Di Marco Ferrando
Le contraddizioni interne alla Magistratura e soprattutto tra Magistratura e Governo, hanno aperto una nuova fase della vicenda ILVA. Che pone, più che mai, l’esigenza di una iniziativa indipendente del movimento operaio.
IL GIP SVELA LA TRUFFA
Perchè il grido sdegnato e corale del governo e dei partiti che lo sostengono contro il povero GIP Todisco? Perchè il GIP ha svelato di fatto l’autentica truffa delle sentenze precedenti ( patrocinate dal governo nazionale e regionale) nei loro due punti cardine : l’assenza di ogni reale impegno finanziario e operativo della proprietà nella messa a norma degli impianti; e l’incredibile assegnazione al fiduciario della proprietà, Ferrante, del ruolo di custode del processo di risanamento. Messi a nudo, tutti gli agenti della proprietà , protagonisti della truffa ,si sono scatenati.
In primo luogo i ministri amici del padrone Riva: come Passera, già socio di Riva nella CAI ( Alitalia) ai tempi di banca Intesa, o come Clini, dipinto nelle intercettazioni come uomo di riferimento dell’azienda. In secondo luogo i partiti di maggioranza lautamente finanziati per decenni dal padrone Riva, quali Forza Italia e il PD ( come risulta nero su bianco dai loro bilanci pubblici). E poi ancora tutte le organizzazioni padronali di cui Riva è socio onorario e prezioso contribuente- da Federaccia a Confindustria- assieme naturalmente a tutta la grande stampa: quella che i dirigenti aziendali raccomandavano letteralmente di “comprare”( evidentemente con successo). Non poteva esserci una radiografia più completa del raccordo tra grande capitale e Stato e della natura della democrazia borghese.
CAPITALISMO REALE E LEGGE FORMALE.
Cos’hanno detto in buona sostanza, a reti unificate e da tribune diverse, tutti questi attori in commedia? Che un magistrato non può smantellare una soluzione già “concordata” tra governo, proprietà, sindacati complici; non può manomettere il potere “superiore” e decisionale del governo; non può danneggiare la competitività della siderurgia italiana di fronte a quella cinese ed asiatica; non può scoraggiare gli investimenti stranieri in Italia.
In una parola: tutte le forze dominanti hanno chiarito, se ve n’era bisogno, che le leggi reali del capitalismo prevalgono sull’ ipocrisia delle sue leggi formali.
Che il diritto alla salute e alla vita dei lavoratori e di una città sono solo la variabile dipendente del profitto e del mercato,nazionale e mondiale. Che accettare questa realtà è la condizione decisiva per poter continuare a lavorare… alle dipendenze di chi ti avvelena. Che non c’è alternativa a tutto questo, se non la disperazione della disoccupazione. La classe operaia, e innanzitutto la sua avanguardia, deve combattere e ribaltare questo messaggio.
L’importanza esemplare dello scontro di classe sull’ILVA sta tutto qui: nella capacità o meno dei lavoratori di respingere il ricatto del padrone e del governo e di battersi per una propria soluzione alternativa rispettosa del lavoro e della vita.
PER UNA SOLUZIONE INDIPENDENTE DEL MOVIMENTO OPERAIO: LA NAZIONALIZZAZIONE DELL’ILVA.
Non si tratta di “affidarsi” al magistrato Todisco, né tanto meno di iscriversi al “partito dei magistrati”, peraltro a lungo silente anche sull’Ilva ( con buona pace di Di Pietro). Si tratta di far leva su una sentenza onesta ma di per sé impotente, per rivendicare l’unica possibile soluzione sociale progressiva che la situazione impone: la nazionalizzazione dell’Ilva. Se un magistrato rileva l’inaffidabilità dell’Ilva in fatto di normalizzazione degli impianti, e l’impossibilità che sia l’Ilva a “controllare” il risanamento ( per manifesto conflitto di interessi), non si tratta di contrapporsi al magistrato per conto di Riva, ma di rivendicare l’esproprio di Riva come logica implicazione ( persino) della sentenza del magistrato.
Una nazionalizzazione senza indennizzo per il padrone Riva: perchè sarebbe paradossale che i lavoratori venissero a pagare di tasca propria l’esproprio di chi li ha avvelenati e sfruttati. Una nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori stessi: perché solo il controllo operaio può garantire insieme la tutela del lavoro e un risanamento reale della produzione e dell’ambiente di vita dei lavoratori.
L’INGANNO DELLE ALTRE “SOLUZIONI”: CHIUSURA DELLA FABBRICA O AFFIDAMENTO A RIVA.
Ogni altra “soluzione” è un inganno per i lavoratori, e per la popolazione povera di Taranto.
