Vi proponiamo alcuni appunti, presi à la Engels (in forma di domanda e risposta), ricavati dalla lettura de La rivoluzione permanente di Lev Trotsky. Non a caso, a questa opera non sono state riservate nuove edizioni italiane da più di trent’anni: “Finché il socialismo non si è fatto spiritualmente strada tra le masse, il plauso della folla non può che andare a gente senza partito o a oppositori del socialismo” (Marx 1865). L’apparente odierna impopolarità di Trotsky ci conferma, al contrario, quanto ancora sia pericoloso, vivo e attuale il discorso sulla possibile (giacchè oggi non c’è) società socialista e sul processo rivoluzionario necessario a realizzarla.
L’edizione italiana che vi consigliamo per la lettura (che rimane sempre indispensabile e non sostituibile da qualsivoglia compendio o appunto) è quella a cura di Livio Maitan, Mondadori, 1979
Nè sul piano scientifico-teorico nè su quello storico-pratico è mai stato provato che la società socialista sia un’utopia, o che sia un modello in sè destinato al fallimento. Si deve tenere a mente che la Rivoluzione d’Ottobre basava le sue speranza su un intervento nel breve terminedel proletariato internazionale in aiuto al “baluardo” russo accerchiato dalle forze capitaliste: da Marx a Trotsky, la necessità della rivoluzione, vittoriosasolo se permanente e internazionale, fu un punto fondamentale della teoria marxista, al netto delle varie degenerazioni.
Solo con la deriva burocraticista e nazionalista dello stalinismo fu accettata come valida la teoria del “socialismo in un paese solo” (anche se, già nel 1878, il socialdemocratico Georg Vollmar sosteneva che il socialismo sarebbe stato molto probabilmente ottenuto solo nella forma dello “Stato socialista isolato”, ovviamente in Germania…). Storicamente, i processi rivoluzionari verificatisi nello stesso periodo storico della rivoluzione sovietica (ad es. Ungheria, Germania, Cina, Spagna) sono stati presto soppressi; successivi episodi simili sono stati ricondotti sotto il controllo dell’Unione Sovietica di Stalin prima e dei suoi epigoni poi, e presto o tardi riportati all’ordine borghese (è innegabile riscontrare questa tendenza anche nei casi di Cuba e Cina).
Lenin e Trotsky, sùbito dopo la presa del potere in Russia, avevano ben presente che “quanto più l’URSS resterà nell’accerchiamento capitalista, tanto più profonda sarà la degenerazione dei suoi tessuti sociali. Un isolamento indeterminato dovrebbe portare immancabilmente non all’instaurazione di un comunismo nazionale, ma alla restaurazione del capitalismo”. In effetti le regioni dell’impero russo prima e dell’URSS poi, a seguito della caduta di quest’ultima, sono ripiombate in un modello capitalistico autoritario ed arretrato (basato più sulle abbondanti risorse naturali che non sulla competitività) dove la chiesa ortodossa è tornata all’antico “splendore”, a dimostrazione che l’URSS non fu già un approdo al socialismo, ma una transizione incompiuta che non è riuscita ad andare definitivamente oltre la precedente arretratezza (non solo economica) dell’impero russo.
No, e due citazioni possono chiarire il perché. La prima è di Lenin (1905): “Noi siamo per la rivoluzione ininterrotta. Non ci arresteremo a mezza strada”. Sia in campo teorico che nella prassi politica, Lenin fu contrario ad un approccio per gradi, intervallati da pause di indefinita lunghezza, nel processo mondiale della rivoluzione comunista,che non può dunque arrestarsi dopo la presa del potere in uno o pochi stati, dal momento che la forza sociale che vi si oppone (il capitale, la classe borghese e relativi subordinati) esercita il suo potere a livello mondiale, e non esiterebbe al più aspro dei conflitti di fronte alla prospettiva reale della sua dipartita.
Si potrebbe obiettare che tale posizione di Lenin fosse isolata o confutata già mentre era in vita (quindi prima del 1924): è vero il contrario, poiché durante i primianni “leniniani” della vita dell’URSS, il manuale “ABC del comunismo” di Bucharin e Preobraženskij(poi giustiziati durante le purghe staliniane) fu diffuso in un gran numero di copie, e vi leggiamo: “La rivoluzione comunista può vincere soltanto come rivoluzione mondiale”. Infatti, prima dell’ascesa al potere di Stalin, nessun dirigente bolscevico aveva proposto la teoria del “socialismo in un paese solo”, teoria (o, meglio, ideologia) che poneva le sue basi sulle risorse naturali e “geopolitche” dell’URSS1, apparentemente sufficienti secondo Stalin a realizzare compiutamenteil socialismo in un paese accerchiato dalle soverchianti forze capitalistiche.
Al contrario, essendo storicamente fallito ogni tentativo di “socialismo in paese solo” (ad es. Russia, Cina, Cuba), è corretto affermare che, se i paesi più ricchi di risorse del pianeta (e quindi apparentemente più adatti a una qualche “autarchia socialista”) non sono stati in grado di realizzare la società socialista, nessuno Stato isolato sarà mai in grado di non risultare perdente dalla lotta contro le forze del capitale.
Tale teoria ha le sue radici nell’internazionalismo del Marx del “Manifesto del partito comunista” (“Proletari di tutto il mondo, unitevi!”) e nel patrimonio teorico elaborato da Trotsky (e da Parvus) a seguito della rivoluzione russa del 1905, e raccolto, sotto forma di saggi ed articoli, nel volume “Bilanci e prospettive” (1905). L’idea di una rivoluzione internazionale ed ininterrotta fu la risposta alla questione della rivoluzione in paesi arretrati, dove la società capitalistica non era ancora matura: opponendosi alla teoria degli stadisocialdemocratica-menscevica, Trotsky teorizzava la guida del proletariato nell’evoluzione del processo rivoluzionario da democratico-borghese a comunista come necessità anche solo per il compimento del programma rivoluzionario borghese: le borghesie dei paesi arretrati affrontavano contraddizioni troppo forti anche solo per realizzare il programma che propugnavano. La teoria di Trotsky fu poi integrata dalla critica dei moti russi e cinesi successivi al 1905, e da concetti teorici aggiornati, come quello della trascrescenzaleniniana.
La teoria della rivoluzione permanente afferma che “nella nostra epoca l’assolvimento dei compiti democratici nei paesi borghesi arretrati porta questi paesi direttamente alla dittatura del proletariato, e che questa dittatura mette all’ordine del giorno i compiti socialisti […] Mentre secondo l’opinione tradizionale la via verso la dittatura del proletariato deve passare attraverso un lungo periodo di democrazia, la teoria della rivoluzione permanente proclama che nei paesi arretrati la via verso la democrazia passava attraverso la dittatura del proletariato. Di conseguenza la democrazia non era considerata come un fine in sé, valido per decine d’anni, ma come il preludio immediato della rivoluzione socialista cui era legata da un legame indissolubile. Così diveniva permanente il processo rivoluzionario dalla rivoluzione democratica alla trasformazione socialista della realtà” [dalla Introduzione]. Trotsky difese e chiarì la teoria in diversi suoi scritti, il più importante dei quali rimani appunto “La rivoluzione permanente”; nel punto 10 del capitolo “Che cos’è dunque la rivoluzione permanente” si trova un’essenziale sintesi della teoria: “La rivoluzione socialista non può giungere a compimento entro il quadro nazionale. […] [Essa] si concluderà solo con il trionfo definitivo della nuova società su tutto il nostro pianeta”.
1Unitamente ad una visione antimarxista della superiorità culturale e morale del proletariato russo rispetto agli altri.