Contro il governo Renzi, il suo progetto bonapartista e la sua offensiva padronale, costruire un fronte unico di classe, per aprire la prospettiva di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici
Documento politico conclusivo Comitato Centrale PCL dicembre 2014
Il consolidamento nella scorsa primavera del tentativo bonapartista di Renzi
Lo scorso Comitato Centrale del PCL ha sottolineato la pericolosità del tentativo di soluzione bonapartista della crisi italiana. Con il 41% al PD, Renzi ha infatti “preso la testa del principale partito borghese, emarginando le sue vecchie componenti costitutive e riorganizzandolo attorno al proprio comando”; realizzando “un nuovo sistema di governo, fortemente auto centrato, basato sulla ricerca di un proprio rapporto diretto con l’opinione pubblica interclassista, quale leva centrale della propria forza politica, scavalcando le mediazioni sociali e istituzionali con le rappresentanze sociali di classe organizzate”. In questo quadro, ha perseguito “un progetto di riforma elettorale e istituzionale reazionario: una terza repubblica stabilizzata, con un sistema tendenzialmente bipartitico, un parlamento selezionato e controllato”. Un progetto autocentrato, ma al servizio di una nuova composizione del capitalismo italiano, “con l’inserimento di soggetti, gruppi e grandi fondi internazionali nel mercato azionario e anche nel controllo di alcune delle principali imprese italiane”.
Un tentativo che si è consolidato anche per responsabilità della Cgil e della FIOM. Nei mesi precedenti Renzi si era contraddistinto per decreti e deleghe che destrutturavano la contrattazione (ottanta euro, pubblico impiego, precariato, scuola), come per una brutale aggressione alle burocrazie sindacali (riforma dei patronati, taglio dei permessi, chiusura di ogni tavolo negoziale). Pur di fronte a questi attacchi, la Camusso ed il gruppo dirigente della CGIL tentennavano, senza definire una linea d’azione: per molti mesi, persino all’inizio dell’autunno, si rifiutavano di indire uno sciopero contro il governo. Landini ed il gruppo dirigente della FIOM , invece, persistevano in una disinvolta apertura a Renzi, in nome di un riconoscimento (“agenda Landini” su rappresentanza, gestione delle crisi industriali, TFR per aumenti salariali) e della conquista della direzione della CGIL. Un’apertura di credito che per mesi ha rafforzato il governo, legittimando il suo profilo bonapartista al di sopra degli interessi contrapposti di lavoro e capitale.
Nel contempo, nonostante l’approfondirsi della crisi e alcuni conflitti di classe (logistica, Elettrolux, call center, ecc), non si è catalizzata un’opposizione di massa: il corteo del 28 giugno dei sindacati di base, dell’OpposizioneCGIL, dell’estrema sinistra raccoglieva solo poche migliaia di partecipanti (lo spezzone più partecipato, oltre alla USB, era quello del PCL); la manifestazione del 11 luglio dei movimenti antagonisti (che nei mesi precedenti avevano aggregato cortei importanti, di decine di migliaia di partecipanti) era annullata con la cancellazione del vertice europeo di Torino, rifiutando di convergere sul corteo del 28 giugno.
Prospettive di un autunno di lotta, a partire dai limiti del governo e dalle convergenze nell’opposizione sociale e classista
In questo quadro, lo scorso luglio il CC del PCL valutava la possibilità di una ripresa dell’opposizione sociale. Il tentativo bonapartista renziano mostrava infatti evidenti limiti, contraddizioni, rischi di logoramento. Innanzitutto “si scontra con i limiti delle proprie basi materiali. Il quadro di crisi capitalista e le compatibilità della UE restringono pesantemente il suo spazio di manovra. Tanto più in un quadro politico europeo fortemente segnato (…) da una sostanziale stagnazione economica”. La depressione economica, la conferma dell’austerità, la scarsità delle risorse rendevano difficile stabilizzare il consenso e nel contempo probabile nuovi interventi antipopolari. Queste contraddizioni potevano quindi riaprire spazi di conflitto.
Il PCL, pur consapevole delle sue limitate forze, sottolineava la possibilità dell’irruzione sulla scena dell’autunno dei movimenti sociali e del movimento operaio, in grado di ribaltare la stabilizzazione borghese in corso. L’avvio di diversi processi, d’altronde, sembravano confermare questa possibilità.
L’annuncio del governo di una nuova controriforma della scuola aveva trovato un’inaspettata reazione di sindacati e insegnanti, prefigurando un movimento di lotta in grado di connettere comitati precari, sindacati di base, CGIL, studenti. Diversi settori del movimento antagonista (dall’autonomia di classe alle aree “negriane”) avevano lanciato la proposta “per un autunno di lotta”, diversamente da fine giugno aprendo il confronto con sindacati di base e settori classisti. I diversi sindacati di base, a partire da USB e CUB, avevano raggiunto un’intesa per uno sciopero autunnale, connettendosi anche con la sinistra Cgil del sindacatoaltracosa. Infine entrambi questi percorsi convergevano nello Strike meeting di Roma, con l’indicazione del 14 novembre.
Nel quadro di un possibile movimento di massa della scuola, come “l’onda” nel 2008/09 o le lotte di comitati e ricercatori nel 2010/12, emergeva cioè la prospettiva di una mobilitazione antagonista e classista, forse in grado di contrastare lo sbandamento di CGIL e FIOM, che ancora a settembre cercavano da fronti diversi un’interlocuzione con il governo.
Le contraddizioni di Renzi ed il successivo adattamento di linea nell’autunno
Renzi ha effettivamente incontrato i propri limiti.
La riforma istituzionale ha trovato inaspettate resistenze nella palude parlamentare: la proposta di nuovo Senato è stata approvata dopo un aspro dibattito e soprattutto con un risultato più adatto ad una semplice maggioranza che ad una riforma costituzionale di “larghe intese” (183 voti).
I dati economici estivi non solo hanno confermato la depressione italiana, ma hanno riportato un crollo della produzione nel quadro di una stagnazione dell’Eurozona (a partire da Francia e Germania). Crollano quindi molte illusioni e narrative sulla svolta renziana. Di più, il crollo della produzione si riflette nella precipitazione della disoccupazione (in particolare giovanile), mentre si sviluppano alcune crisi industriali che segnano le cronache quotidiane e il panorama sociale del paese (Alitalia, Thyssen Terni, Meridiana, Piombino, Ilva, ecc).
