Le misure contro la siccità: una nuova fuga in avanti
Testo di Javier Valdés – IZAR
Traduzione di Antonio Banchetti
Iniziamo dagli aspetti sociali. Siamo dentro la peggior siccità della storia. Il settore agroalimentare consuma la maggior parte dell’acqua dello stato spagnolo (più del’80%). La regione più colpita dalla siccità è il bacino del mediterraneo: dalla Catalogna fino all’Andalusia, senza sottovalutare gli stati di siccità di Castiglia La Mancia ed Estremadura.
Continuiamo con gli aspetti scientifici. La maggior parte degli scenari che l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite prospetta per il bacino del mediterraneo sono di una desertificazione crescente che alterna, in misura maggiore o minore, eventi di calore estremo con lunghi periodi di severa siccità. Non a caso, dall’aprile del 2023 si sono registrati in tutti mesi i giorni più caldi da quando sono registrati i dati. Dei 365 giorni dell’anno passato, 250 hanno avuto una temperatura significativamente superiore alla media dello stesso giorno degli ultimi 25 anni. Le conseguenze del cambiamento climatico sono esplose dal 2022 e la comunità scientifica ancora non comprende esattamente perché si sia stappata la bottiglia della crisi climatica. Molti gruppi di ricerca, ciò nonostante hanno parlato molto dei “tipping points”, vale a dire punti di svolta che una volta oltrepassati ci collocano in uno scenario sconosciuto di incertezza climatica. Una fase nella quale i processi non topping devono più evolvere gradualmente, bensì possono farlo in maniera brusca e inattesa. Una volta attraversata questa linea si possono oltrepassare nuovi punti svolta che ci trasportino a una nuova spirali di cambiamenti senza punto di non ritorno verso una situazione di stabilità o che ci portino a una stabilità climatica che renda impossibile la vita umana in determinate zone del pianeta. Questo è il prezzo della crisi ecologica nella quale siamo immersi e il prezzo di una concentrazione di biossido di carbonio atmosferico che è maggiore del 50% rispetto a quello presente nell’era preindustriale.
Avremo oltrepassato già uno o qualcuno dei punti di inflessione climatica? Siamo già nel periodo di non ritorno?
A quanto detto bisogna aggiungere le ultime scoperte relazionate con un più che possibile collasso del cosiddetto capovolgimento meridionale della circolazione atlantica (AMOC Atlantic Meridional Overturning Circulation). La AMOC è una corrente oceanica che distribuisce il calore nel pianeta e permette che l’energia fluisca dall’emisfero sud verso l’emisfero nord, facendo in modo, grazie alla circolazione atmosferica, che l’Europa goda di un clima più mite che il Nord America. Molto spesso non pensiamo che Barcellona sia alla stessa latitudine di New York e a solo due gradi di differenza dalla latitudine della gelida città di Toronto. La AMOC, in conseguenza del cambio climatico, dà segnali molto seri di un crescente indebolimento e sempre più numerose ricerche assicurano che il suo collasso sarà solo questione di tempo. I primi modelli che trattano di prevedere cosa accadrebbe se la AMOC collassasse, concludono che avrebbe luogo un raffreddamento generalizzato dell’Europa e di alcune altre zone dell’emisfero nord.
Ci raffreddiamo o ci riscaldiamo? Entrambe le cose: il collasso dell’AMOC farebbe supporre un raffreddamento dell’emisfero settentrionale e un surriscaldamento dell’emisfero meridionale al vedersi bloccata la corrente che permette un reparto mondiale del calore. Molte zone del Nord Europa si troverebbero a stare alle stesse latitudini nelle quali Circolazioni in America del nord non vive nessuno a causa del freddo estremo. Potremmo pensare che il riscaldamento globale potrà essere compensato da questa possibile nuova era glaciale, però non sarà nemmeno così. Il fatto è che si prevede un cambiamento nel regime delle piogge che influenzerà, ovviamente, il bacino del mediterraneo, il quale si stima potrà perdere da un 25 a un 50% di precipitazioni in questo nuovo scenario. Per tanto, i possibili scenari a cui facciamo fronte sono: un deserto freddo o un deserto ardente. Scenari disastrosi per l’agricoltura.
Però il peggio di questo scenario non è la temperatura estrema né la siccità né le serie difficoltà nella produzione di alimenti. Il peggio di questi scenari è che il sistema economico capitalista e le sue logiche continuino a vivere. Il peggio è che sia il capitalismo stesso ad affrontare il problema ecologico in generale e la crisi climatica in concreto. Il piromane deve spegnere il fuoco che lui stesso ha scatenato. Non sembra una scena molto incoraggiante.
