LA CADUTA DI GHEDDAFI. RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE IN LIBIA
LA CADUTA DI GHEDDAFI, FRUTTO DELLA RIVOLUZIONE ARABA
La caduta del regime totalitario di Gheddafi- partner privilegiato e bipartisan dell’imperialismo italiano- è l’esito conclusivo del processo aperto dall’insurrezione libica del 17 Febbraio, a sua volta inseparabile dalla sollevazione del popolo tunisino ed egiziano. Senza la sollevazione popolare del 17 Febbraio, fuori dalla dinamica della rivoluzione araba, il regime di Gheddafi sarebbe ancora in piedi, con l’imperturbabile sostegno , già decennale, di tutti i governi imperialisti e dello stesso Stato sionista d’Israele.( E sicuramente con l’appoggio del Venezuela di Chavez, che tuttora esalta Gheddafi come “un socialista fratello”). E’ invece caduta una dittatura sanguinaria, certo segnata alle origini da un connotato piccolo borghese “antimperialista”, militarmente distorto, di tipo nasseriano ( colpo di stato degli ufficiali liberi del 1969), ma pienamente integrata da tempo nel nuovo ordine imperialista internazionale: con la solenne benedizione prima dell’amministrazione Clinton, e poi definitivamente dell’insospettabile amministrazione Bush (2004). La rivolta contro Gheddafi non è stata la ribellione “etnica” della Cirenaica, ma una rivolta nazionale che ha trovato la sua espressione non solo a Bengasi, ma a Misurata, nella maggioranza delle città costiere della Tripolitania, nelle popolazioni berbere dell’Ovest, e all’inizio, in parte, nella stessa Tripoli( per essere qui falcidiata nelle prime 48 ore dalla repressione militare del Regime). La domanda popolare che ha ispirato la rivolta non è stata diversa da quella che ha mosso la più ampia rivoluzione araba: una domanda di libertà, di diritti, di emancipazione sociale contro un regime oppressivo, familistico, privilegiato. La giovanissima generazione di scebab in armi di Bengasi,i resistenti eroici di Misurata, le milizie montanare berbere hanno combattuto per la propria liberazione. Le sovrapposizioni tribali e di clan che pur esistono- e che segnano storicamente assai spesso i processi di liberazione dei popoli oppressi, come del resto oggi in Yemen e in Siria- non cancellano questa verità. Se la rivoluzione libica, a differenza della rivoluzione tunisina o egiziana, si è rapidamente trasformata in guerra civile non lo si deve ad una sua diversa “natura”, ma alla immediata reazione militare del regime: il quale, a differenza che altrove, poteva godere di un apparato militar repressivo relativamente compatto attorno al clan dominante, e quindi pronto ad una reazione frontale. Porsi al fianco della sollevazione popolare contro il regime era dunque il primo dovere elementare dei rivoluzionari di tutto il mondo. Contro la logica “campista” di chi ha scelto la difesa del regime contro la sollevazione, o di chi si è attestato sulla linea della neutralità tra oppressi ed oppressori, o di chi si è ritagliato il compito di osservatore distaccato e scettico degli avvenimenti.
