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10 febbraio, noi ricordiamo tutto…

Ricerca a cura di M.Robin
Il 10 febbraio ricorre l’oltraggioso “giorno del ricordo” quindi ripropongo un articolo che ho scritto un mese fa sull’argomento e, in un’altra nota, un breve sunto storico, per entrare nei meandri della menzogna reazionaria e smascherarla per quella che è : un nuovo tentativo di borghesia e riformisti per scatenare una canea contro il comunismo: ieri come oggi l’incubo dei padroni… e l’unica prospettiva di liberazione degli oppressi .
La “giornata del ricordo”, istituita in memoria dei morti nelle foibe, è una squallida manovra di disinformazione e mistificazione della verità storica, che si inserisce in una vera e propria guerra propagandistica, che è a sua volta parte di un progetto politico molto più ampio, teso a preparare le generazioni future di italiane ed italiani ad essere educate nell’oblio e nella rimozione.
La vecchia piccola borghesia, lungi dall’essere spazzata via, è sempre più arrogante e potente e, con l’aiuto di ex compagni pentiti (ammesso che compagni lo siano mai stati) ha scatenato una canea contro il comunismo: ieri come oggi l’incubo dei padroni e l’unica prospettiva di liberazione degli oppressi.
Con una propaganda degna del più becero ministero della cultura mussoliniano la borghesia utilizza strumenti subdoli quali ad esempio la “fiction” – ricordiamo tutti l’esempio di “Il cuore nel pozzo”, la colossale mistificazione storica anticomunista, che ha commosso il popolino teledipendente – per denigrare e calunniare la Resistenza, il socialismo ed il comunismo, allo scopo di creare un pensiero unico, che non lasci spazio ad alcun tipo di lotta e che rientri negli schemi antiviolenti e di falso pacifismo funzionali al sistema capitalistico.
Operazioni del tipo “giornata del ricordo” ignorano volutamente l’intera storia che sta a monte delle foibe e del cosiddetto “esodo”, come se la storia cominciasse dal 1945 e quel che è successo dal 1920 al 1945 (annessione dell’Istria e di parte di Fiume e della Dalmazia all’Italia col trattato di Rapallo, invasione nazifascista della Jugoslavia nel 1941, resistenza partigiana, sconfitta del nazifascismo) non contasse nulla, non esistesse nemmeno. Come se non fossero esistiti o non contassero nulla i crimini del fascismo, come l’italianizzazione forzata di quelle terre, le deportazioni di intere popolazioni dalla costa verso l’interno per far posto alla colonizzazione fascista (una vera e propria “pulizia etnica” ante litteram), i tribunali speciali contro gli antifascisti sloveni e italiani, i campi di concentramento dove gli jugoslavi sono morti di fame, di stenti e di torture a decine di migliaia, i villaggi bruciati, le esecuzioni sommarie, gli stupri, ecc. [“Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava – non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani”. Dichiarazione rilasciata da Benito Mussolini nel settembre 1920, nel corso di un “tour” in Friuli e Venezia Giulia fonte: jugocoord@tiscali.it]
È revisionismo storico aberrante l’asserire che, come i nazisti avevano fatto funzionare la Risiera di S. Sabba come campo di sterminio,così i “titini” avevano “infoibato italiani”, quindi i criminali stavano da tutte e due le parti. Questo accostamento non considera tutta una serie di fatti: innanzi tutto che i nazisti avevano programmato lo sterminio dei popoli da loro considerati “inferiori” (Ebrei e Slavi innanzitutto, ma anche gli Zingari), così come l’eliminazione degli handicappati, degli omosessuali, dei vecchi invalidi; e pure l’eliminazione fisica degli oppositori politici e la lotta contro i partigiani condotta anche mediante eccidi di massa, stragi, rappresaglie contro ostaggi innocenti e via di seguito.
Nessun paragone può essere fatto con il comportamento delle forze armate partigiane (jugoslave ed italiane) che non avevano tra le loro finalità né la pulizia etnica, né la purezza della razza, né apparteneva loro il concetto della rappresaglia terroristica; inoltre le persone che risultano scomparse od uccise a Trieste nel periodo dei 40 giorni di amministrazione jugoslava, salvo in alcuni casi di vendette private, sono state tutte arrestate in base a prove e denunce attendibili e poi processate.
Tra gli arresti e le esecuzioni del dopoguerra non vi furono massacri indiscriminati: della maggior parte degli arrestati si sa che erano militari o comunque collaboratori del nazifascismo; quanto ai prigionieri di Lubiana che furono probabilmente fucilati in tre scaglioni tra dicembre ‘45 e gennaio ’46 si conoscono ruoli e posizioni ricoperte sotto il nazifascismo; la maggior parte dei morti si ebbe nei campi di internamento, dove erano stati condotti i militari, e nei quali le condizioni di vita non erano certo buone, però va tenuto presente che la Slovenia era stata devastata dagli occupatori nazifascisti, non esistevano più impianti sanitari né acquedotti, i campi erano stati distrutti e neanche la popolazione civile aveva molto da mangiare.
Se vi furono delle vendette personali, di questo non si può rendere responsabile un intero movimento di liberazione, né creare un caso politico che dura da più di cinquant’anni, soprattutto alla luce del fatto che di processi contro gli “infoibatori” se ne sono svolti un’ottantina e non si possono processare nuovamente le persone per gli stessi reati, né processare altri per reati dei quali si sono già condannati i colpevoli.
Questa prospettiva distorta, che parte dalla comprensione per i fascisti e arriva a farne dei martiri «dell’italianità», ha l’unico fine del ricompattamento politico della borghesia italiana e di una politica di alternanza borghese. E il timore, già divenuto certezza ahimè, è che, se non invertiamo subito la rotta, niente e nessuno potrà più arrestare il minuetto di menzogne al quale certamente dovremo assistere nei prossimi anni e che cancellerà la nostra memoria (e di conseguenza annienterà il nostro futuro).
Calunniare, insudiciare, ammazzare sono i metodi del fascismo, e non solo di quello di mussoliniana memoria ma anche del fascismo in doppio petto che stiamo subendo oggi ed io non intendo permettere questo prodotto incrociato di menzogne e di revisionismo, di parzialità elevata a valore assoluto di continuare ad esistere.
Il 10 febbraio io riserverò il mo ricordo non ai fascisti ed alle spie che furono giustiziati, bensì alle loro vittime ingiustamente assassinate.