Infine diventano evidenti le difficoltà a “riscuotere” il risultato elettorale sul piano europeo. L’asse italo-francese (governi socialisti UE) si proponeva di conquistare due figure chiave della Commissione: Mogherini come Pesc e quindi come la principale dei due vicepresidenti; Moscovici come responsabile delle politiche di bilancio. Il successo è stato solo formale: la commissione Junker ha introdotto la novità di un “primo vicepresidente” (Timmermans; conservatore olandese), oltre che di numerosi vicepresidenti, tra cui il finlandese Katainen che ha di fatto commissariato Moscovici. Il controllo delle politiche europee è quindi rimasto nelle mani del nocciolo di area tedesca.
In questo quadro, nel corso di settembre è maturato un significativo adattamento della linea di governo. E’ emersa cioè l’esigenza di conquistare il sostegno della struttura di potere del paese: quell’articolato complesso di apparati economici, comunicativi e burocratici che governano i paesi capitalisti, dalle direzioni confindustriali alle redazioni dei grandi giornali, dagli apparati ministeriali alle grandi banche. Nel momento in cui iniziavano le prime manovre di palazzo (esemplificativo l’editoriale di De Bortoli sul Corriere della sera del 24 settembre, con l’accusa a Renzi di uomo solo al comando e in “stantio odore di massoneria”), si è deciso di stringere i rapporti con l’insieme della borghesia. Renzi ha quindi deciso di schierarsi: si è impegnato in diversi incontri delle associazioni industriali territoriali (“i nuovi eroi”), garantendo l’approvazione nello sbloccaItalia e nella legge di stabilità di politiche mai così favorevoli a diversi settori del capitale. Qui si colloca il Job Act, che garantisce il controllo sull’organizzazione del lavoro (demansionamento, videosorveglianza, licenziabilità) e apre la prospettiva di un nuovo sistema di contrattazione. Una linea che si è concretizzata nello scontro con i sindacati, trasformando questo provvedimento in una cesura ideale, politica, simbolica con il mondo del lavoro e le radici laburiste del PD.
Un nuovo campo politico, tra il quadro bipartitico del Nazareno e lo sviluppo di tre poli populisti
Dall’autunno, con il nuovo adattamento del tentativo bonapartista renziano, si è progressivamente definito un nuovo campo politico, segnato da due diverse tendenze. Da una parte si conferma la svolta renziana: la trasformazione del PD in partito centralizzato sul leader (PDR); la legittimazione di Berlusconi come soggetto costituente; la scomposizione e il tendenziale inglobamento delle forze minori; la marginalizzazione del M5S in un contesto Renzi si intesta anche la dimensione antipolitica (attacco alle provincie, ai burocrati, al ceto politico). Da un’altra emergono nuovi attrattori: il “partito della nazione”, cioè un PDR che rescinde ogni legame di sinistra per conquistare settori sociali e politici di centro e di destra (dagli imprenditori del nordest all’elettorato di Scelta civica); la “lega dei popoli”, come riconfigurazione della Lega Nord in un Front National in grado di raccogliere una destra popolare ed antieuropea; il “popolo della rete”, come consolidamento del movimento grillino che, nella trasformazione di Renzi da soggetto eversivo a bonapartista nazionalmente responsabile, conferma le sue radici di opposizione antisistema, reazionaria e movimentista.
In questo intreccio di diverse tendenze emergono però incongruenze e resistenze.
In primo luogo, precipita la crisi radicale del berlusconismo, che si concentra sulla salvaguardia del proprio nocciolo fondante (azienda e famiglia), perdendo consenso verso i tre attrattori emergenti e innescando la frammentazione di Forza Italia in un’incipiente lotta di successione sempre bloccata ai nastri di partenza. Pur rimanendo un soggetto costituente, si riduce progressivamente sia la sue forza potenziale (elettorato), sia il controllo del suo significativo gruppo parlamentare.
In secondo luogo, l’adattamento e la cesura autunnale hanno rilanciato il conflitto nel PD. La minoranza democratica raccoglie diverse tendenze: componenti liberali rottamate (D’Alema, Letta, Boccia); un corpo social-liberale, che ingloba le sue radici laburiste (Bersani, Epifani, Damiano; Zoggia); una piccola componente “azionista”, cioè democratico radicale (Civati, Mineo, Mucchetti), che talvolta si accompagna ad una cattolico-sociale (Bindi); alcune individualità, più che componenti, socialdemocratiche (Fassina, Cofferati). La strappo autunnale e il conflitto aspro con la CGIL hanno riattivato queste componenti nell’obbiettivo di logorare Renzi, per preparare qualche inciampo (a partire dall’elezione del nuovo Presidente della Repubblica) e costruire le basi di un cambio di regime nel PD. In questa dinamica, sembra improbabile che si possa determinare una reale spaccatura del partito, se non per le sue componenti marginali, azioniste (Civati) o socialdemocratiche (Fassina).
In terzo luogo, entrambe queste tendenze marginalizzano la sinistra. Il quadro bipartitico del Nazareno cancella il suo spazio politico, anche delle forze ancillari, per inglobarne elettorato e, se proprio necessario, ceto politico. I tre attrattori emergenti tendono ad inglobare qualunque interesse particolare nelle loro diverse e contrapposte visioni comunitarie (la nazione, i popoli, la rete). Tendono cioè ad eliminare ogni autonomia di classe, cercando di mediarne la rappresentanza: pensiamo alla ricerca di Renzi di un rapporto con la FIOM, anche dopo le cariche della Thyssen; al referendum sulla Fornero della Lega, anche cercando il sostegno di settori CGIL; al rapporto del M5S col sindacalismo di base, i movimenti noTAV, la stessa FIOM.
Una nuova fase di scomposizione della sinistra
In questo processo, la sinistra è travolta da una nuova fase di scomposizione e annichilimento.
