Per un 25 aprile di lotta. Contro il patto d’oblio per continuare a rivendicare un’altra società.
La Storia “ufficiale” ha la funzione di spiegare e giustificare l’evento bellico e le scelte del potere costituito. A cominciare da Tucidide, nel suo “Le guerre del Peloponneso”, si registra il rapporto tra la Storia e il suo “uso pubblico”.
La “memoria collettiva” è da sempre la liturgia commemorativa che serve a pacificare.
In Italia, con la fine della prima Repubblica che ha spazzato via il pentapartito e posizioni cristallizzate, si è entrati con la seconda Repubblica in un piano di “rinascita democratica” che ha segnato l’ultimo ventennio.
Si è passati dalla gestione del potere da parte della classe dominante, attraverso i partiti dell’asse costituzionale che si basavano, tranne alcune parentesi (governo Tambroni ’60), sulla “convenzione ad escludere” la destra, erede del ventennio fascista e dell’onta della repubblichetta di Salò, ad una gestione del potere bipolare che ha rimosso le basi antifasciste (seppur istituzionali ed edulcorate) della Repubblica aderendo ad un’idea a-fascista.
Liberati dal “pregiudizio” antifascista, i settori della destra reazionaria hanno così alimentato i loro consensi e trovato i cantori di queste posizioni in pseudo-storici come Giampaolo Pansa. Il circo mediatico si è così sostituito alla riflessione storiografica e la fiction ha preso il posto del cinegiornale nella fabbricazione del consenso.
L’idea di fondo profusa è che sentire troppo il “dolore di una parte” impedisce di sentire il dolore collettivo, e così i liberal-democratici dopo aver aperto già nel 1922 le porte alla canea reazionaria, oggi più o meno consapevolmente stanno creando le premesse teoriche per delle nuove barbarie.
Ma se ci opponiamo a questo patto d’oblio, che vorrebbe ridurre il passato al “chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato ha dato, scordiamoci il passato”, voluto dal duopolio borghese (Pd-Pdl), non è per un ancestrale romanticismo resistenziale, ma perché siamo a conoscenza, come avrebbe detto Guido Picelli, che la brutta stonatura dura più del bell’acuto.
Di fronte ad una crisi economica che rischia di trasformarsi in sociale, il fascismo è uno strumento che potrebbe tornare utile al regime capitalista, se si aggiunge che, con lo sdoganamento della destra razzista, imperialista e neofascista, le giovani generazioni sono sempre più disorientate. Tanti industriali il 28 ottobre del 1922 (marcia su Roma) si congratularono con Mussolini… (un bel telegramma di felicitazioni fu spedito al duce anche da Agnelli). Anche banchieri e latifondisti (e piccoli proprietari spaventati di perdere il possesso della loro proprietà privata) osannarono Mussolini, in cerca di una bella “normalizzazione”. E normalizzazione sarà, ma del tipo “capitalistico”…
Michele Salvati, teorico di riferimento di quell’aborto di partito che è il Pd, nel 2003 ha introdotto un testo di Perez-Diaz “La lezione spagnola” (ed. Il Mulino) dove la tesi di fondo era che l’esclusione dei vinti conduce a conflitti. Tuttavia ci preme ricordare che dalla caduta del regime franchista nel 1975, che appunto non aveva visto l’epurazione della direzione franchista, al 1981, è avvenuta un’escalation di violenze impressionante sfociata nel tentato golpe da parte di Tejero nel 1981. Verrebbe da dire che il punto di riferimento di Salvati è tutt’altro che edificante.
Ma i fatti hanno la testa dura, e se oggi ci ritroviamo con certi rottami post-fascisti è perché nemmeno l’Italia ha realmente fatto i conti con il suo passato, e la “convenzione ad escludere” è stata più proclamata che praticata.
Tutto l’establishment del regime fascista fu mantenuto nelle istituzioni.
Il primo marzo 1946, i rappresentanti della Resistenza insediatisi nelle prefetture e nelle questure, tranne in pochissimi casi, furono costretti a lasciare i loro posti a funzionari di carriera, ovvero al vecchio apparato fascista.
I prefetti fascisti all’indomani dell’aprile del ’45 si trasformarono in “democratici” mantenendo così il “loro” posto.
Come dire…la dimostrazione plastica che la repubblica borghese nacque a dispetto della Resistenza.
Ciò che è stato escluso, e si è cercato di rimuovere, è stato sin dall’inizio il conflitto di classe.
In questa logica andava l’amnistia dei fascisti voluta da Togliatti e il successivo compromesso costituzionale.