UNA DIREZIONE LIBICA CONTRORIVOLUZIONARIA E FILOIMPERIALISTA
Ma il sostegno alla rivoluzione libica, dentro l’appoggio più generale alla rivoluzione araba, non ha mai significato da parte nostra alcun sostegno alla sua direzione. Così come l’appoggio alla sollevazione tunisina o egiziana non ha mai significato e non significa il benchè minimo adattamento alle sue leaderschip e ai governi borghesi e filoimperialisti che oggi guidano quei paesi, e che sono i peggiori nemici di quelle rivoluzioni. E’ vero l’ESATTO contrario. Sin dall’inizio, contro ogni affidamento illusorio alla pura dinamica rivoluzionaria, abbiamo insistito su un punto decisivo: solo un’altra direzione della rivoluzione, basata su un programma anticapitalista e dunque antimperialista, avrebbe potuto e potrebbe dare una prospettiva conseguente alla rivoluzione araba. E la lotta per questa direzione alternativa non può che implicare la contrapposizione più radicale, dal versante della rivoluzione, alle attuali direzioni borghesi e filoimperialiste delle rivolte. Pena l’inevitabile tradimento delle stesse ragioni democratiche delle rivoluzioni. Il caso libico ha offerto una conferma clamorosa a questa tesi marxista. Una conferma se possibile ancor più netta di quella espressa dallo scenario tunisino ed egiziano. La direzione della rivoluzione libica si è concentrata da subito nelle mani di un entourage controrivoluzionario, selezionato dalla stessa dinamica degli avvenimenti. Il CNT di Bengasi ha rappresentato certamente un raggruppamento eterogeneo di forze, segnato da contraddizioni profonde. Ma il baricentro del CNT è stato rappresentato da transfughi del vecchio regime, ex ministri di Gheddafi, ex comandanti militari delle sue truppe: i quali hanno concentrato nelle proprie mani le leve essenziali del governo provvisorio, delle relazioni diplomatiche, delle relazioni economiche internazionali. Il loro obiettivo non era quello dei giovani insorti per la libertà della Libia. Era quello di riciclarsi come carta di ricambio dell’imperialismo, al servizio della continuità dell’oppressione della Libia.
L’INTERVENTO DI GUERRA DELL’IMPERIALISMO E I SUOI SUCCESSI
I governi imperialisti hanno giocato qui, con relativo successo, le proprie carte. Non perchè “avevano orchestrato tutto sin dall’inizio, sollevazione di Bengasi inclusa”, come dicevano e tuttora dicono tanti dietrologi “campisti” che surrogano la comprensione della realtà ( complessa) con l’eterno schema del “complotto” ( infinitamente più semplice). Ma perchè proprio la direzione controrivoluzionaria della rivolta offriva all’imperialismo un canale diretto di inserimento nella partita libica. In funzione dei propri interessi e contro le ragioni di fondo della rivoluzione: per aprirsi un varco di più diretto condizionamento non solo sulla dinamica libica, ma sull’intero scacchiere arabo in rivolta. L’intervento militare imperialista ha rappresentato il punto di congiunzione, e di progressiva saldatura, tra gli interessi della direzione controrivoluzionaria del CNT e quelli dell’imperialismo. I vertici del CNT non solo hanno invocato l’intervento militare imperialista, ma sono andati ben al di là di un suo “utilizzo” per il rovesciamento del regime. Hanno fatto leva sull’intervento militare per approfondire ed estendere i propri legami con l’imperialismo. Per conquistarsi il ruolo di affidabili fiduciari dei suoi interessi. Per garantire ai governi imperialisti la continuità dei patti miserabili realizzati con essi da Gheddafi ( inclusa l’infamia dei campi lager per i migranti). Per assicurare i grandi gruppi economici internazionali, a partire da petrolieri e costruttori, sulla piena salvaguardia dei loro affari in Libia. Cercando peraltro a loro volta di inserirsi nelle contraddizioni imperialistiche, per offrire a turno le proprie mercanzie. Chi- come il grosso dell’entourage di Bengasi- puntando all’asse privilegiato con l’imperialismo italiano, in più diretta continuità con la tradizione del vecchio regime. Chi- come i dirigenti della sollevazione arabo berbera ad ovest- assecondando l’ambizione dell’imperialismo francese di scalzare l’Italia in fatto di pozzi e commesse. Il rovesciamento di Gheddafi lascerà aperta la partita sugli equilibri interimperialisti nel controllo del paese. Ma certo le direzioni della rivolta hanno donato la Libia e la sua rivoluzione al controllo dell’imperialismo. L’euforia dei titoli in Borsa delle grandi aziende energetiche italiane e francesi è il riflesso economico di questo dato politico.