SeL, dopo aver sostenuto la lista Tsipras, si è dibattuta per mesi tra il suo consolidamento (soggetto alternativo al PD renziano), la ricostruzione del centrosinistra (coalizione dei diritti e del lavoro, lanciata a Santi Apostoli), l’inglobamento nel PD renziano (Migliore e l’ala dialogante, uscita e rimasta in SeL). In un vorticoso succedersi di eventi – tra rotture annunciate (uscita dei “miglioristi”), conferma delle coalizioni con il PD (Piemonte, Emilia, Puglia, ecc), annunci che non sembrano mai concretizzarsi (Santi Aspostoli) – ad imporsi è stata la confusione.
Tsipras, orfano di SeL, ha attraversato l’autunno nella perenne lite dei suoi gruppi dirigenti, ristretti ed autonominati, non riuscendo a darsi né un assetto né nemmeno un nome. Confermando il profilo aclassista e comunista di impostazione bertinottiana, incontrando sconfitte elettorali (Piemonte e Calabria) e un parziale successo (Emilia), è rimasta bloccata negli scontri condominiali tra intellettuali di sinistra, intellettuali democratici e PRC. PRC a sua volta frammentato in molteplici componenti: chi punta alla conquista di Tsipras (Ferrero), chi vuole una rifondazione comunista permanente (Targetti), chi cerca il partito di massa, per esserne la corrente di classe (Falcemartello), chi vuole fondersi col fantasma del PDCI per rifare un PC (Steri) e chi cerca di riunificare la sinistra nelle istituzioni (Grassi). In questa maionese oramai impazzita, sul piano politico e nei rapporti personali, Ferrero è minoranza nel CPN, ma nessuno è maggioranza. E forse si aspettano solo i titoli di coda, o che qualcuno arrivi a chiudere la porta.
In questo quadro dominato dalla confusione, registriamo anche lo stallo di Ross@. Il nuovo soggetto dell’estrema sinistra, che si proponeva la conquista di uno spazio anche elettorale attraverso l’accumulazione di forze politiche, sindacali e sociali, è praticamente collassato, nella difficoltà a raccogliere un’avanguardia diffusa (forse proprio perché è l’avanguardia ad essersi dispersa) e nel contrasto tra un soggetto costituente neostalinista (Rete dei comunisti) ed uno movimentista di lontana matrice trotskista (Sinistra anticapitalista). Sopravvive quindi oggi come ennesima manifestazione del gruppo dirigente ristretto della USB , gli ex-OPR, che raccolgono intorno a se sparsi spezzoni locali dell’estrema sinistra.
Il difficile avvio dell’autunno, tra lotte disperse e disgregazione sociale
Questa confusione ha contribuito al dispiegarsi di molteplici mobilitazioni nell’autunno, ognuna delle quali tesa ad affermare la propria identità: il 17 settembre lo sciopero Unicobas; il 27 settembre il corteo per la Palestina; il 4 ottobre la manifestazione SeL; il 10 ottobre lo sciopero di studenti, autoconvocati, Cub e Cobas scuola; il 16 ottobre la giornata di mobilitazione dell’area antagonista; il 24 ottobre lo sciopero generale della USB; il 25 ottobre il corteo CGIL; 8 novembre il corteo CGIL CISL UIL del pubblico impiego; il 14 novembre lo sciopero sociale (area antagonista, sindacati di base; sinistra Cgil), a cui si aggiunge all’ultimo FIOM alta Italia; il 29 novembre la manifestazione di Tsipras. Un quadro che ha determinato un primo ostacolo, soggettivo, alla costruzione di un fronte unico. L’autunno è dominato dalla scomposizione e dalla contrapposizione dei diversi percorsi, più che da una tendenza all’unità delle lotte. Di più, in questo contesto si rompe il fronte dei sindacati di base, con la decisione USB di convocare lo sciopero del 24 ottobre, ed il 14 novembre assume la valenza di uno “sciopero sociale” che intreccia le rappresentanze operaie della Fiom, e non di un’iniziativa antagonista e classista.
Il secondo ostacolo alla prospettiva di un fronte unico sta negli stessi limiti della dinamica di lotta. I conflitti dell’autunno rimangono isolati e dispersi, anche quando sono radicali, anche quando sono percepiti come esemplificativi di una condizione generale: i 35 giorni di sciopero prolungato dei lavoratori di Terni non solo non si coordinano con le fabbriche in crisi, ma neanche con le altre grandi acciaierie che stanno subendo processi di ristrutturazione (ILVA di Taranto e Lucchini di Piombino). I conflitti per chiusure o ristrutturazioni rimangono ripiegati su stessi, all’inseguimento del “salvatore” di turno o di mediazioni su licenziamenti e intensificazione del lavoro (turni, orari, ritmi). Al massimo trovano una solidarietà episodica nel proprio territorio, ma non sono in grado di innescare una vertenza ricompositiva, fosse anche solo di impianto riformista e neokeynesiano (ad esempio per la nazionalizzazione dell’acciaio).
Nel contempo, il movimento della scuola, che poteva ricoprire un ruolo generale di opposizione al governo, non è partito. Non che sia mancato il dissenso. Ma da una parte è prevalsa l’attesa dei provvedimenti, anche nei suoi possibili risvolti positivi (150mila assunzioni), dall’altra hanno pesato le titubanze sindacali, della FLC in primo luogo (che non ha voluto anticipare la CGIL, rompere il rapporto con Cisl e Uil, contrapporsi a diversi elementi del Piano scuola). Il 10 ottobre lo sciopero degli autoconvocati è stato sostanzialmente limitato a Roma. I cortei studenteschi hanno coinvolto poche migliaia di persone, anche nelle grandi città (Roma, Milano, Napoli). Le autogestioni e le occupazioni non sono partite, se non in sporadici episodi.