Recuperare la ricerca storico-scientifica aiuta oggi a comprendere che ciò che sembrava irripetibile, per mezzo dell’oblio storico, rischia di riemergere (anche se in forme diverse).
Il fascismo non è stato una parentesi della storia d’Italia, ma ha rappresentato la continuità.
La crisi dello Stato liberale ha visto non di rado gli stessi liberali vestire la camicia nera (De Nicola, Salandra, Orlando, ecc) o non osteggiarla apertamente (si pensi a Croce e il suo innocuo manifesto a-fascista in risposta al manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile, mentre anarchici e comunisti subivano le torture e il confino).
Lo stesso passaggio “armi e bagagli” di numerosi fascisti alla democrazia post-fascista, si pensi ad esempio a Badoglio, dimostra i nessi profondi tra fascismo e storia d’Italia. E questa correlazione ci impone un’attenzione particolare a questo tema.
Proprio mentre la ricerca storica compie passi in avanti verso la comprensione di un regime classista al soldo della classe dominante, si cerca di mettere una pietra tombale sopra a scomode verità.
Si rimuove il passato, per affrancare i liberali, che hanno prodotto le premesse ideologiche del razzismo di Stato attraverso il colonialismo.
Si rimuove il passato per diffondere una rinnovata retorica degli “italiani brava gente”, trascinati al razzismo dal nazismo con le leggi razziali del ’38, quando in realtà l’impostazione razzista del regime in camicia nera era chiaro sin dal suo insediamento dai discorsi parlamentari del suo Duce e dove nel 1936 con la guerra di Etiopia emerse il progetto mussoliniano di un’Etiopia senza etiopi. La rimozione serve a giustificare l’odierna barbarie nei teatri di guerra dell’italico imperialismo.
Il regime fascista fu una spietata dittatura anti-proletaria, che introdusse l’aumento dei ritmi di produzione per mezzo del lavoro a cottimo e del fordismo più esasperato, un regime che dopo aver seminato il pregiudizio dell’operaio imboscato, eliminò ogni rappresentanza politica dei settori popolari.
La retorica corporativista e il ”sogno tecnocratico” si tradusse in un tentativo, non riuscito, di pacificare le rivendicazioni di classe.
Da una parte favorì gli oligopolisti che arrivarono a concentrare il 64% dei capitali.
Dall’altra parte, a differenza della retorica che voleva un consenso consolidato del fascismo, dal 1922 al 1925, gli scioperi dei metalmeccanici paralizzarono il paese e gli industriali iniziarono a temere che il regime non fosse nelle condizioni di sopire gli animi.
Solo dopo la fascistizzazione dei sindacati e la conseguente repressione dei settori operai indisponibili ad accettare passivamente l’aumento dei profitti e il parallelo crollo degli stipendi, si registrò un periodo di relativa pace sociale. Lo scontro di classe seppur privato delle organizzazioni proletarie riprese tuttavia in forma di jacquerie tra il 1930-32.
Non ci fu quindi un consenso assoluto, ma semplicemente la fine dell’opinione pubblica e una feroce repressione del dissenso.
Non basta celebrare e ricordare, è necessario conoscere, perché solo così è possibile riconoscere oggi certe inquietanti assonanze e scongiurarle prima che sia troppo tardi.
Quindi il non fidarsi dei partiti e dei politici che si definiscono antisistema (Grillo) passa anche attraverso le analisi delle loro proposte politiche.
Socialismo o barbarie del capitalismo!
Tutte le proposte che non hanno una prospettiva socialista sono solo a vantaggio degli sfruttatori e dei poteri forti (banchieri ed industriali).
Non esiste scuola che possa formare una società capitalistica progressista. Non esiste movimento culturale che possa rendere umana una società basata sul profitto e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Ecco, questo è il fascismo, cioè tutto ciò che non mette al centro i bisogni dell’uomo.
Solo una società esattamente opposta a quella esistente può considerarsi anti-fascista. Quindi una società naturalmente anti-fascista è una società Comunista.
È per questo che teniamo alta la guardia dell’antifascismo e come diceva il grande rivoluzionario Trotsky:
“…In un’epoca come la nostra, in cui i partiti piccolo-borghesi si aggrappano alla borghesia o alla sua ombra, paralizzano il proletariato e aprono la strada al fascismo; i bolscevichi, ossia i marxisti rivoluzionari, divengono particolarmente odiosi all’opinione pubblica borghese.
La più forte pressione politica dei nostri giorni viene esercitata da destra a sinistra. In definitiva, l’intero peso della reazione grava sulle spalle di una piccola minoranza rivoluzionaria…”