Il governo Berlusconi Letta Napolitano
di PCL Romagna · Maggio 1, 2013
UN GOVERNO PRESIDENZIALE
Il nuovo governo di “unità nazionale” nasce sotto il segno presidenziale. Il presidente della Repubblica rieletto lo ha imposto di fatto, ne ha ispirato la composizione, si pone pubblicamente quale suo protettore e garante.
Giorgio Napolitano ha scelto Enrico Letta come Presidente del Consiglio, per assicurarsi il massimo coinvolgimento politico del PD nel nuovo governo; e al tempo stesso per premiare un giovane quadro del capitalismo italiano, già ampiamente sperimentato nei crocevia bipartisan della seconda Repubblica, particolarmente gradito agli ambienti industriali e al Vaticano.
I ministeri chiave del nuovo governo sono di fatto di nomina presidenziale: Saccomanni, direttore di Bankitalia, all’economia, a massima garanzia del capitale finanziario italiano ed europeo; Moavero, tecnico confindustriale montiano, alle politiche comunitarie, quale garanzia di diretta continuità col governo uscente sulle partite negoziali in corso con la U.E.; Giovannini, Presidente dell’ISTAT, al lavoro, come regista “super partes” della nuova concertazione tra Confindustria, sindacati e banche; Cancellieri, da ministro degli Interni alla Giustizia, per lavorare da posizione “neutra” alla “pacificazione” tra Magistratura e Berlusconi, disinnescare mine, ricomporre l’equilibrio tra i poteri dello Stato; Emma Bonino agli Esteri, per garantire un sicuro presidio filo sionista (sotto la veste di un’immagine “popolare”)sul versante del complesso scenario medio orientale.
Su tutte le frontiere “critiche” il Lord Protettore Giorgio Napolitano ha posto l’interesse generale del capitalismo italiano al di sopra del negoziato privato tra i partiti borghesi. Facendo leva sulla loro crisi e sulla crisi dei loro rapporti.
EQUILIBRI DI GOVERNO E AFFARI BORGHESI
I partiti borghesi, dal canto loro, si sono spartiti il resto della partita ministeriale. Letta Presidente del Consiglio e Alfano vice presidente, nonché ministro dell’Interno, segnano al massimo livello l’accordo di governo tra PD e PDL. Al di sotto di questo livello di rappresentanza, l’equilibrio politico del nuovo esecutivo si regge tra le seconde o terze file dei due maggiori partiti. Con due elementi di nota: la sostanziale assenza di ministri di “estrazione PCI/DS” e la pletora trasversale di ministri cattolici. La prima registra la crisi verticale del campo bersaniano dentro la disfatta del PD: i gruppi dirigenti del PCI e la loro “ditta” sono la prima vittima del disastro della propria creatura. La seconda misura la funzione cerniera del campo cattolico borghese lungo la linea centrale dell’equilibrio politico, il suo peso contrattuale nei rispettivi schieramenti, i suoi legami con potentati borghesi. Lupi a Infrastrutture e Trasporti compensa CL della caduta di Formigoni, a presidio dell’enorme giro d’affari sull’Expo. Lorenzin alla Salute onora le proprie relazioni familiari coi vertici di Farmindustria, e garantisce gli interessi della sanità privata. De Girolamo all’Agricoltura, più modestamente, riflette i legami filiali col potente direttore del Consorzio Agrario di Benevento.
Come si vede i conflitti di interesse, piccoli o grandi, non sono una prerogativa di Berlusconi, come vorrebbe la letteratura liberal progressista, ma un connotato fisiologico della vita politica borghese. Quando Marx parlava del governo come “comitato d’affari della borghesia” si riferiva alla rappresentanza dell’interesse generale DI sistema. Ma anche alle miserie correnti dei mille interessi particolari NEL sistema.
GRANDE CAPITALE E PARTITO DEMOCRATICO
Il grande capitale è il mandante diretto del nuovo governo dell’unità nazionale. Come lo fu del governo Monti nel novembre del 2011.
