringendolo, a fasi alterne, alla rimarcazione di quella linea di confine.
Questa la ragione dal puntiglioso no a Savona fino, da ultimo, alla minaccia di discesa in piazza di Confindustria contro il governo affinché la direzione smetta, ha lamentato Vincenzo Boccia, di continuare a indicare mediaticamente l’impresa come il nemico.
Giacché anche i sassi sanno che la Lega e il M5S giurano e spergiurano sul bene dell’impresa, che è proprio per la salvaguardia della piccola e media impresa che nacquero, è trasparente che le rimostranze dei capitalisti siano dovute soltanto all’atteggiamento “antispeculatori” del nuovo esecutivo; per esempio sul caso del viadotto Morandi, le desecretazioni dei profitti dei Benetton con minacce di nazionalizzazione (cadute nel nulla), o il decreto dignità, reo solo di mimare un attacco al diritto del grande profitto, di porne in discussione la legittimità.
Anche se nella sostanza è ben al sicuro, il grande capitale ne fa una questione ideologica, una propaganda costante che disinneschi imprevisti, che scongiuri che distratti semi “critici” possano – lungi, anzi, all’opposto diametrale dell’indirizzo dei due partiti in questione – maturare frutti pericolosi presso le masse.
La tendenza internazionale è quella del capitalismo assoluto e, per ipocrite che siano, non sono accette nemmeno posture “ideologiche” contro di esso. Di questa tendenza internazionale è il prodotto, per esempio, l’arresto di Lula in Brasile, valletto dei padroni, ma non abbastanza per il livello che esige la nuova configurazione politica ed economica mondiale.
Ora Giovanni Tria – uomo di fiducia di Forza Italia, partito di fiducia del grande capitale – non avrebbe mai visto l’ombra di un dicastero se il capitalismo unito non lo avesse voluto. È dunque un funzionario del capitale, lì inviato a far da scudo contro l’imprevedibilità degli arrabbiati medio e piccolo-borghesi.
La sentenza del professore (leggi: del grande capitale di finanza e di mercato) è stata lapidaria: sia la flat tax che il reddito di cittadinanza sono fattibili a una sola condizione: la soglia dell’1,6% deficit-PIL non dev’essere superata, sprecano il tempo i dioscuri giallo-verdi a insistere sul 2%. Se con un debito pubblico di 2.341,7 miliardi, peraltro in rialzo, l’Italia pensa di chiedere fondi a Bruxelles per le percentuali proposte, Tria ammonisce, fa i conti senza l’oste.
All’interno delle mura dell’impero, rimangono due strade: o rassegnarsi alla inesistenza di margini reali per manovre sociali, oppure, consiglia il titolare di Via XX Settembre riscoprendo il forzista che è in lui, inventarsi una ennesima spending review. Alla quale mai si accennò ma che, con alte probabilità – a meno di disattendere a tutte le promesse elettorali – si farà. E del resto né Lega né, nelle amministrazioni comunali, M5S sono nuovi ad austerity e privatizzazioni pur di pompare i propri bilanci e limare debiti. Figurarsi cosa non si fa per accreditarsi presso “il popolo” e consolidarsi come regime nel sogno di Maroni!
Tagli alla spesa pubblica per il 2,1/ 2,2% di disavanzo sono necessari a Salvini e Di Maio per le loro riforme.
Parafrasando Maria Antonietta, “I plebei sono affamati? Che si amputino un braccio e se lo mangino!”.
Ma a prescindere dal vertice Tria-Salvini-Di Maio, bisogna comprendere come e perché le riforme di Lega e M5S siano delle empietà in sé, al netto della loro futura attuazione o meno.
Di poche parole ha bisogno la flat tax, che propone la più grande detassazione per i ricchi della storia della Repubblica, riducendo ancora di più le aliquote per le imprese. Chi fattura fino ai 65.000 euro è tassato per il 15%, chi ne fattura fino a 100.000, del 20. Una barbarie inaudita, ma perfettamente coerente con la natura della Lega, partito ultraliberale dalla selvaggia vocazione antistatale fin dai tempi della secessione (tempi sempre vivi nel sottobosco del suo bacino elettorale). Può giovare invece sottolineare come il M5S, che qualcuno ha creduto potesse far le veci di una sinistra inesistente, sia perfettamente d’accordo con questa misura, purché (quando si ha la faccia come il suo opposto!) “aiuti la classe media e le persone più disagiate, non i ricchi”. Persone disagiate che fatturano 100.000 di euro. Strano concetto di disagio, quello dei “populisti” pentastellati.
Ancora la Lega si batte per la pace fiscale, intendendo condonare i contribuenti che abbiano contenziosi fiscali con lo Stato fino a un milione di euro. Quell’ordine che il Frollo di Lambrate promette su immigrazione clandestina e occupazioni abusive a suon di porti chiusi, taser a carcere duro, svanisce quando si parla persino delle multe contro la borghesia da lui protetta. Si ribadisce che al “prima gli italiani” della Lega, vada aggiunto “ricchi”. Ma qui come sopra, le vedute economiche della Lega non danno veramente di che sorprendersi, sono obiettivi da sempre perseguiti e mai raggiunti a causa della modesta rilevanza politica e dalla presenza di opposizioni sociali massicce, condizioni entrambe non solo venute meno ma grottescamente volte in suo favore.