LE CONTRADDIZIONI APERTE. L’ORDINE NON REGNA IL LIBIA
Tuttavia, come in Tunisia e in Egitto l’affermazione di governi borghesi filoimperialisti ( militare in Egitto, civile in Tunisia) non ha stabilizzato la situazione economica e sociale, è assai probabile che lo stesso accada in Libia. Contrariamente a chi vede la storia come un teatrino di marionette orchestrate da un imperialismo onnipotente, la stessa composizione di un nuovo governo libico e di un nuovo equilibrio istituzionale nel paese si annuncia assai complicato. Gli stessi imperialisti ne sono coscienti. Quarantadue anni di regime totalitario hanno fatto tabula rasa di presenze politiche organizzate. Il ruolo delle tribù, a lungo preservato dal vecchio regime, è un retaggio potente. Lo Stato stesso si è identificato più che altrove in un clan dinastico, ed è largamente privo di un’ossatura disponibile, amministrativa e militare, per un altra gestione. L’imperialismo, come in Irak, si troverà di fronte al dilemma se utilizzare il vecchio apparato statale, per quanto asfittico e odiato, o se scioglierlo in attesa del nuovo. E pare, non a caso, stia propendendo per la prima soluzione ( non avendo oltretutto a differenza che in Irak una presenza di truppe occupanti sul suolo e avendo parecchi problemi in più, economici e politici, per dispiegarle). Ma decine di migliaia di giovani combattenti, di uomini e donne insorte per la libertà, come accoglierebbero la permanenza ai posti di comando di tanti aguzzini del vecchio regime? Oppure, nello scenario opposto: come reagirebbero all’eventuale dispiegamento sul campo di truppe straniere di occupazione ( come oggi chiede l’imperialismo inglese), quale strumento d’ordine interno in assenza di un apparato statale spendibile e affidabile? Oggi sventolano ingenuamente le bandiere francesi, italiane o magari americane, perchè le identificano con la propria “libertà”. Ma come reagirebbero se dovessero scoprire che quelle bandiere e i loro bombardieri sono garanti della “libertà” di tanti loro nemici, o di una nuova forma di oppressione? Le stesse contraddizioni non tarderanno a manifestarsi su altri terreni. Chi metterà le mani sugli enormi investimenti finanziari del vecchio regime ( tramite “Lia” e Banca di Libia) nel capitale finanziario europeo e americano? Gli imperialisti scongelano i fondi. Ma il controllo e l’uso di quei fondi sarà oggetto di un contenzioso sociale. Oppure: quale confronto si aprirà in ordine alla nuova costituzione dello Stato tra le componenti laiche della rivoluzione e le tendenze islamiste in via di rafforzamento? L’annuncio della Scharia nella Costituzione della nuova Libia ha poco a che fare con la domanda di libertà ed uguaglianza che si è levata nel popolo di Bengasi, e col proliferare in Cirenaica di centinaia di organi di stampa, di movimenti per i diritti civili, delle organizzazioni femminili, dei primissimi embrioni di sindacati indipendenti. E soprattutto: che ne sarà del “popolo in armi”?. Gli imperialisti hanno posto come prima esigenza il disarmo degli insorti e il ritorno alla “sicurezza” ( innanzitutto per i propri investimenti e ricchezze). E’ la condizione posta dagli stessi Sarkosy e Berlusconi sul tavolo dei negoziati col CNT. I loro amici del CNT hanno naturalmente assentito. Ma non sarà semplice. Decine di migliaia di giovani hanno combattuto la “propria” rivoluzione con le armi in pugno. Il grosso della popolazione libica è entrata in possesso di armi durante la guerra civile. Un Kalascnikov costa cento euro sul mercato di Tripoli e di Bengasi. Non a caso questa è la prima preoccupazione di un grande capitalista come Scaroni (ENI) che, dopo aver rassicurato il Corriere della Sera ( e le sue banche proprietarie) sulla stabilità degli interessi italiani in Libia, candidamente avverte:” La situazione è confusa..ci sono migliaia di ragazzi giovani col mitra che scorazzano per Tripoli.. questo è un problema serissimo”( Corriere 24 Agosto). Già. Come assicurare la continuità del proprio dominio sulla Libia, nel momento in cui non si dispone più della “sicurezza” garantita dal vecchio regime(..”antimperialista”) e dai suoi sgherri?