Non era questo il suo disegno. Dopo l’esperienza del governo “tecnico” la grande borghesia puntava su un equilibrio politico basato sull’incontro tra PD e Monti, dentro la ricomposizione di una dialettica bipolare rifondata che emarginasse ruolo e peso di Berlusconi ( apparentemente “finito”). La sconfitta elettorale del centrosinistra, lo sfondamento populista a 5 Stelle, il recupero politico di Berlusconi, la precipitazione senza rete della crisi politico istituzionale, hanno totalmente ribaltato il quadro. Dal 26 Febbraio tutti i poteri forti hanno visto nell’unità nazionale l’unico possibile sbocco della crisi politica. Per questo hanno accompagnato con scetticismo e persino sarcasmo i tentativi di Bersani di sfuggire alla propria sconfitta. E per questo hanno salutato con entusiasmo la rielezione di Napolitano e la formazione del nuovo governo di “pacificazione”.
Dopo mille drammatiche convulsioni, il PD e tutte le sue componenti fondamentali si sono infine allineati al volere del grande capitale. Nella drammatica emergenza capitalistica del novembre 2011 fu il grande capitale industriale e bancario a chiedere al PD di non andare al voto, a favore della soluzione Monti: e Bersani rinunciò ad una vittoria elettorale certa proprio in virtù della dipendenza PD dalle scelte e necessità del capitale. Oggi, nella drammatica emergenza politico istituzionale di questi mesi, è ancora una volta la pressione del grande capitale a riallineare alla fine tutto il PD attorno all’unità nazionale: sino a imporgli la sconfessione pubblica di un’intera campagna elettorale e l’umiliazione penosa del gruppo dirigente. Oggi come ieri, l’interesse generale della borghesia italiana prevale sull’interesse particolare di partito. La natura borghese del PD, se ve ne era bisogno, è confermata nel modo più clamoroso dall’ intero svolgimento politico dei due ultimi anni. Contro tutte le illusioni di un suo possibile condizionamento a sinistra.
GOVERNO MONTI E GOVERNO LETTA
Il nuovo governo non è e non sarà la semplice continuità del governo Monti. Medesima è la maggioranza politica che lo sostiene, seppur ora in forma esplicita e non più mascherata. Ma diversa è la sua funzione, perchè diverso è il contesto.
Il governo Monti nacque alla fine di una legislatura berlusconiana, nel momento di massima crisi economico finanziaria del capitalismo italiano, col compito di tamponare l’emergenza con misure urgenti di impatto brutale ( distruzione delle pensioni d’anzianità, età pensionabile a 70 anni, smantellamento dell’articolo 18): misure che non avrebbero potuto adottare con le proprie forze né un governo Berlusconi in agonia, né un governo Bersani/Vendola; e che richiedevano dunque la supplenza temporanea dei grandi “tecnici” del capitale.
Il governo Letta Alfano nasce al piede di partenza della legislatura, nel momento della massima crisi politico istituzionale della seconda Repubblica. Ha il compito di amministrare l’eredità e la continuità delle politiche di Monti sul terreno dell’attacco alle condizioni del lavoro e alle prestazioni sociali. Ma ha anche il compito di inquadrare e stabilizzare le politiche di sacrifici in un nuovo contesto. Deve consolidare un quadro stabile di concertazione sindacale, che recuperi organicamente la CGIL al fianco di CISL e UIL. Deve cercare di riaprire parallelamente uno spazio di negoziazione in Europa sul Fiscal Compact e le politiche di bilancio che consenta un margine di manovra più ampio ( anche e innanzitutto per dare più soldi ai capitalisti). Deve avviare una vera riforma istituzionale e costituzionale che miri a dare al capitalismo italiano un quadro certo di governabilità, sullo sfondo di una crisi capitalistica nazionale ed europea che è ben lungi dall’essere superata( “Convenzione per le riforme istituzionali”). L’avanzata delle posizioni presidenzialiste in campo borghese si colloca in questo quadro.
Nel suo insieme il programma del nuovo governo è quello di una stabilizzazione capitalista sul fronte sociale e della transizione alla Terza Repubblica sul fronte politico.
INCOGNITE POLITICHE E CRISI DI CONSENSO
Ma questo programma ambizioso deve fare i conti con molte difficoltà, su un terreno politico ancora scosso, e segnato da numerose incognite ( sviluppi della crisi del PD, vicende giudiziarie di Berlusconi..). E sopratutto deve misurarsi con l’assenza di spazi materiali significativi sul terreno del recupero del consenso sociale; con la presenza di forti contraddizioni nei compositi blocchi sociali di riferimento i partiti che lo sostengono; col rischio, in particolare, di una ripresa reale dell’opposizione sociale e di massa.