Con l’autunno, infine, è emerso il crescente logoramento sociale. L’erosione dei risparmi, la riduzione dei sostegni (ammortizzatori, assegni, servizi), il crollo dell’occupazione hanno prodotto in questi anni una progressiva crescita del degrado sociale. Questi processi hanno raggiunto nell’autunno un’evidenza politica, e non solo statistica, con l’esplosione di conflitti etnici e popolari nelle periferie di grandi città (San Siro, Corvetto e Giambellino a Milano; Corcolle e Torre sapienza a Roma; campi rom a Torino). Dinamiche che erano episodiche (comunità cinese o africana a Milano; Via Anelli a Padova) o relegate ad alcuni contesti meridionali (Scampia, Castel Volturno, Rosarno), sembrano oggi diffondersi in molteplici realtà. I conflitti sociali si esprimono anche su un terreno territoriale e identitario, che consolida la scomposizione e l’arretramento della coscienza di classe. Già oggi, la Lega e l’estrema destra tentano di generalizzare queste dinamiche, provando a cavalcare il malcontento che sale dai quartieri popolari. La riuscita manifestazione milanese dello scorso 18 ottobre, oltre che i ripetuti tentativi di Salvini e Borghezio di incunearsi nelle contraddizioni sociali delle aree periferiche delle grandi città, segnalano un possibile salto di qualità dell’iniziativa reazionaria. Nella prossima fase uno dei nostri compiti politici sarà quello di proporre e praticare una politica di fronte unico, capace di connettere la necessaria mobilitazione antifascista e antirazzista con una più ampia iniziativa politica, protesa a coinvolgere nella lotta di classe quegli stati proletari provi di coscienza di classe, che oggi rischiano di essere irretiti dalla demagogia populista e fascistoide.
L’uscita dalla paralisi della CGIL, la ripresa di un’opposizione di massa
L’apertura di un conflitto frontale sul lavoro ha però ulteriormente modificato il quadro. Il dato principale di questa fase è che, con l’avanzare dell’autunno, la burocrazia Cgil è uscita dalla paralisi. Di fronte ad un attacco politico generale la CGIL e la FIOM hanno finalmente reagito, risolvendo più o meno temporaneamente le loro divergenze. Hanno reagito non solo sul piano della rappresentazione del conflitto (le dichiarazioni contro Renzi, il “cinegiornale” web; le spillette CGIL con il gettone): hanno avviato una mobilitazione di massa prima con il corteo del 25 ottobre, poi con gli scioperi e i cortei FIOM di Milano e Napoli, infine con lo sciopero generale. Una mobilitazione che si diffonde negli scioperi aziendali e territoriali, come nelle contestazioni a Renzi (a partire dalla prima, in Valle Seriana, organizzata dalle fabbriche in cui è presente l’OpposizioneCGIL), che sono ora sostenute anche dalla burocrazia sindacale.
Questa mobilitazione ha modificato il quadro, perché è emersa un’opposizione di massa, organizzata per di più da un soggetto sindacale: un’opposizione centrata su una dimensione di classe. Un senso comune di massa contro il governo ha potuto costruirsi, perché un grande soggetto organizzato gli ha dato forma ed espressione. Questo il risultato fondamentale della scelta della CGIL, che va oltre le sue intenzioni e anche oltre la sua reale capacità di mobilitazione. Oltre le sue intenzioni, perché nella CGIL permane la linea strategica dell’accordo con governo e produttori: la scelta del conflitto è temporanea, diretta a modificare i rapporti di forza, incerta nei tempi, nelle forme, nelle parole d’ordine. Oltre la sua capacità di mobilitazione, perché ad oggi sono coinvolti settori limitati: al corteo del 25 ottobre hanno partecipato realmente 150/200mila persone (soprattutto quadri e dirigenti diffusi della CGIL), agli scioperi ha sinora aderito solo la parte più cosciente della classe, nelle contestazioni sul territorio manifestano in prevalenza militanti politici e sindacali. Ma anche solo questa incerta e limitata mobilitazione ha segnato una contrapposizione netta tra movimento dei lavoratori (e delle lavoratrici) e governo. Nella dinamica politica si è quindi iniziato ad inserire un nuovo elemento: l’apertura di uno spazio politico a sinistra, sospinto dalle piazze della CGIL. Il voto dell’Emilia Romagna, una regione di storico riferimento della sinistra, non rappresenta semplicemente il rigetto della degenerazione del ceto politico locale, ma esprime anche se non soprattutto una profonda disaffezione verso Renzi e il suo governo.
La prospettiva dei prossimi mesi: un quadro mondiale di acutizzazione della crisi
Nei prossimi mesi questi processi arriveranno ad un loro punto di risoluzione: il tentativo bonapartista di riforma istituzionale (sostenuto dal patto del Nazareno), la costruzione di un nuovo campo politico, lo scontro tra sindacati e governo, il consolidamento o la scomparsa di uno spazio politico a sinistra del Pd. Diversi avvenimenti segneranno questi processi: il risultato dello sciopero del 12 dicembre, la capacità della CGIL di proseguire la lotta contro il governo, l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, l’applicazione concreta della legge di stabilità e del Job Act, le elezioni delle RSU nel pubblico impiego, le elezioni regionali, la riforma elettorale. Ma al di là di questi e altri avvenimenti, come l’adattamento autunnale è stato fondamentalmente dettato dalla dinamica della crisi (il crollo della produzione italiana e la stagnazione dei grandi paesi europei), così la prossima fase sarà influenzata fondamentalmente dall’evoluzione economica e, in particolare, della dinamica europea. Non possiamo qui che confermare le valutazioni dell’ultimo CC del PCL.
“La crisi capitalista continua a segnare lo scenario mondiale… In un quadro di marcato sviluppo ineguale e combinato tra i diversi poli mondiali, permangono se non si aggravano le contraddizioni tra la necessità capitalista di una distruzione generalizzata di capitale; la contrasta costruzione di blocchi continentali con resistenze e contese tra diversi governi e capitali nazionali; l’attivazione ripetuta di immani interventi finanziari (di stampo monetarista o neokeynesiano) da parte dei principali governi e della principali banche centrali per tentare di non far precipitare i disequilibri strutturali esistenti; l’esplosione discontinua e disomogenea di lotte sociali della classe operaia asiatica, dei settori popolari e della piccola borghesia nei paesi a capitalismo maturo, delle masse semiproletarie della periferia mondiale. La risultante di queste diverse contraddizioni è il permanere e l’aggravarsi delle turbolenze economiche e politiche internazionali, con una crescente tensione tra aree monetarie e tra potenze, anche sul piano militare”.