La “soluzione” della chiusura della fabbrica, nel nome della bonifica delle aree e della città, non risolve in realtà un bel nulla. Mette sulla strada gli operai, e non risana l’ambiente. Parla l’esempio illuminante di Bagnoli: dove lo smantellamento della siderurgia e la distruzione sociale di quella classe operaia si è combinata col massimo degrado, ambientale e sociale, delle aree liberate e con devastanti processi di speculazione sul territorio. La chiusura della siderurgia a Taranto avrebbe, se possibile, nell’attuale contesto di crisi, esiti ancor più drammatici, su ogni versante.
La proposta della chiusura della fabbrica ( sia che muova da un ambientalismo ideologico integralista, sia che discenda da un pregiudizio antilavorista) ha in realtà un solo effetto: saldare attorno al padrone Riva un pezzo della classe operaia dell’Ilva, agevolando il gioco dei sindacati padronali interni all’azienda, UIL e CISL in testa. Quei sindacati che sono sul libro paga dell’azienda. Quei sindacati che sono giunti il 30 marzo scorso a organizzare uno sciopero cittadino letteralmente pagato dal padrone a difesa del padrone. Quei sindacati che oggi scioperano a difesa di Riva e di Monti contro il diritto alla salute degli operai.
Ma la “soluzione” di affidare al padrone Riva la messa a norma degli impianti, sotto la “pressione” della magistratura, non è meno truffaldina. Diciotto anni di impegni e promesse ambientaliste da parte di Riva possono bastare.
La proprietà criminale non risanerà nulla. Cerca semmai di perpetuare i crimini dietro lo scudo protettivo di qualche gesto simbolico e di qualche posa ecologica, con la copertura del governo. La verità è che non è minimamente disponibile a investire le enormi risorse necessarie al risanamento. Non lo ha fatto in tempi migliori. Perchè dovrebbe farlo nel quadro di una crisi gigantesca della siderurgia mondiale, dove si scatena la corsa all’abbattimento dei costi ( inclusi quelli ambientali) per guadagnare o difendere i mercati? Non è un caso che persino la miseria dei 90 milioni di investimento ecologico sbandierati dall’azienda ( a fronte di tre miliardi di utili) si stiano rivelando una bolla di sapone. Riva non ha altra ragione da difendere che il proprio profitto e la propria quota di mercato. “O mi fate continuare così o me ne vado altrove.
Siete voi che avete bisogno di me. Non io di voi”: questo è la minaccia che Riva alza come un clava agli occhi degli operai, dei sindacati, degli stessi partiti borghesi. In una logica perfettamente consona al cinismo del capitale.
Per questo la linea della “conversione” ecologica di una proprietà criminale si ritrova su un binario morto. Può servire a fornire un ‘eventuale foglia di fico alla proprietà, consentendole di sbandierare l’ennesima solenne promessa ( “vendiamo fumo” ha confessato Riva al telefono a un suo dirigente dopo un incontro con Vendola). Può sicuramente fornire al governatore Vendola l’ennesima patacca propagandista di “salvatore” di lavoro e ambiente. Può servire al gruppo dirigente della Fiom (che pur giustamente ha rifiutato di scioperare per l’azienda) di far quadrare il cerchio delle proprie contraddizioni. Può servire sicuramente agli ambienti di governo per mascherare con belle parole la tutela della proprietà.
Sicuramente non serve né ai lavoratori, né alla loro salute: che resterebbero nelle mani di un padrone assassino, come pure merci di scambio e leve di ricatto.
LA NAZIONALIZZAZIONE, UNICA VIA: FATTIBILITA’ TECNICA E SOLUZIONE SOCIALE DELLA RICONVERSIONE.
Ecco perchè la nazionalizzazione dell’Ilva è l’unica via. Non esiste alcuna impossibilità tecnologica di coniugare produzione e risanamento ambientale. L’impedimento è sociale, non tecnico.
Tante osservazioni, testimonianze, rilievi affiorati in questi giorni ai margini della stessa comunicazione ufficiale, per bocca di tecnici competenti ( non a caso anonimi), hanno documentato la perfetta possibilità tecnologica di convertire profondamente la produzione siderurgica, evitando o limitando al minimo l’interruzione della produzione.
La vera obiezione che gli stessi tecnici avanzano è che la riconversione richiede risorse enormi, che la proprietà non è in grado di metterle perchè affonderebbe nella concorrenza, che lo Stato non può provvedere sia perchè assediato dal debito pubblico, sia perchè la normativa europea sulla “concorrenza” “impedisce aiuti pubblici” alla siderurgia, relegando l’ intervento pubblico al solo aspetto della bonifica del territorio esterno. Ma queste sono tutte obiezioni sociali, non tecniche.
Obiezioni che proprio la nazionalizzazione dell’azienda,sotto il controllo dei lavoratori, spazzerebbe via. Il Padrone non vuole o non può investire nel risanamento? E’ indubbio. Ma proprio per questo il padrone va espropriato.
I suoi enormi utili verrebbero investiti dallo Stato nella messa a norma degli impianti. Sarebbero gli utili privati di una proprietà criminale a provvedere al risanamento del crimine. Come è giusto che sia.