Il governo cercherà di prevenire e ridurre questo rischio con qualche iniziale concessione che provi a dare l’immagine di “una nuova stagione”( come sull’IMU). Così produrrà qualche fatto simbolico sul terreno dei cosiddetti “costi della politica”( stipendi, vitalizi, numero dei parlamentari, rimborsi elettorali..), per mascherare la continuità dei sacrifici sociali per le grandi masse: a riprova del fatto che il populismo rappresenta a tutti gli effetti uno strumento di conservazione dell’ordine borghese e di protezione delle sue politiche di rapina.
Ma gli strumenti di distrazione di massa non sono infiniti. E possono rivelarsi effimeri.
LO SPAZIO POLITICO DELL’OPPOSIZIONE SOCIALE
C’è una differenza importante, dal versante della percezione di massa, tra la genesi del governo Monti e la genesi del governo Letta Alfano. Il governo Monti beneficiò al piede di partenza di alcuni fattori favorevoli. In primo luogo dell’effetto “liberatorio” della caduta di Berlusconi presso un’ampia fascia di opinione pubblica democratica . In secondo luogo del fatto di essere un governo “senza partiti” nel momento del loro massimo discredito agli occhi di grandi masse popolari. Ciò consentì al governo di intraprendere la propria offensiva antioperaia e antipopolare in un quadro segnato da un senso comune popolare inizialmente non ostile. Su cui peraltro si appoggiò la stessa burocrazia CGIL per coprire la rapina sulle pensioni, a vantaggio del PD. Un PD a sua volta tonificato dagli anni di opposizione a Berlusconi.
Oggi il decollo del nuovo governo avviene su uno sfondo molto diverso. E meno “protetto” nel rapporto di massa.
I partiti che si alleano al governo attorno a Letta hanno perso nel loro insieme 11 milioni di voti dal 2008. I lunghi anni della crisi capitalista e l’esperienza comune del sostegno a Monti per ben due anni ne hanno sfibrato ulteriormente credibilità e forza. In più il popolo della sinistra è ampiamente traumatizzato e scosso dal “ritorno di Berlusconi” al governo e da un quadro di unità nazionale che lo stesso PD aveva chiamato a superare e a respingere: da qui un sentimento diffuso a sinistra di estraneità o di rigetto.
La burocrazia CGIL (nuovamente spiazzata dal mancato appuntamento concertativo con l’agognato governo di centrosinistra) si aggrappa in mancanza di meglio al nuovo governo e alla ritrovata intesa con CISL e UIL, candidandosi più direttamente di ieri a copertura di un PD allo sbando, e dunque a scudo del governo. Ma sarà dura coprire la continuità dei sacrifici, senza risultati, e dentro una recessione che permane.
Da qui il “rischio” serio di una radicalizzazione sociale.
E’ il vero timore dei circoli dominanti. La reazione corale di sistema agli sventurati colpi di pistola di piazza Montecitorio, all’insegna del “stringiamoci a corte” contro chi “aizza la piazza”, non ha alcun rapporto logico con l’episodio in sé: riflette invece la volontà di disarmare preventivamente l’opposizione di massa, di intimidirne le ragioni, di disinnescare ogni possibile dinamica di ribellione. Quando Napolitano evoca il rischio di “una piazza contrapposta alle istituzioni” confessa la paura della borghesia italiana.
Le opposizioni parlamentari lavorano contro la radicalizzazione sociale.
Il M5s di Grillo e Casaleggio cercherà di capitalizzare le politiche dell’unità nazionale a vantaggio del proprio progetto (reazionario) di Repubblica plebiscitaria. Che è contro il movimento operaio.
Sinistra e Libertà si attesterà sull’opposizione “costruttiva” per salvaguardare la prospettiva di una ricomposizione col PD in occasione delle future elezioni politiche.
Il PCL lavorerà per l’unificazione delle lotte sul terreno di un’opposizione radicale e di massa che miri alla cacciata del governo Letta/Alfano/Napolitano. Solo un’esplosione sociale radicale guidata dal movimento operaio può dare una soluzione progressiva alla crisi italiana aprendo dal basso un nuovo scenario politico. Solo la rottura di ogni cordone ombelicale col PD, e il rifiuto di ogni subordinazione al qualunquismo populista, possono liberare la via della ribellione di massa. Lavorare all’innesco della ribellione, dare ad essa una coscienza anticapitalista, indicare nel governo dei lavoratori l’unica vera alternativa per gli sfruttati: questa è tanto più oggi la politica del PCL, e lo strumento della sua stessa costruzione e radicamento.