MUSSOLINI POTEVA ESSERE FERMATO?
Recensione di “Nascita del fascismo: l’Italia dal 1918 al 1922” di A. Tasca
di Blasco (Pietro Tresso)
L’articolo che segue, comparso in francese a firma “Blasco” nel numero 11, dell’agosto 1938, di “Quatrième Internationale”, è una recensione del libro sulla nascita del fascismo di A. Rossi, pseudonimo di Angelo Tasca, già dirigente del Partito comunista d’Italia, in seguito esponente della tendenza della destra “buchariniana” ai vertici del partito, infine espulso e approdato a lidi socialdemocratici. Temi e argomenti di questo saggio sono, a sessantacinque anni di distanza, ancora straordinariamente attuali (si pensi alla tragedia cilena di trent’anni fa, o ai giorni nostri la questione della lotta contro Berlusconi) e la lezione di Tresso ci sembra più che mai stimolante.
A. Rossi, l’autore di questo libro, si propone di spiegare, vale a dire di ricostruire con la massima approssimazione possibile, il dramma sociale che, il 29 ottobre 1922, sfociò nell’avvento del fascismo italiano al potere.
Per giungere a ciò, A. Rossi (Angelo Tasca) comincia il suo studio considerando la situazione italiana nel momento in cui l’ultimatum dell’Austria alla Serbia attraversò come un lampo l’Europa, precipitandola nella spaventosa carneficina imperialista del 1914-18. L’Italia si trovava in piena crisi politica e sociale. Appena uscita dalla guerra di Libia, essa era attraversata da una profonda agitazione, il cui momento culminante fu la “settimana rossa” di Ancona, definita da Rossi come “rivolta anarchica”, ma che, in realtà, fu una grandiosa esplosione del grave malcontento che da anni pervadeva le masse operaie della Penisola, soprattutto a causa della corruzione delle classi dirigenti italiane e della loro impotenza a risolvere i problemi posti dalla storia. La “settimana rossa”, durante la quale il proletariato della provincia di Ancona e della Romagna lasciò più di cento suoi appartenenti sul selciato, fu il segnale indicante che l’Italia era veramente impregnata di Rivoluzione.
Mussolini, allora direttore dell’organo centrale del Partito socialista Italiano, l’“Avanti!”, esalta nei suoi articoli infiammati il movimento, mentre i capi riformisti del partito e della Cgil lo sconfessano e lo denigrano.
Poi viene la guerra mondiale. Mussolini è d’accordo, come tutto il Partito socialista, fermamente neutralista. Egli denuncia i veri scopi imperialisti della guerra, si fa beffe della “farsa sentimentale” montata attorno al “Belgio martire” e invita il proletariato a non cadere nella rete che i compari reazionari e democratici gli tendono, per trascinarlo al massacro per i loro sporchi interessi di classe. Ma improvvisamente, illuminato dai sacchi d’oro che, attraverso Marcel Cachin, gli vengono inviati dall’ambasciata di Francia, cambia bandiera, passa nel campo degli “interventisti”, fonda il “Popolo d’Italia”, costituisce i Fasci d’azione rivoluzionari e si lancia in una campagna sfrenata, che riesce, per mezzo delle manifestazioni di piazza, a trascinare l’Italia nel conflitto.
Proprio in questi Fasci d’azione rivoluzionari si deve situare l’origine del movimento che, con le trasformazioni successive, diventerà il fascismo sotto il cui giogo i lavoratori sono tuttora schiacciati.
La guerra non ha risolto nessuno dei problemi che l’Italia si trovava di fronte già quattro anni prima. Li ha aggravati, aggiungendovene altri, ancor più pesanti e spinosi. Pur facendo parte della coalizione degli Stati vincitori, l’Italia si è trovata, in realtà, nelle condizioni di uno Stato quasi vinto. Nella ripartizione del bottino imperialista, il brigante italiano si è visto in qualche modo spogliato dai suoi compagni di strada, i briganti dell’imperialismo anglo-franco-americano. Al malcontento delle masse lavoratrici, che sapevano di aver fatto la guerra per conto dei loro sfruttatori, e che non avevano visto mantenuta nessuna delle promesse che erano state fatte loro per convincerle a restare al fronte, si aggiunge dunque il malcontento dei “responsabili” della carneficina, i quali pure si accorgono di essere stati lo zimbello del re di Prussia. La tensione politica in Italia diviene enorme. E’ un formidabile vulcano, dal quale la lava sgorga e si insinua in
ogni spaccatura della società italiana.
Tutte le classi sono in ebollizione. Nel corso degli anni 1919-1920, gli operai e i salariati agricoli si lanciano in scioperi quasi a getto continuo, spinti a ciò non solo da una condizione di spirito che vuole “cambiare il mondo”, seguendo l’esempio dei loro fratelli russi che, nel 1917, hanno preso il potere, ma anche dalla necessità di difendere le loro condizioni immediate di vita, che peggiorano continuamente, nel marasma generale e per l’aumento del costo della vita.