Parliamoci chiaro. La logica produttivista è quella che ci ha trascinato in questa situazione. E il capitalismo è un sistema intrinsecamente produttivista. L’economia capitalista o cresce o muore. Non sa vivere in uno stato stazionario e questo è il problema. Non ci sono risorse planetarie per una economia infinitamente vorace.
Analizziamo per un momento uno dei settori con maggior responsabilità rispetto alla crisi ecologica e climatica: il settore agroalimentare. In teoria la missione di questo settore è quella di dar da mangiare all’umanità, però sarebbe ingenuo non considerare che l’obbiettivo di qualsiasi capitalista consista nel guadagnare denaro e minare la concorrenza per guadagnare ancora denaro. Nella produzione agricola l’acqua può essere ciò che fa la differenza. È per questo che negli ultimi 25 anni in comunità come Castiglia La Mancia la superficie irrigata è aumentata di un 65%, seguita molto da vicino da Andalusia ed Estremadura. Però ciò che è più significativo è che non sono state introdotte coltivazioni irrigue come l’avocado o il pistacchio, bensì che la coltura irrigua più estesa attualmente sia l’olivo, dal momento che sono andate cambiando progressivamente le varietà tradizionali resistenti alle siccità per altre irrigue, molto più produttive però più vulnerabili. Il 75% della produzione irrigua si esporta. Perché in fondo è questa la chiave: produrre di più per poter competere meglio. Così come nel 2022, primo anno in cui le conseguenze della siccità erano evidenti, il settore agroalimentare spagnolo incrementava le sue esportazioni di un 13,1%. L’acqua garantiva la sacrosanta crescita e l’ancora più sacrosanto profitto capitalista. Però il prezzo lo paghiamo tutti.
Il prezzo non lo pagano solo quelle famiglie di piccoli agricoltori che si sono visti obbligati a realizzare cambiamenti verso un tipo di agricoltura più estensiva o svanire, conducendo al limite di rottura le proprie economie familiari. Il prezzo lo paghiamo tutti per una semplice ragione: il sovra sfruttamento del suolo esaurisce il suolo e le risorse idriche. La moderna agricoltura industriale determina suoli nudi privi di materia organica, ciò che favorisce l’erosione e la perdita progressiva del suolo stesso, che è la fonte originaria della produttività vegetale. Questa perdita della produttività naturale viene supplita dai fertilizzanti, per gran parte inorganici e derivati, per una gran parte, da modificazioni chimiche a partire da risorse fossili, generalmente gas naturale. Si prevede che il picco di produzione del gas naturale avverrà in un anno fra il 2025 e il 2030, per cui questa situazione è vicina a cambiare drasticamente. L’altra faccia di questo problema è che questi suoli impoveriti diminuiscono la possibilità di ricarica delle falde acquifere. Acque sotterranee in diminuzione e sempre più contaminate dalla concentrazione di fertilizzanti e da altri prodotti chimici utilizzati in agricoltura industriale. L’ultima questione da considerare è come i paesaggi agricoli industriali influiscano nella stessa perdita di piogge. Se attualmente sappiamo che i paesaggi con vegetazione naturale favoriscono le piogge permettendo quello che conosciamo come ciclo dell’acqua, allo stesso modo possiamo dire che i moderni paesaggi agricoli, devastati vegetalmente, fanno letteralmente piovere di meno. Adesso la quadratura del cerchio è completa: il settore agricolo devasta le risorse idriche allo stesso modo che domanda sempre più acqua, la stessa risorsa della cui scarsezza è responsabile. Mentre la comunità scientifica stava pronosticando un esaurimento dell’acqua piovana, il settore agroalimentare stava sovra sfruttando le risorse idriche esistenti. Tutto ciò non sembra avesse una grande importanza, fino a che è giunta la siccità. Non una qualsiasi. Bensì questa siccità.