Se poi queste risorse non saranno sufficienti, possono intervenire le risorse pubbliche, magari ricavate dall’annullamento del debito pubblico verso le banche o da una tassazione progressiva dei grandi patrimoni. E se Bruxelles protesterà, nel nome degli interessi concorrenziali delle altre imprese europee, al diavolo Bruxelles!. Il diritto alla vita e al lavoro non può essere sacrificato alla legge del profitto e della concorrenza. Ed anzi una riconversione ecologica della siderurgia italiana, sotto il controllo dei lavoratori, darebbe un enorme incoraggiamento a lotte di massa analoghe in altri Paesi e continenti, contro le “leggi” dell’Unione.
In più il controllo operaio sul processo di riconversione, unito al controllo sociale sulla bonifica esterna dei territori, darebbe piena garanzia ai lavoratori dell’Ilva circa il mantenimento del proprio posto di lavoro, e potrebbe anzi aprire a nuove assunzioni di disoccupati (in particolare per l’azione di bonifica). In ogni caso il ricatto occupazionale di Riva ( “o così, o me ne vado”) verrebbe annullato.
Se poi particolari ragioni tecniche, riconosciute dai lavoratori stessi, dovessero comportare un periodo di interruzione della produzione ai soli fini del completamento del risanamento, i lavoratori dell’Ilva, e tutti i lavoratori dell’indotto, avrebbero diritto ad un salario pieno garantito dall’industria nazionalizzata per tutto il periodo necessario. Anche in questo caso a spese dei grandi profitti e patrimoni. Non si tratterebbe di “un sussidio al posto del lavoro”, ma di un costo del risanamento della produzione, nell’interesse del lavoro e della sua protezione.
LA NAZIONALIZZAZIONE: SOLUZIONE RIFORMISTA O RIVOLUZIONARIA?
E’ interessante osservare che la soluzione della nazionalizzazione dell’Ilva sarebbe talmente naturale nella conciliazione di lavoro e ambiente, che incomincia ad affacciarsi timidamente, in forme diverse e da versanti diversi, nel commentario di intellettuali e sindacalisti. Lo scrittore Ermanno Rea, giornalista esperto della dismissione di Bagnoli e dei suoi effetti, si è pronunciato pubblicamente sul Corriere della Sera “a favore della nazionalizzazione dell’Ilva, premessa necessaria della sua riconversione”. L’ex pretore ambientalista Gianfranco Amendola , sempre sul Corriere, chiede “che il governo espropri l’Ilva, faccia un decreto legge, nomini un commissario con pieni poteri” per gestire una vera riconversione. Giorgio Cremaschi, dalle colonne de Il Manifesto, ha rivendicato la nazionalizzazione dell’ILVA come una possibilità garantita “dalla Costituzione”, naturalmente con “indennizzo”.
Ma il punto debole di questi pronunciamenti, tutti peraltro significativi, è che ignorano o rimuovono il carattere rivoluzionario e dirompente della rivendicazione della nazionalizzazione dell’Ilva: la circoscrivono in un illusorio recinto riformista, la subordinano al dettato costituzionale( obbligo di “indennizzo”), ne smussano i risvolti radicali e di classe ( rifiuto del controllo operaio). Il tutto nello sforzo di mostrarne la “realizzabilità”, la “fattibilità” e dunque la conciliabilità col capitalismo.
La verità è un altra. La nazionalizzazione dell’Ilva non sarà mai realizzata dal governo Monti o da un altro governo borghese, tanto più nel quadro attuale della crisi capitalista e della “compatibilità” di mercato dell’Europa dei capitalisti. I costi ingenti della riconversione e della bonifica dell’acciaieria più grande d’Europa, non saranno mai compatibili con le leggi del profitto, e col vincolo del debito pubblico imposto dalla crisi. La soluzione di svolta può essere imposta solamente da un’azione di massa radicale della classe operaia e della popolazione povera, che renda ingovernabile ogni altra soluzione, rompa con le leggi del capitale, rovesci i rapporti di forza, apra la via di un governo dei lavoratori, basato su un programma anticapitalista.
IL CASO ILVA E IL REALISMO DELLA RIVOLUZIONE
“Ma allora la nazionalizzazione non è realistica”, obietterà qualcuno. E’ una obiezione mal posta. La verità è che non è “realistico” nessun reale avanzamento delle condizioni di lavoro, di salute, di vita, dei lavoratori e della maggioranza della società senza il rovesciamento della dittatura degli industriali e dei banchieri.Cioè senza la conquista del potere da parte dei lavoratori e di tutti gli sfruttati. La proposta della nazionalizzazione dell’ILVA, proprio perchè è l’unica soluzione reale, si limita a chiarire da un versante particolare questa verità generale. La rivoluzione sociale è l’unica soluzione realistica delle grandi questioni del nostro tempo. Sviluppare la coscienza delle masse, e innanzitutto della loro avanguardia, sino alla comprensione di questa verità è l’obiettivo, in ogni lotta, del Partito Comunista dei Lavoratori.