Piccoli profeti in patria
Prefazione
A cura di resistere.net
Pubblichiamo un articolo dal titolo –Comuni e comunisti– apparso nel mese di marzo del lontano 1992 sul periodico-Rifondazione- edito dalla federazione di Forlì del -Partito della Rifondazione Comunista- e che si riferisce a fatti avvenuti quindici anni prima, nel 1997. Si tratta, sotto il profilo storico/politico di un reperto archeologico, dato che in quegli anni iniziarono i cambiamenti epocali le cui conseguenze sono visibili oggi a mezzo secolo di distanza. Nell’89 era caduto il muro di Berlino e poco dopo, nel 1991, nel congresso della Bolognina, Achille Occhetto, Massimo D’Alema e Walter Veltroni avevano sciolto il Partito Comunista Italiano. Da lì erano nati due partiti: il PDS (Partito democratico della sinistra) che anni dopo diventerà l’attuale PD (Partito Democratico) e, appunto, il PRC (Rifondazione Comunista). Però, in sostanza, non è di questi che tratta il -pezzo- che proponiamo, ma di un movimento reale estraneo alla politica -ufficiale-, che seppe sperimentare e teorizzare i temi che oggi sono all’ordine del giorno, come la -questione- ambientale e le -differenze di genere-. Nessuno possiede la sfera di cristallo, tuttavia, nelle pieghe più nascoste del presente risiedono elementi che indicano il futuro, sempre che ci siano la volontà di cercarli e gli occhi per vederli.
“Comuni” e comunisti”
Negli anni Settanta, gruppi di giovani, di diverse provenienze sociali e politiche, occuparono alcune case semidiroccate e ormai abbandonate da decenni, nell’alto Appennino tosco-romagnolo, per fondarvi esperienze di vita collettiva, le cosiddette -comuni-
I motivi che li condussero a quella esperienza di radicale rifiuto dei principi ideologico-culturali ed economico produttivi delle società liberal-borghese sono sintetizzati in maniera semplice ed efficace, nell’appello “Alle forze politiche e ai cittadini”, scritto e diffuso , nell’aprile del 1977 dal collettivo “Zappatori senza padroni G. Winstanley -la terra a chi la lavora la casa a chi la abita” che , nel marzo dello stesso anno aveva occupato un gruppo di case denominato -Pian dei Baruzzoli-, sito a mezza costa di fronte la cascata dell’ Acquacheta, nel territorio del comune di Portico e San benedetto in Alpe.
… “Le ragioni che ci hanno portato a ritrovarci quassù sono varie, ma si possono riassumere nella ricerca di una vita naturale lontano dalla società dei consumi, che opprime e deteriora il nostro fisico e le nostre menti e che è basata sulla proprietà personale, includendo forzatamente violenza e guerra. Rapporti umani più pacifici, vita naturale, tutti decisi a lavorare per rimettere case e territori soggetti da oltre venticinque anni al vandalismo e al degrado”
In Germania, in Francia e in Italia, il movimento comunitario scoppia in chiave politica attorno al 68, con matrici “beat”, anarchiche e marxiste, ma sono oltre quindici anni che in tutto il mondo occidentale sono in sperimentazione pratiche di vita alternativa a quelle capitalistiche, cioè, al modo di vivere, ai rapporti e ai ruoli imposti dal capitale in questo tipo di società e funzionali a suo riprodursi. Il movimento comunitario copre in quegli anni uno spazio variegato, che va dalle-comuni non violente- alle comuni -cellule clandestine-, dei Weather Underground o dei Black Panters”. Da uno dei libri storici, edito nel 1997 nella collana -controcultura- di Savelli, dal titolo” Comune agricola” si può rilevare quanto, anche sul piano teorico-politico, certe formulazioni e concetti si ponessero in una posizione anticipatrice rispetto alla realtà odierna, [del 1992 n.d.r.] nella quale appaiono più evidenti e devastanti i nessi fra modo di produzione capitalistico e degrado ambientale, oltre ad altre questioni fondamentali per il nostro futuro come quelle della lotta per la pace e per l’affermazione delle differenze di genere.
… “Ci poniamo in competizione con il capitale non sul piano produttivistiche in senso quantitativo, ma come qualità della vita e dei valori d’uso, in un rapporto integrato fra umani e natura. Cerchiamo la parità dei rapporti nel riequilibrio fra bisogni e desideri, bando a capi e capetti, parità sessuale effettiva nella diversità dei ruoli nella divisione del lavoro, rotazione delle mansioni e avvicendamento negli incari organizzativi, onde evitare l’emergere di soggetti egemoni. Creare questo movimento comunitario, ampliarlo, difenderlo, mantenerlo vivo e inserirlo nel movimento reale in lotta per il comunismo è la parola d’ordine che lanciamo con il nostro impegno.”