I mesi scorsi hanno evidenziato la progressiva riduzione della crescita in Cina. Per vent’anni questa è stata dominata dagli investimenti (50% del PIL). La riduzione dei tassi di sviluppo apre quindi il rischio di una crisi dell’opaco mondo finanziario cinese, che si è costruito su questi immani investimenti immobiliari e infrastrutturali. Nel contempo la necessità di modificare la struttura produttiva con l’espansione del mercato interno e degli investimenti diretti esteri (imperialismo cinese), apre la possibilità di un complesso periodo di transizione con crisi settoriali e conflitti dispiegati. In un contesto sociale segnato non solo da una piccola borghesia urbana che aspira a maggiori livelli di consumo (“il sogno cinese”), ma anche da una nuova generazione operaia cresciuta in città, più consapevole di sé, con alle spalle un decennio di lotte economiche vincenti ed il miglioramento progressivo di salari e condizioni di vita. Le contraddizioni dello sviluppo cinese sembrano cioè accumularsi, rendendo forse più difficile che nel prossimo periodo questo polo capitalista possa intervenire nella crisi mondiale con una funzione di riequilibrio, come nel decennio passato. Nel contempo la dinamica giapponese, con il crollo nel secondo trimestre (-7%) e la sua prosecuzione nel terzo, ha reso evidente i limiti di una politica monetaria neokeynesiana, a fronte di una crisi strutturale di sovrapproduzione. La diversa prospettiva economica asiatica, che ha rappresentato in questi anni la principale controtendenza alla crisi, ha immediatamente prodotto conseguenze negli equilibri mondiali.
Innanzitutto, sul piano economico. In Europa questa dinamica approfondisce la stagnazione dell’Unione e le sue contraddizioni: l’Eurozona, nel quadro di una strisciante instabilità finanziaria per le resistenze della BCE al quantitative easing ed a garantire i debiti sovrani, deve affrontate oltre alla lunga depressione dei paesi mediterranei anche la crisi del suo nocciolo produttivo, per la limitazione delle esportazioni asiatiche e il contemporaneo blocco della domanda aggregata continentale. Nei paesi in via di sviluppo, dall’Africa al Latinoamerica, la forte diminuzione del prezzo delle materie prime (dovuto all’espansione degli scorsi anni ed alla ridotta domanda asiatica), mette a rischio in molti paesi non solo la tenuta dei conti e delle monete, ma anche la stessa dinamica di sviluppo (finanziato dai surplus delle materie prime) e soprattutto il precario equilibrio politico interno.
In secondo luogo, sul piano della competizione capitalistica. Gli Stati Uniti, sospinti da una lunga espansione trainata dalla FED (stampa incontrollata di moneta) e dalla crescita della propria produzione petrolifera, riuscendo a dilazionare nel tempo l’esplosione delle bolle finanziarie prodotte da queste politiche, rappresentano oggi un elemento di parziale controtendenza alla crisi in corso. Fermo restando le contraddizioni delle loro guerre mediorientali, hanno potuto rilanciare una proiezione imperialista impostando la costruzione di due aree commerciali di riferimento, in Atlantico e nel Pacifico, volte a isolare Russia e Cina. Cina che è spinta dalla sua dinamica di sviluppo capitalista ad una più aggressiva presenza nei mercati mondiali (anche in termini di investimenti diretti), in primo luogo verso il controllo del Pacifico.
In questo contesto, rischiano quindi di acutizzarsi le tensioni interimperialiste, con lo sviluppo di guerre commerciali annunciate (aree contrapposte nel Pacifico, competizione per le relazioni con la UE) o appena cominciate (prezzo del petrolio). Al netto di nuove precipitazioni per choc finanziari imprevedibili o per eventi geopolitici, lo scenario economico nel breve e nel medio periodo sembra quindi segnato dall’approfondimento della crisi e della competizione imperialistica, da un’acutizzazione delle contraddizioni fra e nei poli di sviluppo.
Il governo Renzi non sembra quindi trovare un sostegno nel quadro internazionale. Il tentativo di stabilizzazione istituzionale non sarà accompagnato da una ripresa o da una riduzione delle contraddizioni tra centro e periferia del continente. Il conflitto di classe aperto non potrà contare su un reale terreno di ricomposizione. Questo nonostante la moderazione che ancora contraddistingue il gruppo dirigente CGIL e quello della FIOM, che rischiano con la loro prudenza di determinare una diluizione e quindi una sconfitta della lotta contro il governo. Tanto più se, ad oggi, si è riusciti ad innescare solo l’avvio del conflitto, ma non ancora un reale movimento di massa.
Fronte unico di classe: sostenere la lotta della CGIL, combattere la sua direzione, costruire assemblee e coordinamenti di delegati/e
In questo quadro, come CC del PCL, ribadiamo la linea del fronte unico di classe, una linea propagandistica rivolta in particolare alle avanguardie politiche e sociali. Oggi che è stato aperto il conflitto con il governo Renzi, e che è stato aperto per la difesa di diritti e salari di lavoratori e lavoratrici, è importante che questo conflitto sia combattuto sino in fondo. Per evitare di rilanciare quei processi di scomposizione della coscienza di classe che, come abbiamo visto, sono profondamente radicati nel mondo politico e sociale del nostro paese.
La linea del fronte unico si pone quindi oggi, in primo luogo, l’obbiettivo di sottolineare la priorità di condurre sino in fondo il conflitto con il governo, costruendo ed allargando l’opposizione di massa a Renzi ed alle sue politiche. In una dinamica che ha visto sinora marginalizzate le forze dell’estrema sinistra ed assenti i movimenti autorganizzati, la nostra proposta dovrà concentrarsi nel sostegno alla scontro di massa che si è aperto: quello avviato dalla CGIL. Invitando innanzitutto a concentrare tutte le energie sulle mobilitazioni e gli scioperi della CGIL e della FIOM, come ha fatto il 14 novembre il SI Cobas, partecipando al corteo FIOM di Milano. Invitiamo ogni soggetto a sostenere questa lotta con la propria identità, la propria piattaforma e la propria prospettiva. Nel comune interesse della sconfitta del governo Renzi.