L’allevamento industriale merita una menzione speciale. Il consumo totale di acqua di questa attività è superiore a quello dell’agricoltura. Per capirlo, bisogna comprendere che per produrre un chilo di carne non si deve tenere conto solo dell’acqua che l’animale ha bevuto, ma anche di quella necessaria per produrre il grano che è stato trasformato in mangime per ingrassare l’animale in questione. Negli ultimi decenni, il settore zootecnico non ha fatto altro che crescere, basando la sua crescita essenzialmente sull’aumento delle esportazioni, soprattutto di carne suina. La cosa curiosa è che, ad eccezione della carne di pollame, il consumo interno di carne ha subito un calo che, seppur lieve, è continuo quasi dall’inizio di questo secolo. Quindi, anche se consumiamo un po’ meno carne, la produzione di carne è aumentata. Un altro aspetto per comprendere il problema dell’allevamento moderno è che, nonostante l’aumento delle tonnellate di carne prodotte all’anno, nell’ultimo decennio sono andati persi 170.000 allevamenti. Un maggior numero di animali prodotti in un minor numero di allevamenti equivale a una maggiore concentrazione di capitale nel settore e a un maggior grado di sovraffollamento degli animali: i cosiddetti macro-allevamenti. Questo è il nocciolo del problema. Questo sovraffollamento non solo influisce sullo stress degli animali, ma comporta anche un elevato rischio di inquinamento delle falde acquifere, la stessa acqua su cui facciamo affidamento in tempi di siccità. Così, secondo lo stesso Ministero della Transizione Ecologica, in soli 4 anni (dal 2016 al 2019) l’inquinamento delle acque da nitrati è aumentato del 51% in tutto lo Stato e le cosiddette “macro-fattorie” sono state indicate come le principali responsabili. Ma le acque sotterranee sono state senza dubbio le più colpite, con un aumento della contaminazione del 75%. Questi dati agghiaccianti sono stati confermati da un rapporto della Commissione europea, secondo cui gli allevamenti sono responsabili del 81% dei nitrati che finiscono per inquinare tutti i tipi di sistemi idrici. Come si vede, l’esempio delle macro-aziende è paradigmatico: è il risultato di una concorrenza spietata in un settore in cui i piccoli produttori sono lasciati fuori dal gioco e a loro volta sono la fonte di una maggiore pressione sulle risorse idriche, non solo attraverso il consumo diretto e indiretto, ma soprattutto perché accelerano l’inquinamento dell’acqua, di cui hanno sempre più bisogno per continuare a crescere.
Un altro articolo potrebbe spiegare la responsabilità del settore agroalimentare nelle emissioni di gas serra. Qui mi limiterò ad affermare che questo settore è uno dei principali responsabili della crisi ecologica e dei cambiamenti climatici. Abbiamo ora il quadro completo di chi è responsabile di cosa. In un anno di piogge normali, il settore agricolo compete per l’acqua con le aree naturali e addirittura le distrugge: è quello che è successo alle Tablas de Daimiel e quello che sta accadendo a Doñana e a molte altre zone umide. Ma in un anno di siccità, il settore compete con le città, e allora le cose peggiorano ulteriormente. I governi impongono tagli alla fornitura e vietano alcuni usi ricreativi dell’acqua. Ma allo stesso tempo realizzeranno azioni contro la siccità, che solo in Andalusia costeranno circa 200 milioni di euro. Si tratta di azioni volte a comprimere ulteriormente le risorse idriche interne e marine, nel tentativo di salvaguardare i profitti del settore agroalimentare senza mettere in discussione il modo irrazionale in cui vengono prodotti gli alimenti: trasferimenti d’acqua, impianti di desalinizzazione, trasporto marittimo dell’acqua, nuove prese nei bacini, ecc. Ci sarà anche una voce destinata a nuove trivellazioni delle falde acquifere, la stessa acqua che è stata impoverita e inquinata dal settore agricolo, motivo per cui queste trivellazioni si prevedono come molto difficili.
Il possibile aumento dei prezzi dei prodotti alimentari a causa della siccità metterà tutte le carte in tavola. Lo stiamo già vedendo con l’olio d’oliva. Nella misura in cui le esportazioni sono destinate a mercati con maggiore potere d’acquisto, saranno meno interessate rispetto al consumo interno. I prodotti saranno quindi collocati dove sono più redditizi nel breve termine. Le misure di sostegno alla sussistenza del settore primario saranno pagate con fondi pubblici crescenti, ma nessuno chiederà conto di ciò che viene fatto con il cibo prodotto e dei profitti realizzati dal settore. Un neoliberismo da manuale: socializzare le perdite e privatizzare i profitti. E garantire una forma di produzione suicida.
Il capitalismo ha queste caratteristiche. Quando aumentiamo le esportazioni di prodotti agroalimentari, con essi esportiamo anche acqua, e nel nostro caso acqua da regioni che si stanno desertificando. Ma questa non è l’unica catastrofe prodotta da un sistema i cui mezzi di produzione sono in mani private e le cui logiche produttive sono nelle mani di una divinità chiamata mercato. Per controllare i prezzi nel settore agroalimentare, esiste la pratica di lasciare marcire parte della produzione, controllando così un’offerta elevata che potrebbe far crollare il prezzo del prodotto sul mercato. La Politica Agricola Comunitaria (PAC) prevede addirittura una compensazione per il sacrificio fino al 5% della produzione, al fine di salvaguardare il reddito dell’agricoltore, garantendo un prezzo del prodotto che renda profittevole la campagna. Il problema è che questa pratica non è affatto un’eccezione, ma una regola che fa sì che ogni anno il 14% della produzione mondiale vada sprecato per questi motivi, soprattutto tra i mesi di novembre e marzo. Quando i difensori del mercato parlano di “lotta alla fame nel mondo” per difendere questa o quella innovazione eticamente dubbia nelle pratiche agricole, spesso dimenticano questi fatti. Bisogna capire che quando lasciamo marcire un raccolto, stiamo facendo “morire” anche l’acqua utilizzata per produrlo. I dati descrivono al meglio questo quadro: nel 2019, in Andalusia, e in particolare ad Almeria, l’acqua utilizzata per produrre cibo che è stato infine scartato è stata l’equivalente di 300.000 metri cubi di acque sotterranee. In altre parole, in un solo anno, in una delle regioni più aride della penisola iberica, è stata sprecata acqua equivalente a 120 piscine olimpioniche e, per inciso, sono state emesse più di 7.500 tonnellate di anidride carbonica per lo stesso scopo: nessuno. Non solo esportiamo acqua, ma la buttiamo via aggravando il problema che ci ha condotti a questo punto.