Dal blog red&green (1)
Links di storia del fascismo

Trovo in rete e ricopio: mi sembra un buon lavoro per aiutare a ricordare…

Cronologia del fascismo e del nazismo

La storia del fascismo: cronologia

Le guerre coloniali del fascismo

Crimini impuniti

Elenco dei criminali nazistifascisti in Italia (formato pdf)

Crimini di guerra italiani

Crimini di guerra dell’Italia fascista in Yugoslavia

Ebrei e fascismo, storia della persecuzione

Fascismo e deportazioni

Le leggi razziali del 1938

I campi e i lager italiani 1940-1945

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I campi italiani: Fossoli

I campi italiani: Bolzano

I campi italiani: Borgo San Dalmazzo

Il campo di Grosseto

Campi italiani di internamento e deportazione

Sul non razzismo del Duce, De Felice sbagliò

1941-1943: i regimi d’occupazione italiani in Jugoslavia

I campi italiani 1941-43: i campi di concentramento nella Jugoslavia occupata

Le Foibe e la questione di Trieste

Foibe, è il caso di parlarne
(“Le prime foibe nascono da qui, nascono da un odio sedimentato da oltre vent’anni di soprusi e violenze perpetrate dal regime fascista contro le popolazioni istriane…”.)

Cosa c’è stato PRIMA delle foibe?