In secondo luogo, la linea del fronte unico deve tenere in considerazione che il gruppo dirigente di questa lotta è sinora centralizzato nella CGIL e nella FIOM: cioè in un gruppo dirigente segnato nel caso della Camusso da una strategia concertativa di fondo (patto dei produttori), da una profonda moderazione politica e dalla ricerca dell’unità con Cisl e Uil; nel caso di Landini da un’impostazione settoriale e vertenziale, da profonde incertezze sulla generalizzazione delle lotte, da un’impostazione riformista neokeynesiana, dall’obiettivo della conquista della direzione della CGIL (anche in relazione con Renzi). Se l’obbiettivo principale è la prosecuzione della lotta, dobbiamo nel contempo denunciare responsabilità e scelte strategiche di Camusso e Landini. Ma soprattutto dobbiamo sviluppare ogni possibile contrappeso, dentro questa lotta, alla direzione burocratica di CGIL e FIOM. In questa direzione dobbiamo rilanciare il nostro sforzo per costruire percorsi di unità d’azione, sul piano territoriale e su quello nazionale, con le altre forze classiste sindacali e della sinistra. Cioè percorsi di coordinamento e iniziativa con le altre forze sindacali e politiche della sinistra centrista e dell’estrema sinistra, che organizzano larghe avanguardie politiche, sociali e di classe.
In terzo luogo, la linea del fronte unico deve rivolgere, innanzitutto alle avanguardie, la proposta di costruire assemblee e coordinamenti di delegati/e, eletti nei posti di lavoro: per comporre una piattaforma unificante della mobilitazione, per una direzione democratica e di classe delle lotte. Per lo sviluppo della lotta di classe, l’elemento determinante non è mai la vittoria del singolo conflitto, ma come questo è condotto. Proponiamo quindi di costruire un’assemblea nazionale di delegati eletti nei luoghi di lavoro, in tutte le categorie, per definire una risposta di lotta di pari radicalità e una piattaforma di mobilitazione unificante, oggi clamorosamente assente. Una piattaforma che leghi la rivendicazione del ritiro incondizionato delle misure governative a un piano più generale di obiettivi e soluzioni alternative.
In una fase segnata dall’arretramento della coscienza di classe e delle avanguardie di massa, dal ruolo delle burocrazie sindacali, dalla pretesa di autosufficienza di molti sindacati di base, tale proposta di organizzazione democratica delle lotte può articolarsi, in una prima fase, in due obbiettivi parziali: da una parte la costruzione di comitati di sciopero e di lotta, che possano raccogliere delegati e avanguardie di ogni appartenenza sindacale e che possano coordinarsi sul territorio, per promuovere sia mobilitazioni, sia una piattaforma generale unificante; dall’altra la costruzione di assemblee e coordinamenti di RSU, cioè delle rappresentanze sindacali elette dai lavoratori nel quadro degli vigenti accordi burocratici, che possono però favorire la convergenza di diverse appartenenze sindacali, la generalizzazione dai propri settori di appartenenza, e infine innescare uno sganciamento potenziale dalle direzioni burocratiche. Queste due proposte di agitazione, i comitati di lotta e le assemblee RSU, sono non casualmente centrati su una dimensione di classe, distinguendosi dalle prospettive movimentiste degli strike meeting, delle generiche assemblee di movimento o dell’incontro di rappresentanti dei soggetti della lotta di classe vecchi (FIOM) e nuovi (centri sociali, precari, studenti).
In questo quadro complessivo di proposta, quindi, il CC del PCL si impegna a tradurre:
1. la lotta per la costruzione del fronte unico di classe con le forze politiche e sindacali che si oppongono a Renzi in una campagna nazionale del partito, facendone elemento caratterizzante di tutta la sua iniziativa politica e facendosi protagonista attiva di tale processo;
2. la lotta per la costruzione di un’unità d’azione con le altre forze politiche e sindacali classiste nella partecipazione e nel sostegno a forme di coordinamento e di iniziativa comune, sul piano nazionale e su quello territoriale, anche attivando in prima persona percorsi di questo genere ove ce ne siano le condizioni (anche come momento di costruzione del partito stesso e del suo ruolo nello scenario italiano);
3. la lotta per l’assemblea dei delegati e delle delegate, eletti in occasione di questo movimento di lotta nei luoghi di lavoro (parola d’ordine propagandistica che probabilmente oggi non ha possibilità di impattare in una scala significativa a livello di massa, anche se deve esser sempre proposta), anche nel sostegno e la partecipazione a coordinamenti RSU, comitati di sciopero, assemblee permanenti e nuclei organizzati per lo sviluppo di questa lotta, oltre che ove possibile alla loro attivazione in prima persona (iniziativa che può avere un effetto non trascurabile per la costruzione del nostro partito e la sua riconoscibilità nella classe).
Una battaglia teorica per la centralità ed il fronte unico di classe.
La battaglia per il fronte unico e la centralità di classe, in questo quadro, non deve esser condotta esclusivamente sul piano dell’intervento politico, ma anche su quello della battaglia teorica. L‘obbiettivo di fase con cui ci rivolgiamo all’avanguardia politica e sociale è quello di ricostruire una coscienza di classe diffusa. Ricostruire identità, simboli, immaginari e prospettive della lotta: perché solo nel quadro di un avanzamento diffuso della coscienza di classe, su un rinnovato antagonismo anticapitalista, sarà possibile costruire un progetto politico rivoluzionario. Un antagonismo di classe che nel contesto italiano, paradossalmente, non è contestato dalle forze riformiste o dalla burocrazie sindacali (che in generale hanno abbandonato il campo di battaglia teorico), ma è attaccato dal versante dell’estrema sinistra.