Tuttavia, nessuno dice ciò che va detto: non possiamo continuare a produrre cibo in questo modo. Non possiamo continuare a produrre cibo isolati dai progressi dell’ecologia moderna. Non possiamo continuare a produrre cibo con pratiche che ci fanno perdere suolo e fertilità. Non possiamo continuare a produrre cibo competendo con le aree naturali per l’acqua. Non possiamo continuare a produrre cibo sfruttando eccessivamente e impoverendo le falde acquifere. Non possiamo continuare ad aumentare la superficie irrigata. Non possiamo continuare a inquinare l’acqua. Non possiamo continuare ad aumentare la produzione animale. Non possiamo continuare a diminuire la ricarica delle falde acquifere. Non possiamo continuare a produrre cibo come una merce, che in parte verrà lasciata deperire per mantenere i prezzi di mercato. Non possiamo eliminare le varietà tradizionali coltivate con la pioggia. La produzione di cibo non può essere un ostacolo alla conservazione e alla rigenerazione degli ecosistemi, anche per il loro valore nel favorire le precipitazioni del ciclo breve dell’acqua. L’acqua è un bene scarso e lo sarà ancora di più nei prossimi scenari. Dobbiamo orientarci verso un modello agroalimentare che rispetti l’acqua e gli ecosistemi. Tutto il resto ha i giorni contati. Tutto il resto si chiama capitalismo ed è una locomotiva che si sta dirigendo verso il baratro. Perché i profitti devono essere assicurati. È arrivato il momento di tirare il freno d’emergenza e far deragliare questo treno.
Dobbiamo cambiare rotta. È possibile produrre cibo con pratiche agricole collaudate che riducono le emissioni di gas serra, aumentano la produttività dei terreni, salvaguardano le risorse idriche, aumentano la biodiversità e proteggono gli ecosistemi. È anche tecnicamente possibile abbandonare il produttivismo di altri settori dell’economia e ridurre drasticamente le emissioni di gas serra senza intaccare la qualità della vita e addirittura aumentando il benessere della stragrande maggioranza della popolazione. Per affrontare questa siccità è necessario affrontare il cambiamento climatico che l’ha generata. Non farlo significa dare un calcio al problema di fondo. Possiamo fare più trasferimenti d’acqua, più pozzi, più desolazione, ma se le previsioni dell’IPCC saranno confermate, non ci saranno abbastanza opere pubbliche per trasformare l’intero deserto in un’oasi. E questo senza considerare la contaminazione delle acque dolci e salate e l’attuale esaurimento della maggior parte delle falde acquifere. Uscire da questo problema non è possibile senza un’economia democratizzata al servizio della maggioranza sociale. Con i grandi mezzi di produzione in mano ai privati e impregnati della logica del profitto a breve termine, non è possibile uscire dalla crisi ecologica in cui ci troviamo. Il problema è comune, quindi la soluzione dovrà coinvolgere tutti e non solo l’oligarchia che mantiene i profitti e prende le decisioni economiche di vasta portata che finiscono per colpire la maggioranza. Decisioni che ci hanno portato alla situazione estrema in cui ci troviamo. Oggi più che mai dobbiamo espropriare l’élite economica che governa le nostre vite per prenderne il controllo noi stesse e noi stessi. Dobbiamo progettare un nuovo sistema economico che elimini il plusvalore dal centro dell’equazione e metta al suo posto gli esseri umani e la natura. Non dobbiamo aspettarci che coloro che ci hanno portato fin qui cerchino di tirarci fuori dal posto in cui ci hanno messo, perché la posta in gioco sono i loro privilegi, che difenderanno con le unghie e con i denti. Oggi più che mai ha senso la frase di Rosa Luxemburg “socialismo o barbarie”. E la barbarie del capitalismo è quella di farci credere che sia possibile una crescita infinita vivendo su un pianeta finito.