Crimini di guerra italiani


Campi di concentramento…italiani

Credo che sia di fondamentale importanza offrire, quanto meno, una serie di elementi atti a fornire gli elementi di base per una accurata ricostruzione storica. Questo è il dovere dello storico in fondo… spazzolare gli eventi contropelo e indicare la via della verità.

Per limitarci al Novecento: con il Patto di Londra, siglato il 26 aprile 1915 tra Italia e Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia), si prevedeva, in caso di vittoria nella guerra imperialistica del 1914-1918, l’assegnazione all’Italia di Trentino, Sud Tirolo, Venezia – Giulia, Penisola dell’Istria, gran parte della Dalmazia e delle isole adriatiche.
Conclusa la prima guerra mondiale e crollato l’Impero Asburgico, la conferenza di Parigi stabilì – la costituzione del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Il nuovo assetto pose la necessità  di definire i confini con l’Italia, mentre migliaia di sloveni si trovano sotto occupazione dell’esercito italiano ed aspirano a ricongiungersi al nuovo Stato jugoslavo.
Per quanto riguardava l’Italia, gli sloveni non si facevano illusioni: avevano già constatato l’esperienza dei loro connazionali delle Valli del Natisone, i quali, passati sotto l’Italia nel 1866, avevano subito da allora un costante e sistematico processo di “snazionalizzazione”.
Il combinato disposto dell’occupazione militare e dell’iniziativa nazionalistica (impresa di D’Annunzio a Fiume) trovava riscontro nel Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 che assegnava all’Italia nuovi territori: Istria, la Dalmazia, la città di Zara, le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa e, nel 1927, la città di Fiume. La regione assunse il nome di Venezia Giulia.

La borghesia slovena benchè disponibile alla collaborazione con il governo italiano, a condizione di preservare la propria identità e ruolo sociale, trovò nel governo di Roma, liberale prima e fascista poi, il fermo proposito di assimilare gli “alloglotti”, come venivano chiamate le popolazioni slave. Trieste, avamposto colonialista verso l’oriente, divenne terreno fertile per lo sviluppo del fascismo: nel maggio del 1920 furono create le “squadre volontarie di difesa cittadina”, bande armate fasciste, sotto la direzione di Giunta, che scatenarono aggressioni contro la classe operaia delle industrie tessili, cantieristiche, minerarie e contro le popolazioni slovene e croate. Tutti i luoghi di aggregazione degli sloveni e dei croati furono aggrediti e distrutti: società corali, società  sportive, sale di lettura, circoli dopolavoristici, le scuole. Nel 1920 a Trieste fu incendiato il Narodni Dom, sede delle associazioni culturali ed economiche slovene.
“Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava” affermava Mussolini nel settembre 1920 “non si deve perseguire la politica che dello zucchero, ma quella del bastone”. Nel 1921 la federazione fascista di Trieste era la maggiore d’Italia. Il fascismo si identificava con l’italianità e conquistava il consenso della borghesia liberal-nazionale triestina.
Dopo la presa del potere da parte del fascismo, nel 1922, la repressione acquistò il timbro delle leggi dello Stato.
Il regio decreto del 15 ottobre 1925 proibiva l’uso delle lingue diversa da quella italiana, la lingua slovena e serbo-croata fu rimossa da tutti i luoghi pubblici e dalle insegne. Con il regio decreto del 7 aprile del 1927 fu imposta l’italianizzazione dei cognomi, soppressi e confiscati i beni delle organizzazioni culturali, ricreative, economiche slovene e croate.
La scuola era al centro della politica di “snazionalizzazione”, gli insegnanti di lingua slovena furono trasferiti e costretti a licenziarsi, la repressione investì¬ anche i preti slavi in quanto “si ostinano a celebrare le funzioni religiose in lingua slovena, e in Italia “si prega in italiano”.

