Lotta esemplere alla Tekel in Turchia
ANKARA- Fumano le teiere bollenti e le stufe nelle strade del centro di Ankara, fra le tende e i fuochi accesi per riscaldarsi. Tanta gente intorno, nonostante la neve caduta nella notte, lavoratori, studenti, passanti curiosi o solidali, sicuramente tanta polizia in borghese.
Da oltre 50 giorni ormai Sakarya, uno dei quartieri centrali della capitale turca, e in particolare la via dove si trova la sede del sindacato Türk-Is, è diventata luogo di lotta e di vita di centinaia di operai della Tekel. Sfidando il freddo e le intemperie, donne, uomini e bambini dormono nei tendoni montati con l’aiuto dei vari sindacati e di militanti della sinistra extraparlamentare. Vengono da tutta la Turchia, sui gazebo hanno scritto la città di provenienza; per la gran parte vivono la loro prima esperienza politica, alle ultime elezioni hanno votato Akp, il partito di Erdogan. Numerose sono le donne, e non è un caso visto che sono soprattutto donne le operaie dei tabacchifici: ora sono lì, anche velate, intorno al fuoco a discutere della protesta. Molti di loro sono kurdi, e nonostante le forti tensioni riaccese negli ultimi mesi in molte città tra turchi e kurdi, a causa dell’ambigua apertura del governo sulla questione kurda, qui si battono insieme, uniti dall’identità di classe.
La Tekel, l’azienda statale per cui lavoravano da anni e che assicurava la produzione nazionale di sigarette e Raki, è stata venduta dal governo nel 2008 a diverse società. Il ramo di produzione del tabacco è ormai proprietà della British and American Tobacco, che ha deciso di chiudere quattro delle cinque fabbriche sparse nel paese per lasciare e allargare lo stabilimento sul mar Nero. Gli operai hanno iniziato la loro resistenza proprio al momento della privatizzazione, quando all’annuncio della chiusura della prima fabbrica ad Adana, l’hanno occupata per 45 giorni.
Come altre migliaia di lavoratori le cui aziende sono state già privatizzate, il governo propone agli operai della Tekel di rimanere funzionari statali ma di firmare il nuovo contratto flessibile «4C». La strategia dello stato infatti, sin dalle prime privatizzazioni del 1992, è quella di mantenere i lavoratori a sua disposizione, ma di passare i funzionari – non solo del settore industriale, ma di tutto il settore pubblico, aziende, banche o scuole che siano state privatizzate – su contratti più «flessibili», come il «4C», dal numero dell’articolo della legge 657 che modifica il codice del lavoro. Sarebbero già 40.000 i lavoratori costretti, secondo queste nuove modalità contrattuali, a 10 mesi di lavoro pagati su 12, retribuiti fino a un massimo di 800 lire turche lorde mensili (meno di 400 €), in funzione del diploma e della qualifica, che equivale a un netto annuale al di sotto del salario minimo legale turco, e a circa la metà del loro salario precedente. Il «4C» prevede inoltre l’esclusività del lavoro statale, il divieto di adesione ai sindacati, nessun contributo né incentivo fiscale, un massimo di un giorno di ferie pagate al mese, di due giorni di malattia ogni 4 mesi e nessuna indennità di licenziamento.
La mobilitazione delle lavoratrici e lavoratori operai Tekel, che rifiutano il nuovo sfruttamento e il neoliberismo mal nascosto del governo Erdogan, sembra aver risvegliatol’orgoglio proletario, superando finalmente le linee di divisione etniche tra curdi e turchi (imposte dagli avversari di classe) i lavoratori rivendicano apertamente lo sciopero generale e un Comitato di resistenza dei lavoratori in lotta.
Come ha scritto Sungur Savran del DiP-CRQI, la Turchia pare che stia entrando in un nuovo e promettente scenario!
Vedi anche: (1) (2)