PER UN ALTRA DIREZIONE DELLA RIVOLUZIONE ARABA
Tutto lascia pensare che la caduta di Gheddafi, e l’attuale successo militare e diplomatico imperialista in Libia, non chiuderanno affatto la partita libica. E’ impossibile predire gli eventi. Ma rivoluzione e controrivoluzione continueranno a confrontarsi- in forme diverse e con dinamiche imprevedibili- in uno scenario altamente instabile e terremotato. Molto, certamente, dipenderà dalla dinamica più generale della rivoluzione araba, che oggi conosce un andamento molto contraddittorio ( arretramento in Egitto, radicalizzazione in Siria). Ma l’elemento decisivo, ancora una volta, in Libia come ovunque, è l’ emergere di una nuova direzione politica della rivoluzione araba. Tutta l’esperienza storica di questi 9 mesi di rivoluzione araba dimostra la verità di fondo del marxismo rivoluzionario: non c’è possibilità di affermare e consolidare i contenuti democratici della rivoluzione in paesi arretrati e dipendenti senza rompere con l’imperialismo, e quindi con le borghesie nazionali sue alleate. Senza rompere con l’imperialismo e con le borghesie nazionali sue alleate ( laiche o islamiche), ogni vittoria contro la tirannia di vecchi regimi dispotici, per quanto importante, è condannata a ripiegare, prima o poi, sotto una nuova forma di sottomissione e dipendenza. Da questo punto di vista,in forme certo diverse, la Libia segue Tunisia ed Egitto. Al tempo stesso non è possibile lavorare per l’emergere di una direzione marxista rivoluzionaria- e quindi coerentemente antimperialista- se non a partire da un internità al processo rivoluzionario : se non a partire da una chiara scelta di campo per la sollevazione popolare contro la tirannia. Questa è stata ed è la nostra scelta di campo. In Tunisia, in Egitto, in Libia, come in Siria o in Yemen. Quelle componenti “neostaliniste” o “bolivariane” che o rifiutano l’esistenza stessa di processi rivoluzionari, o rifiutano di schierarsi al loro fianco- spesso formalmente nel nome dell’”antimperialismo”- non lo fanno perchè più “radicali”. Lo fanno, consapevolmente o meno, per la ragione opposta: perchè non sono interessate alla rivoluzione nel mondo reale, ma al suo surrogato “ideologico” nel mondo immaginario. Magari vedendo la “rivoluzione socialista” nel colonnello Chavez e nelle sue leggi antisciopero, l’”antimperialismo” nel regime clerico fascista iraniano, il “comunismo” nella Cina dei capitalisti miliardari. (E dopo aver votato, in qualche caso, tutte le peggiori porcherie dei due governi Prodi in Italia). Chi invece persegue la rivoluzione reale per il governo dei lavoratori – contro i suoi travestimenti mitologici- sceglie come proprio campo di lotta il terreno della lotta di classe, dei movimenti di massa , dei processi rivoluzionari . Confrontandosi con la loro complessità e le loro contraddizioni. Non confondendo mai le ragioni delle rivoluzioni con la natura e i progetti delle loro direzioni controrivoluzionarie. Contrapponendosi sempre all’imperialismo. Lottando ovunque per la costruzione del partito rivoluzionario: in Italia,come in terra araba, come in tutto il mondo.