Vale fare un’analisi più profonda invece sui due cavalli di battaglia del M5S, il reddito di cittadinanza e le pensioni. Due riforme che hanno l’apparenza di recare un segno progressivo, mentre sono, una volta di più, strumenti di oppressione e disarmo per il proletariato che mantengono inalterate, quando non le peggiorano, le pessime condizioni in cui versano i lavoratori.
Da quando il reddito di cittadinanza è stato strappato al bestiario delle creature favolose e portato nella stringente realtà terrestre, si è largamente esplicitato che non sarà affatto la misericordiosa assistenza che i suoi fautori hanno illuso che fosse (benché Grillo continui disperatamente a rialimentare quella chimera adesso inventandosi il “reddito di vita”), ma qualcosa di ben più banale e brutale. Una versione peggiorativa del sussidio di disoccupazione, battaglia da tempo abbandonata dalle sinistre liberali che hanno governato in Italia e nel mondo. Peggiorativa perché mentre una sinistra che voglia almeno definirsi tale combatte non solo sul fronte della disoccupazione con misure di assistenza, ma al tempo stesso per migliorare le condizioni di lavoro sui posti esistenti, quelli che spetteranno ai disoccupati, il M5S non vuole sentire parlare di lotta allo sfruttamento e di diritti sindacali. Come ha spiegato un sempre cristallino Luigi Di Maio, il reddito di cittadinanza (nel vieppiù difficile caso che si realizzi) consisterà in un sussidio di 780 euro mensili ai disoccupati, i quali riceveranno, di lì a breve, tre proposte di lavoro. Tre proposte di lavoro assolutamente a caso, che non tengano conto delle competenze e della formazione del richiedente lavoro. Se tutt’e tre le proposte saranno rifiutate, il richiedente lavoro perderà il sussidio.
Il reddito di cittadinanza è il sussidio di disoccupazione nel regime del pieno capitalismo, ed è la copia in carta carbone della tedesca riforma Schröeder. I lavoratori sono ignobilmente sbattuti da un padrone all’altro (e così in Italia, né il reddito di cittadinanza né il decreto dignità combattono il lavoro interinale), spremuti, sfruttati, a corto di ogni diritto e tiranneggiati persino nei giorni di festa, e la loro docilità o riottosità è curricularmente tramandata di padrone in padrone.
Insomma, il reddito di cittadinanza sarà il Caronte, il demone traghettatore di anime verso l’inferno dell’ipersfruttamento. Nulla di più. Offrirà vassoi votivi di vittime al Moloch del capitale grande, medio e piccolo, senza nemmeno promettere di limargli qualche zanna. Il lavoro che c’è, così come oggi si dà, la barbarie assoluta, riceverà generose infornate di agnelli sacrificali, ben incaprettati e imbavagliati. Il Pacchetto Hartz in Germania ha ridotto la percentuale di disoccupazione nazionale, vero. Ma lo ha fatto anche il Jobs act del PD. L’eugenetica economica della borghesia non dà statistiche qualitative. Come diceva Bukowski, “Non c’è da fidarsi delle statistiche. Un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media”.
Il M5S insegue le peggiori controriforme capitalistiche su scala internazionale, e mira a innestarle sul terreno italiano. È tutta qui la sua battaglia. E gli screzi in cui si imbatte contro “democratici” e “tecnici” hanno ragioni, appunto, tecniche, non rivoluzionarie.
Lo stesso vale per la quota cento delle pensioni condivisa con la Lega, ignobile e ipocrita ancor più del reddito. Il piano è di mandare in pensione i lavoratori a 62 anni, contro i 67 imposti dalla Legge Fornero, ma a quale condizione? A condizione che la somma, posta nella più totale arbitrarietà, di età contributiva e di età anagrafica sia pari a 100. Un calcolo studiato astutamente tenendo in conto le condizioni attuali del Paese, soprattutto dei più giovani: tra inoccupazione, disoccupazione e lavoro in nero nella quale versa, secondo ogni indagine Istat, la gran parte degli italiani. Nel migliore dei casi chi delle nuove generazioni ha trovato lavoro stabile a 25 anni, avrà degna pensione a 65; chi a 30, a 70 e così via.
E sulla “pensione di cittadinanza”, che proporrebbe di aumentare le minime a 780 euro, la Lega ha già opposto il suo fermo “giammai”.
Che le palle vadano o non vadano in buca, si pianifica di sguarnire il proletariato e ancora colpirlo, di tenerlo nella miseria e sprofondarlo tanto più, di confonderlo e renderlo incapace di discernere il suo bene dal suo male, inabile alla critica sistemica, renderlo docile e rassegnato al modo di produzione capitalistico e alla sua abiezione come all’unica realtà possibile.
L’alternativa vera, la vera lotta al sistema, il vero cambiamento è l’unione dei lavoratori contro i reazionari illusionisti e i controriformatori, alla conquista di tutto ciò che hanno perso e di quello che non hanno mai guadagnato.
Solo la rivoluzione sociale, solo la lotta di classe nazionale e internazionale cambia le cose. Fuori dalla sua prospettiva, come disse qualcuno, “se tutto va bene, siamo rovinati”.