In primo luogo, dopo il successo dei cortei antagonisti dello scorso anno, è ripresa una narrazione che ha trovato un importante successo comunicativo e ideologico con il 14 novembre: lo “sciopero sociale”. Questa rappresentazione politica del conflitto prende corpo da un’analisi teorica, di natura post-operaista biopolitica (Toni Negri, Michel Hardt) o postfordista da capitalismo cognitivo (Andrea Fumagalli, Yann Moulier Boutang, Bernard Paulré), tale per cui la produzione di valore e quindi di capitale è oggi “socializzata”: sono le relazioni delle persone, il general intellect, che valorizzano il capitale, in particolare attraverso prodotti immateriali (conoscenze, creatività, brand, ecc). Il dominio “del capitale” non avviene più nel controllo del lavoro, ma attraverso forme di dominio sociale (dalla microfisica del potere al controllo della moneta, dei mercati finanziari, del debito pubblico), che possono esser rotte a partire da una volontà di potenza collettiva (potere costituente, zone liberate, produzione sociale autovalorizzante come beni comuni o open source). In questo quadro di riferimento, non c’è più alcun senso nel condurre una lotta di classe attraverso uno sciopero (blocco della produzione capitalista del valore), in quanto i settori industriali sono solo residuali; né ha senso uno sciopero politico diretto alla presa del potere, in quanto lo stato nazionale ed il potere politico sono sussunti dal “sistema imperiale” e “biopolitico” del potere. La lotta può quindi esser condotta attraverso uno “sciopero sociale”, cioè il rifiuto volontaristico del nuovo proletariato cognitivo e relazionale di assoggettarsi al capitale: in generale tutte le persone che, non avendo altro bene se non la propria mente, sono produttivi anche se non lavorano in quanto connessi alle reti sociali creative; in particolare settori di lavoratori autonomi di seconda generazione, professionisti ICT, giovani precari e inoccupati che si organizzano nelle reti dei movimenti antagonisti. In questa fase, segnata da arretramenti e scomposizioni nell’avanguardia e nella coscienza di classe diffusa, tali nefaste posizioni politiche, già in azione ed egemoni da anni all’interno di movimenti, centri sociali e avanguardie studentesche, possono ancora più facilmente penetrare nella rappresentazione di massa e nell’universo mediatico (come in occasione del 14 novembre), e permeare in tal modo diversi settori di proletariato e lavoro dipendente, rallentando ulteriormente i processi di formazione di una nuova avanguardia di classe.
In secondo luogo, possiamo registrare la ripresa, sul piano teorico e nel senso comune di larghi settori della sinistra militante, di un’impostazione “neocampista” dello scontro di classe. Diversi autori e impianti teorici (da Domenico Losurdo a Luciano Vasapollo) hanno recentemente riproposto una lettura del sistema mondiale che lo divide in due “campi” contrapposti, conflitto di classe primario a cui subordinare tutti gli altri. Oggi questi campi non possono esser più identificati nel sistema capitalista a guida EuroAmericana e in quello socialista a guida Sovietica o Cinese. I due campi sono sostituiti dalla metropoli imperialista declinante (USA ed Europa) e dalle forze antagoniste ex-coloniali (Cina, Sudamerica, mondo arabo, ecc). A partire dall’epilogo della nuova primavera araba, dall’involuzione del conflitto siriano, dalle vicende ucraine, torna cioè a diffondersi in diversi settori di avanguardia una rappresentazione politica che individua il conflitto prioritario nello scontro geopolitico: a fronte di un capitale che ha oramai vinto nei paesi occidentali (neoliberismo), stiamo assistendo ad un riequilibrio sociale mondiale con i paesi in via di sviluppo. Secondo questa impostazione, la sinistra si ricostruisce a partire da uno schieramento per questi nuovi poli capitalisti emersi (Cina, Brasile, India, Russia), contro quelli consolidati (Stati Uniti ed Europa). Una prospettiva che porta sul piano internazionale a sostenere qualunque potenza in contraddizione con l’egemonia USA, mentre sul piano nazionale a proporre fronti unici interclassisti antimperialisti (dallo sganciamento dell’euro alla costellazione di paesi mediterranei). Di nuovo, da un punto di vista diverso, una lettura politica che tende a sfumare la centralità del conflitto di classe nel proprio paese, oltre che a livello internazionale.
Diverse prospettive in cui rilanciare il nostro progetto comunista e rivoluzionario; impegnarsi comunque come PCL nelle prossime elezioni amministrative
Sul piano politico, si possono delineare diverse prospettive considerando due variabili determinanti: il dispiegamento di una lotta di massa contro il governo; la conclusione del tentativo bonapartista renziano. Consideriamo, in particolare, due scenari che potrebbero originare dall’incrocio di queste variabili.
Primo scenario. Nel corso del prossimo inverno si sviluppa lo scontro contro il governo, passando dalla rappresentazione del conflitto ad un movimento di massa che si articola su diversi fronti (fabbriche in crisi, studenti e scuola, pubblico impiego per i contratti, ecc). Man mano che questa prospettiva si dispiega, si cristallizza la rottura con Renzi di ampi settori del “popolo di sinistra”, intorno a specifici eventi simbolici: un conflitto di fabbrica, lo sgombero di alcune scuole, un corteo nazionale (come ad esempio è stato nelle scorse settimane la carica della polizia ai lavoratori Thyssen). Si consolida cioè nell’immaginario sociale e nel campo politico uno spazio a sinistra del Partito Democratico. Uno spazio che, nel quadro di una contrapposizione tra movimento sindacale e governo, acquista sempre più una valenza di classe: lo spazio, cioè, per un partito del lavoro. La maturazione di questa possibilità è già in corso: SeL, spiazzata dall’evoluzione renziana, ha recentemente rilanciato un ennesimo processo costituente per raccogliere i frammenti in uscita dal PD e candidarsi ad occupare questo spazio (la “convention” Human factor a gennaio). Ma ancora con incertezze (rapporto col PD alle prossime regionali) e senza una matrice laburista di fondo. Una prospettiva politica coerente dovrebbe infatti veder protagonista non semplicemente Landini o alcuni esponenti sindacali, ma implicherebbe una svolta storica della CGIL, che si facesse direttamente promotrice della costituzione di un vero e proprio partito laburista (come prefigurato, sulla fine degli anni novanta, dall’ultimo Sabbatini, segretario FIOM ed esponente principale della corrente politica che controlla da anni questa organizzazione). Un’evoluzione che potrebbe esser favorita dal successo parziale della svolta bonapartista, in quanto una sconfitta renziana riaprirebbe la contesa sulla direzione del PD (verso un nuovo Ulivo?).