Contro l’imperialismo coloniale italiano e la sua azione di feroce repressione si organizzò la Resistenza. In particolare si formarono due organizzazioni clandestine, la Tigr (dalle iniziali slovene di Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka) e la Borba (lotta) che affermarono la parola d’ordine dell’unione alla Jugoslavia. In particolare nella Tigr, all’inizio degli anni ’30, emerse la figura di Pinko Tomazic che pose l’obiettivo di una repubblica slovena inserita nel quadro di una confederazione di repubbliche sovietiche balcaniche.

Negli anni ’28-’30 gli agricoltori slavi furono costretti a mettere all’asta le proprietà, acquisite da coloni italiani mediante l’Ente per la rinascita agraria delle Tre Venezie. La repressione negli anni ’27-’43, condotta dal Tribunale Speciale fascista contro sloveni e croati, fu particolarmente feroce. La stessa cultura della foiba fu utilizzata da nazionalisti e fascisti, in canzoni e in poesie nei testi scolastici, per intimorire con la minaccia di finire “in fondo nella foiba” le popolazioni slave.

Il 6 aprile 1941 l’Italia, assieme alle forze dell’Asse, sferrò l’aggressione alla Jugoslavia, che venne smembrata; l’Albania era stata occupata nell’aprile 1939. Dalla spartizione della Jugoslavia l’Italia incorporò la Slovenia meridionale, il litorale Dalmata, Sebenico, Spalato, Ragusa, Cattaro, le isole e la regione della Carniola, costituendo la nuova Provincia di Lubiana e il Governatorato della Dalmazia; a Sud incorporò all’Albania, la Macedonia meridionale e il Kosovo; il Montenegro divenne un protettorato.
L’occupazione fu contrassegnata da particolare durezza: incendi di villaggi, deportazioni in campi di sterminio italiani (202 complessivi, tra cui Arbe-Rab in Dalmazia e Gonars in Friuli) e tedeschi, eccidi di rappresaglia, rastrellamenti, fucilazioni ed impiccagioni.

Dopo l’invasione nazifascista a Lubiana, il 27 aprile 1941, si costituì¬ l’Of (Osvobodilna Fronta: Fronte di Liberazione Sloveno), cui aderirono personalità  indipendenti e gruppi di ispirazione cristiano-sociale, con un ruolo egemone del Partito comunista sloveno. L’Of iniziò la resistenza armata con l’obiettivo dell’indipendenza nazionale e l’unificazione della Slovenia nel quadro della Jugoslavia federativa, organizzando forze prevalentemente contadine e popolari. Le forze liberal-conservatrici slovene, espressione della borghesia nazionale, restavano in attesa della fine del conflitto o collaboravano con l’occupante.

La risposta italiana fu la repressione civile e militare: nell’aprile del 1942 a Trieste fu istituito l’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza che si sarebbe caratterizzato per i rastrellamenti, le violenze, le torture. Alla vigilia dell’8 settembre 1943, nella sola provincia di Lubiana si conteranno 33.000 persone deportate, pari al 10% della popolazione, quasi 13.000 edifici distrutti, 9000 danneggiati, ed un numero di fucilati, caduti in combattimento e morti nei campi non quantificati, ma dell’ordine di alcune migliaia (circa 7000 nei campi italiani).

Dopo l’8 settembre 1943, crollate le strutture dello stato italiano, dissolto l’esercito regio, i comandanti in fuga alla ricerca di vie di salvezza, la Wehrmacht occupò i centri strategici della Venezia Giulia, le città portuali di Trieste, Pola, Fiume, l’area industriale di Monfalcone, Gorizia ma per carenza di forze trascurò l’entroterra. Il vuoto di potere nella penisola istriana fu presto riempito dall’insurrezione popolare e contadina, coinvolse la popolazione italiana dei centri costieri e quella slava dell’interno, presentando connotazioni di liberazione nazionale e lotta di classe. Ad una fase spontanea con fenomeni di jacquerie seguì¬ l’assunzione del controllo politico-militare da parte del Novj (l’esercito di liberazione). Una liberazione assai fragile durata circa venti giorni, in alcune zone più o meno un mese.