I rapporti dei -comunardi- con gli abitanti della Val Montone furono diversi a seconda dei soggetti sociali e politici con cui questi, di volta in volta, vennero per diversi motivi a confronto: dalla aperta ostilità, fino alla simpatia e amicizia con settori giovanili attratti dall’aria di libertà e novità che per quei monti si respirava; mentre, per quanto riguarda i soggetti politico-istituzionali (Il PCI in testa, allora all’apogeo della sua espansione elettorale) furono quasi inesistenti. Rispetto alla comune di Pian dei Baruzzoli, la prima comune a essere fondata e tuttora esistente, fu solo grazie all’interessamento di singole personalità politiche e a una costante e coraggiosa azione di controinformazione, che fu possibile superare le continue persecuzioni da parte dell’autorità costituita (significativo è il foglio di via emesso nei confronti di un bambino di tre anni -per vagabondaggio-). Mai però fu percepito quel massaggio ideale e politico che quel modo di vita inviava continuamente verso -il mondo esterno-. Pur nei suoi limiti questo messaggio avrebbe dovuto essere, se non altro per affinità ideologica, un interlocutore politico naturale per tutte le forze della sinistra più o meno istituzionale, salvo il fatto che queste, più o meno consciamente, già da allora si stavano muovendo verso direzioni totalmente diverse.
Questa breve storia delle -comuni- romagnole, e del loro mancato incontro con i comunisti del forlivese, aiuta a comprendere in maniera concreta, e non ideologico-filosofica, un aspetto importante delle ragioni della crisi che ha portato allo scioglimento del PCI e alla sconfitta generale della sinistra: il ritardo storico nel comprendere il legame fra produzione delle merci e il problema ambientale. Sulle ragioni di questo ritardo scrive Gianni Alasia. (n°4 della rivista internazionale –Capitalismo, Natura, Socialismo- edita in Italia da – Il Manifesto-)
… “Noi tutti: socialisti, comunisti, sindacalisti eccetera, proveniamo da una condizione di sviluppo quantitativo ininterrotto: c’era e tuttora sussiste, specialmente nei sindacati, una visione secondo la quale lo sviluppo quantitativo ininterrotto della produzione porta con sé (seppure non automaticamente, ci sono state grandi lotte) una potenzialità di sviluppo sociale; detto in termini molto grezzi, produzione fa occupazione, occupazione fa classe operaia e sviluppo sociale. Il problema e che gli operai sono arrivati fino a un certo punto e cioè a porsi il problema di –come– produrre, ma non del “che cosa” e del “con che cosa produrre”: materie prime, tecnologie, energia) e il discorso non si è espanso dalla fabbrica al territorio, poi è arrivata la controffensiva tecnologica, che abbiamo conosciuto in questi anni : informatizzazione e frammentazione dei processi produttivi [Toyotismo n.d.r. ] accentramento dei capitali eccetera. Non è un caso che la svolta della Bolognina abbia proprio preso impulso dall’Emilia Romagna, dove il PCI ha fortemente influenzato le scelte di politica economica e dove si è verificato un originale ed efficace processo di progressiva integrazione fra il concetto tradizionalista dello sviluppo ( Una economia di piano come volano alla crescita produttiva) e i meccanismi propri della produzione e riproduzione del capitale nell’economia capitalista, fino a realizzare un riformismo consociativo e spartitorio che oggi, di fronte a una crisi economica generale, accompagnata da una forte controffensiva moderata, non riesce a reagire.
Infatti, cos’altro è il tanto decantato modello di sviluppo Emiliano-romagnolo se non la messa in opera di un sistema di mercificazione, a favore del capitale, di ciò che non è prodotto come merce (risorse naturali) in presenza di condizioni ambientali estremamente favorevoli: mari, montagne, terreni pianeggianti, risorse idriche, clima ottimale, popolazione distribuita in centri medio piccoli, ottima ricettività culturale all’etica del lavoro, eccetera.
I luminosi esempi di tale sviluppismo sono sotto gli occhi di tutti: le risorse idriche sotto il controllo e la pianificazione del Consorzio Acque, la pianura ridotta a un neutro ricettacolo di monoculture intensive, la vallate appenniniche ridotte a cave o a cantieri autostradali, la fascia costiera trasfigurata in un orrendo divertimentificio fine a sé stesso, per lo sfruttamento mercantile del tempo libero e del divertimento. E, come se tutto ciò non bastasse, gran parte di questo osceno baraccone” Acquafanfieristico, demenzialmusicale, italminiaturistico”, ormai sotto il controllo di capitali di dubbia provenienza e una coscienza sociale di tutto ciò praticamente assente. Se è vero che, come ha affermato Rossana Rossanda:” L’anomalia italiana rimane, nonostante tutto, il laboratorio più aperto per la sinistra in Europa” ciò è ancora più vero per l’Emilia-Romagna”.
Qualsiasi forza intenda riproporre un modello di sviluppo diverso a quello capitalista, senza rifluire nel politicismo consociativo o nel ribellismo populista, dovrà seriamente analizzare ciò che è successo nella nostra regione negli ultimi vent’anni per quanto riguarda le relazioni uomo-natura in conseguenza del tipo di politica economica adottata. Per dirci -oggi- comunisti, noi dobbiamo, per dirla con Giovanni Russo Spena: “Intrecciare la storia del rapporto ecologico fra specie e natura con la storia sociale e politica dei conflitti dentro la specie, le contraddizioni di classe, di razza, di genere, di specie in una essenziale unità dialettica”.
Occorre coraggiosamente confrontarsi con questa vasta problematica che, oltre ad aprire orizzonti concreti, rimette in discussione consolidate certezze. Sarebbe, infatti, oltremodo fuorviante se alle prossime elezioni amministrative una forza che si definisce -comunista- si trovasse ancora fra le voci stonate dei -ragazzi del coro-.
Stefano Falai