Un secondo scenario vede la lotta avviata dalla CGIL collassare rapidamente, per la ridotta partecipazione allo sciopero del 12 dicembre, per la difficoltà ad innescare diversi fronti di lotta, per le incertezze di una burocrazia sindacale spaventata dalla possibilità di perdere il controllo del conflitto. Lo sfondamento antisindacale dell’autunno viene quindi capitalizzato da Renzi: non solo col Job Act, ma cambiando modello contrattuale (trasformazione in legge dell’accordo sulla rappresentanza del 10 gennaio, salario minimo per legge e aziendalizzazione dei contratti). Nel contempo questi nuovi rapporti di forza gli permettono sul piano politico di eleggere un nuovo Presidente della Repubblica e di approvare entro il prossimo autunno le riforme istituzionali (legge elettorale e riforma del Senato). Questa vittoria nello scontro di classe gli permette quindi di consolidarsi sul piano elettorale nelle amministrative del 2015, definendo un campo politico libero da Berlusconi e organizzato intorno a pochi centri attrattori, tutti fondamentalmente populisti. In questo scenario, dominato dalla vittoria di Renzi, il conflitto sociale finirebbe dominato da dinamiche identitarie territoriali, da resistenze e rivolte, con una certa difficoltà ad attivare processi di evoluzione politica delle lotte intorno ad interessi e prospettive di classe.
Questi scenari, ovviamente, sono solo rappresentazioni polarizzate ed astratte di dinamiche tendenziali, che tengono in considerazione unicamente due fra le molte variabili possibili. A complicare il quadro, infatti, oltre alle tendenze ed alle controtendenze nella crisi mondiale, potrebbero entrare in gioco nei prossimi mesi altri fattori, prodotti dallo scontro di classe internazionale, dalle contraddizioni tra poli capitalisti, dalle dinamiche dell’Unione Europea. Ad esempio le prossime elezioni presidenziali greche, previste il 29 dicembre, potrebbero precipitare rapidamente in nuove elezioni politiche e forse determinare una significativa vittoria elettorale di SYRIZA. Una vittoria che, sulla base degli attuali sondaggi, permetterebbe a Tsipras di conquistare una percentuale significativa di deputati grazie al forte premio di maggioranza (10%), e quindi di diventare primo ministro nel quadro di un governo di coalizione con altre forze della sinistra riformista borghese. In tale possibile scenario, questo “fronte popolare” aprirebbe due diverse prospettive, sempre se si mantenesse coerente con la propria impostazione keynesiana senza capitolare alle compatibilità borghesi ed a quelle europee (tenuta che non sappiamo dire quanto sia probabile, ma che sicuramente non è scontata). Da una parte nel breve periodo un rilancio delle sinistre europee e anche italiane, che individuerebbero in un eventuale governo Tsipras l’esemplificazione e nel contempo la leva per una diversa politica economica europea, neokeynesiana e federalista: “un’altra Europa”, che ricostruisca a livello continentale un grande compromesso tra capitale e lavoro, uno stato sociale europeo. Un’impostazione neoriformista che, proprio grazie alla centralità politica e mediatica che il governo greco conquisterebbe, potrebbe egemonizzare una parte della sinistra europea e conquistare settori significativi di classe e di avanguardia nel breve periodo. Dall’altra parte, questo eventuale governo “delle sinistre” potrebbe determinare l’acutizzazione delle contraddizioni nel quadro politico istituzionale europeo, con la richiesta di uno dei governi al centro della crisi di rivedere scelte ed indirizzi della troika e quindi un nuovo ciclo di scontri e trattative tra BCE, nucleo tedesco dell’Unione e periferie mediterranee.
Questi scenari, però, ci ricordano che l’evoluzione del conflitto di classe nel nostro paese potrà conoscere nei prossimi mesi destini assai diversi tra loro, in funzione dell’esito dei processi sociali e politici in corso. Il Comitato centrale affida quindi alla Segreteria del PCL, ed alle sue commissioni settoriali, una valutazione dello sviluppo della situazione, secondo le linee tracciate in questo documento, ritenendo opportuno convocarsi nella primavera 2015 per valutare la dinamica concreta del governo, del conflitto con la CGIL, della costruzione degli scenari considerati.
In ogni caso, il CC del PCL invita sin da subito le proprie strutture territoriali, ed in particolare i coordinamenti regionali, ad impegnarsi per le elezioni regionali 2015. Qualunque sarà lo scenario politico e sociale in cui queste elezioni si caleranno, la presenza del PCL potrà contribuire in maniera determinante per la nostra strategia, per mantenere una presenza politica di una forza comunista e rivoluzionaria nel quadro politico del paese. Considerate le vigenti leggi elettorali, che impongono per le regionali una raccolta firme ancor più alta che per le politiche, invita le proprie strutture a prevedere una campagna politica che segni in ogni caso una nostra presenza nel panorama elettorale, come nella recente esperienza emiliana. Il CC del PCL, infine, ricorda che non si può escludere un’indicazione di voto critico, ma questa deve esser limitata, secondo quanto deciso al nostro ultimo congresso, a prospettive politiche con una significativa credibilità di massa o della larga avanguardia di classe. Di conseguenza, nel caso di un’eventuale assenza del PCL dal campo elettorale, un’indicazione di voto critico a liste alternative al PD potrà esser valutata solo ed esclusivamente se queste raccolgono un’ampia coalizione di sinistra, che appaia come rappresentante del processo di conflitto con il PD e le scelte antipopolari di Renzi.
In questo quadro, assegna in primo luogo ai Coordinamenti regionali il compito di valutare le situazioni concrete che si andranno determinando. Sarà poi il CC, o la Segreteria sentito i componenti del CC (qualora sia impossibile convocare il CC prima dell’inizio della campagna elettorale), a valutare anche eventuali scenari ad oggi non presumibili ed a stabilire, per le regioni in cui non sarà possibile presentare una nostra lista autonoma, le modalità di intervento ed eventuali indicazioni di voto critico.
CC del PCL
Bologna, 13 dicembre 2014