Tra l’11 e il 12 settembre 1943 le forze del Novj occuparono Pisino, nel cuore dell’Istria, organizzandovi il Comando operativo. Nei villaggi le masse popolari attaccarono i simboli e i rappresentanti dello stato colonizzatore: podestà e segretari comunali, fascisti, carabinieri, commercianti, esattori delle tasse; nelle campagne i coloni e i mezzadri attaccarono i possidenti terrieri italiani; nelle imprese industriali, cantieristiche e minerari, in particolare nella zona di Albona, con una forte tradizione di lotte operaie e socialiste, stessa sorte investe dirigenti, impiegati e capisquadra.
La maggior parte furono arrestati e concentrati soprattutto a Pisino; in questo contesto alcune centinaia (300-500) furono gettate nelle foibe istriane. La propaganda nazifascista utilizzò poi il fenomeno delle foibe istriane per incitare all’odio antislavo, moltiplicando il numero e sottolineando la nazionalità italiana delle vittime.

Il primo ottobre 1943 con l’Operazione Nubifragio le forze armate tedesche rioccuparono tutta l’Istria, il loro passaggio segnò decimazione di massa, distruzioni, incendi, migliaia di morti. I territori riconquistati furono uniti alle altre aree del confine nordorientale e organizzati nella “Operationszone Adriatsches Kusternland” (Zona Operazioni Litorale Adriatico), comprendente le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana, nelle quali l’autorità suprema era un commissario alle dipendenze di Hitler.
L’Amministrazione tedesca emanò una serie di disposizioni e ordinanze, nominò prefetti e podestà, assegnò ad ogni amministrazione un consigliere tedesco. I giovani di leva furono incorporati nella Wehrmacht o nell’organizzazione tedesca del lavoro coatto Todt. Furono pubblicati giornali e riviste in lingua tedesca, slovena e serbo-croata, fu quindi ridimensionata la politica di snazionalizzazione delle popolazioni slave.
Il potere decisionale, a tutti i livelli, era accentrato in mani tedesche, dai tribunali al controllo poliziesco, quest’ultimo era gestito dal generale Odilo Lotario Globocinik, capo delle SS del Litorale, stimato da Himmler per l’attività svolta nei campi di sterminio in Polonia. A Trieste Globocinik organizzò nel rione industriale di San Sabba, in edifici già  utilizzati per la pilatura del riso, un lager che funzionava come campo di smistamento, concentramento e sterminio. A San Sabba trovarono la morte migliaia di oppositori politici e combattenti partigiani sloveni e croati, italiani, renitenti alla leva, ebrei.

Per larga parte della comunità  italiana della Venezia Giulia, la borghesia e larghi strati di piccola e media borghesia la creazione della Zona del Litorale Adriatico, la presenza della Wehrmacht fu considerata una garanzia contro la minaccia “slavo-comunista”. A Trieste la borghesia industriale e finanziaria vide nella annessione al Reich il rilancio commerciale della città. In Venezia Giulia si costituirono corpi volontari di milizie fasciste che collaboravano col comando tedesco: la Polizia annonaria, la Guardia Civica-Stadtshutz, la Milizia Difesa Territoriale, la X Mas, la Guardia di Finanza; collaborarono con l’occupante anche forze slovene: Slovenski narodni varnostni zbor (corpo nazionale sloveno di sicurezza) detti domobranci e Slovensko domobranstvo (difesa territoriale Slovena).

All’interno della popolazione italiana della Venezia Giulia gli operai di Trieste, Monfalcone, Fiume e delle cittadine costiere istriane diedero origine a formazioni quali la Brigata Proletaria e Delavska Enotnost-Unità Operaia che collaboravano con la resistenza jugoslava nella prospettiva della rivoluzione socialista, prospettiva che le organizzazioni egemoni del movimento operaio italiano (Pci e Psi) non sostenevano, provocando grosse contraddizioni tra quadri e militanti comunisti. Il Pci infatti partecipava attraverso il Cln al Fronte popolare con i partiti borghesi (Dc, Pd’a, Monarchici, Liberali), e a questa alleanza subordinò l’indipendenza di classe.

