TUTTI IN SCIOPERO IL 6 MAGGIO, MA CHE SIA SOLO L’INIZIO!
CISL e UIL sono stati il principale strumento in mano a governo e padronato (con Marchionne in testa), per cercare di imporre ai lavoratori una “nuova era” che riporta i lavoratori al 1800, quando i diritti dell’operaio erano gli stessi del pezzo di metallo su cui lavorava.
Liberandosi del controllo dei lavoratori, sui propri rappresentanti, CISL e UIL si rivelano non un’arma dei lavoratori, ma un’arma dei padroni contro i lavoratori: veri e propri sindacati di regime!
La CGIL pur demarcandosi da CISL e UIL è stata titubante e non è un caso, se eravamo in prima fila a Bologna il 28 gennaio a fischiare la Camusso e la sua linea concertativa. Dalla grande prova di forza operaia del 16 ottobre 2010, sono passati cinque lunghissimi mesi di silenzi e attendismo per partorire lo sciopero del 6 maggio, che per quanto importante e al quale aderiamo, rimane insufficiente: servirebbe una strategia di contropotere e invece ci ritroviamo con il ritualismo di sempre.
Bisogna smettere di accusare governo e Confindustria di provocare la rabbia sociale, sperando nella riapertura di un “dialogo concertativo” che non ha mai ottenuto niente per i lavoratori, è necessario al contrario far leva sulla giusta rabbia dei lavoratori, degli studenti, dei disoccupati, per concentrarla e farla esplodere in una vera mobilitazione prolungata di tutto il mondo del lavoro.
Altri diranno che non ci sono le forze e le disponibilità dei lavoratori, ma in verità in questi anni abbiamo visto un’enorme potenzialità di lotta. Lo dicono i tanti No al contratto di Marchionne, i pastori sardi in lotta, lo gridavano gli studenti che nei mesi scorsi inneggiavano allo sciopero generale (come le piazze della FIOM), lo hanno dimostrato persino quei settori ultra-ricattabili che venivano descritti come la spada di damocle sui lavoratori fissi: gli immigrati che dalla rivolta di Rosarno in poi hanno rialzato la testa, e i precari che hanno paralizzato Roma il 9 aprile.
Lo dicono le centinaia di aziende in crisi presidiate dai lavoratori.
La verità è che proprio gli scioperi simbolici inconcludenti disperdono le energie dei lavoratori.
Unificare invece tutte le correnti di insoddisfazione sociale, moltiplicherebbe le forze e l’entusiasmo, creando un’enorme tsunami di rabbia popolare che potrebbe spazzare via i nemici dei lavoratori.
Per questo il PCL alla proposta dello sciopero prolungato, rivendica la necessità di condurre azioni che possano coinvolgere tutti i lavoratori, compresi quelli già espulsi dal “mercato del lavoro” attraverso: picchetti, blocchi stradali e ferroviari.
Per sostenere una battaglia di questo tipo serve l’istituzione della cassa di resistenza (una raccolta fondi per sostenere economicamente i lavoratori alle prese con scioperi prolungati).
La stessa occupazione delle aziende che chiudono o licenziano è parte integrante di questa strategia, rispondendo quindi al ricatto della delocalizzazione: se ne vadano pure lor signori, ma gli stabilimenti e i macchinari rimangono sotto controllo dei lavoratori!
Ma non sarà la burocrazia sindacale a sostenere questa prospettiva, solo l’azione diretta dei lavoratori può intraprendere questa strada.
Come fare? Attraverso l’istituzione dei Comitati di sciopero (che raggruppino i lavoratori più combattivi ovunque collocati sindacalmente) e il collegamento delle diverse vertenze attraverso una grande
assemblea nazionale dei delegati eletti dai lavoratori.
Una lotta di questa portata riuscirebbe a far pagare la crisi a chi l’ha causata, imponendo una serie di misure immediate:
– Abolizione delle leggi di precarizzazione del lavoro;
– Blocco dei licenziamenti;
– Riduzione progressiva dell’orario di lavoro, a parità di paga per distribuire il lavoro che c’è tra tutti;
– Un salario sociale per i disoccupati in cerca di lavoro;
– Nazionalizzazione sotto controllo operaio e senza indennizzo delle aziende che inquinano e/o licenziano;
– Nazionalizzazione delle banche per fermare i mutui usurai che opprimono milioni di famiglie;
– Permesso di soggiorno per i lavoratori immigrati;
– Un grande piano di opere pubbliche che riassorba la disoccupazione, finanziato dalla tassazione dei grandi capitali, dall’eliminazione delle spese di guerra e dai privilegi della chiesa.
Questo sarà realizzabile solo collegando le lotte immediate di ogni giorno, alla prospettiva di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, che riorganizzi la società da cima a fondo, in base alle esigenze dei molti, e non al profitto dei pochi. I lavoratori di Tunisia ed Egitto hanno avuto un ruolo centrale nelle rivoluzioni che hanno cacciato i rispettivi regimi. Non si capisce perché i lavoratori italiani, non possano fare lo stesso con un regime, quello di Berlusconi già in crisi, e che sembrava fino a pochi mesi fa, persino più instabile di quelli dei suoi amici Mubarak e Ben Alì.
L’esperienza viva delle rivoluzioni del Maghreb, ha dimostrato l’immensa forza di mobilitazione popolare e messo al muro lo scetticismo seminato dai saccenti salotti buoni della borghesia, che anche a sinistra, sentenziavano l’impossibilità delle rivoluzioni.
Il Cairo e Tunisi sono la prova che la rabbia di massa può aprire la strada ad un’alternativa vera: quella che mette i lavoratori al posto di comando. Avanti quindi su questa strada!
Facciamo come in Egitto e in Tunisia!