È di questi giorni la notizia che alla Rocca delle Camminate, dopo il restauro verrà ricollocato il “faro”, ossia l’edicola in ferro costruita in epoca fascista sulla sommità della rocca. Il faro proiettava una potente luce tricolore a decine di chilometri di distanza, per segnalare la presenza di Mussolini nella residenza. Con estremo rammarico i restauratori dovranno però rinunciare al ripristino del “fascio” di luce, che disturberebbe il traffico aereo.
Questa iniziativa va ad aggiungersi alle tante sul territorio che mirano alla conservazione dell’eredità fascista in un’ottica che sempre più spesso attenua od omette gli avvenimenti storici, strizzando l’occhio a un tipo di turismo o di fruizione completamente privo di memoria.
Quel dito, che si staglia così nitidamente all’orizzonte, deve essere un monito e un ricordo. Grazie ai finanziamenti milionari della Regione e dell’Unione Europea la Rocca diventerà la sede del Tecnopolo, con uffici, sale riunioni e spazi multimediali.
La Rocca delle Camminate per noi, soprattutto oggi a distanza di esattamente 70 anni, è in primo luogo il teatro delle orribili torture inflitte ad Antonio Carini e a tanti altri combattenti partigiani.
Qui Carini, per quattro giorni, resistette alle torture fasciste: “affrontava con animo stoico e sereno le più atroci sevizie e torture, senza che mai nulla di benché minimamente compromettente potesse uscire dalle sue labbra” (dalla motivazione della decorazione al valore).
Nel marzo di 70 anni fa da questi stanzoni, oggi polifunzionali, si levavano grida disumane. Carini veniva portato di cella in cella, come ammonimento per gli altri partigiani.
Non ha più i denti davanti, uno zigomo è rotto. Un occhio si sposta dalla sua orbita, le sue gambe e i suoi piedi sono bruciati perché Antonio è stato seviziato con una baionetta rovente. Nonostante questo Antonio non parla, capisce che sta quasi per morire ma anzi dice ai compagni di tener duro. Valbonesi (un altro partigiano detenuto nello stesso periodo di Carini) ricorda: “Ho avuto modo di parlargli un attimo mentre era legato a un palo. Per noi c’erano state botte sulle gambe con stecche da biliardo, ma lui era stato maciullato: la carne delle gambe emanava puzza di bruciato. Eppure, in quel breve attimo in cui potemmo parlarci, mi raccomandò di non lasciarmi scappare nulla con i fascisti, di essere forte.” (da A. Bongiorni)
Il 13 marzo del 1944 i fascisti legarono Carini, ridotto ormai in fin di vita, a un’auto e lo trascinarono al Ponte dei Veneziani di Meldola, da qui lo buttarono nel Ronco, dopo averlo pugnalato e sfigurato a colpi di pietra. Il monumento sul ponte riporta ancora quel volto disfatto, con la scritta “come fu ridotto”.
Noi oggi ricordiamo questo. Come esige il monumento sul Ponte dei Veneziani, destinato agli “immemori”.
Del faro avremmo fatto volentieri a meno.