In Jugoslavia il Pcj, pur aderendo alla politica dei Fronti popolari, in presenza di una borghesia nazionale legata al capitale straniero, tipica di un Paese semicoloniale, le cui forze politiche collaboravano con l’occupante o restano passive, fu costretto dalla dialettica della rivoluzione a superare la fase democratico-borghese (unificazione ed indipendenza nazionale, riforma agraria) fino a liquidare una borghesia che queste esigenze non aveva risolto o risolto parzialmente.

Un intreccio di contraddizioni nazionali e di classe che si riversarono nel movimento partigiano della Venezia Giulia, provocando a Trieste rotture nel Cln, qui le forze borghesi, liberali e cattolici, si opposero per ragioni di classe alla rivoluzione jugoslava, tale avversione portò, come nel caso delle Brigate Osoppo, alla collaborazione con forze fasciste in funzione antislava e anticomunista.

La situazione politico-militare costrinse gli inglesi a limitare il controllo alla parte occidentale della regione, per l’importanza strategica delle comunicazioni verso Nord, in particolare Trieste e Gorizia, rinunciando all’ipotesi greca. L’offensiva finale jugoslava iniziò il 20 marzo 1945 e furono i reparti del Novj ad arrivare il 1° maggio per primi a Trieste e Gorizia, anticipando le armate britanniche; con questi collaboravano le formazioni partigiane comuniste.
Il Cln triestino, costituito dal Psi, Pd’a, Dc, e Liberali, che oscillava tra l’attesa e l’insurrezione, aspettando l’arrivo degli inglesi diede inizio alla lotta mediante il Corpo Volontari della Liberà , ma questi si scontrarono con le forze jugoslave e si ritirarono dalla lotta. Le forze neozelandesi raggiunseno Trieste e Gorizia il 2 maggio, la situazione rimase aperta per circa un mese fino a quando i governi inglese ed americano costrinsero le forze jugoslave a ritirarsi da Trieste e Gorizia.

Il nuovo potere jugoslavo nelle zone liberate si basava sull’Armata, sulla Difesa popolare, sull’Ozna, il servizio segreto, mentre mancavano strutture consiliari tipo i soviet. L’obiettivo era affermare prima possibile la nuova sovranità  jugoslava, epurare l’apparato amministrativo e di polizia, prelevare i reazionari e trasferirli per processarli in campi di prigionia in Slovenia, altri furono fucilati dopo la cattura o la resa. Nemici furono considerate le forze armate dello stato imperialista, le formazioni fasciste, le forze antislave e anticomuniste tra cui aderenti al Cvl del Cln triestino.

In questo quadro, tra il maggio-giugno del ’45, si ripresentò il fenomeno delle foibe nell’entroterra carsico di Trieste e Gorizia con aspetti simili al precedente istriano. Da una ricerca accurata svolta da C. Cernigoi e pubblicata nel libro “Operazioni foibe a Trieste nella provincia triestina”, le vittime finite nelle foibe furono circa 517 di cui 112 della Guardia di Finanza, 149 della Pubblica Sicurezza, 115 delle Forze armate, 105 civili, tra questi collaborazionisti e spie.

Certo la propaganda reazionaria e liberaldemocratica, per esorcizzare la rivoluzione proletaria, continuerà a rivangare di “migliaia di martiri delle foibe”, di “partigiani rossi e violenti”, mentre i riformisti, pur di allearsi con i liberali, giureranno sulla nonviolenza. Per parte mia, con Marx, Lenin e Trotsky riaffermo la necessità della rivoluzione socialista fino a quando le masse proletarie di questo pianeta non si saranno liberate dal capitalismo e dall’imperialismo.

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