Le “vittorie” li trascinano avanti, le sconfitte li temprano. Le tappe di questa agitazione straripante, profonda e spontanea, sono costituite dall’ammutinamento delle truppe inviate in Albania, ammutinamento che indica il livello di dissoluzione dell’esercito italiano e lo spirito rivoluzionario che regna tra le truppe, e dal vasto movimento contro il carovita, movimento che in pochi giorni infiamma l’Italia da Nord a Sud, e nel corso del quale sui prezzi praticati alla vendita vengono imposti ribassi fino al 50%. La potenza di questo movimento è tale che quasi dovunque i commercianti si presentano alle Camere del lavoro e alle sezioni sindacali per affidare loro le chiavi delle botteghe. I soldati fraternizzano con la folla, aiutandola nelle sue azioni contro gli “speculatori” ed offrendole armi. Viene poi il grave sciopero dell’aprile 1920, a Torino, sciopero provocato dal padronato col pretesto di introdurre l’ora legale, ma in realtà per cercare di farla finita coi Consigli di fabbrica, che, soprattutto in quella città, si sono molto sviluppati. Infine, vi sono le occupazioni delle fabbriche nel mese di settembre del 1920, occupazione che non si limita a balli e partite a bocce, come in Francia nel 1936, ma che costituisce un notevole tentativo di mettere effettivamente mano all’apparato della produzione.
Da parte loro, i salariati agricoli marciano senza esitazioni sullo stesso cammino tracciato dai loro fratelli, gli operai delle città. In tutte le province italiane essi riescono a imporre contratti di lavoro, e completano il loro movimento rivendicativo con tentativi ed anche con effettive occupazioni di terre. I ceti medi seguono, soprattutto all’inizio, manifestando simpatia per l’inarrestabile movimento.
Dall’altra parte della barricata, ma con caratteri complessi che avrebbero potuto, in larga misura, essere utilizzati, anche direttamente, dal proletariato, si ha il movimento dei Legionari fiumani, il cui capo è D’Annunzio, e il cui scopo principale è l’occupazione di Fiume, piccola città di frontiera, per annetterla all’Italia. E poi si ha la nascita e lo sviluppo… del fascismo.
E’ impossibile riassumere qui tutte le vicissitudini attraverso le quali il movimento fascista riuscì ad affermarsi fino ad impadronirsi del potere. Il libro di Rossi illustra con notevole abbondanza le diverse fasi di questa fulminante avanzata, ma, a nostro avviso, esso trascura o nega del tutto i veri problemi. Con ogni evidenza, Rossi, attraverso la descrizione, spesso emozionante, dello straripamento fascista e dell’incapacità, del “nullismo” politico dei partiti proletari, mira a giustificare e ad esaltare la politica del “Fronte popolare” che ha trionfato in Francia nel 1936. Dal libro di Rossi si evince nettamente che una politica da Fronte popolare avrebbe preservato l’Italia dal fascismo.
Il dilemma di fronte al quale si trovava e si trova l’Italia – socialismo o fascismo – non solo viene negato da Rossi, ma viene etichettato come “perfido”. Tuttavia, perfido o no, è proprio questo il dilemma che la storia ci pone sotto gli occhi, qui e, come mostra lo sviluppo della lotta, in tutti i paesi del mondo, non solo in Italia. Rossi ha ragione quando afferma che il movimento operaio è stato vinto in Italia non dal fascismo ma dall’inettitudine, dalla dissoluzione interna e dall’inesperienza dei partiti che dovevano condurlo alla vittoria. E’ un fatto che il fascismo si è aperto la strada non mediante la distruzione diretta delle organizzazioni proletarie (e ciò nonostante l’appoggio e la collaborazione attiva ottenuti da parte di tutti i governi “democratici” che si sono succeduti in Italia dalla fine della guerra fino all’ottobre del 1922), ma grazie al ristagno e alla paralisi nella quale, ad un certo momento, si trovò bloccato il movimento operaio. Ma, quand’anche fossero state utilizzate, le ricette indicate da Rossi come suscettibili di evitare la catastrofe ci appaiono come cataplasmi inutili, assolutamente inadeguati a salvare le masse lavoratrici italiane dalla schiavitù fascista.
Per Rossi, il vero problema da risolvere in Italia era quello dell’integrazione di ampie masse popolari, e soprattutto del proletariato, nello Stato. Bisognava creare lo Stato popolare italiano. In concreto, ciò
significa che allo Stato borghese, che correva il rischio di dissolversi sotto gli attacchi congiunti delle varie forze sociali italiane, occorreva fornire una base di massa, per salvarlo e al tempo stesso impedire che quella base gli venisse fornita dalle forze ostili al proletariato.
Ricordiamo prima di tutto che quest’idea non ha nulla di originale, nemmeno in ambito italiano. Possiamo affermare che, dal 1900, essa ha ispirato tutta la politica di Giolitti, il più grande corruttore della vita politica italiana. Essa ha ispirato anche la politica dei riformisti. Questa politica fece fallimento già nel clima relativamente tranquillo di anteguerra, perché l’integrazione delle masse popolari nello Stato (borghese) non poteva significare per esse, soprattutto in Italia, se non la rinuncia passiva ad ogni miglioramento e ad ogni progresso reale. Così pure, essa non poteva significare altro che la morte di ogni coscienza di classe del proletariato italiano, i cui diversi tronconi non sarebbero serviti che da supporto alla politica dei diversi raggruppamenti industriali e agrari della Penisola. Gli “eccidi proletari” che insanguinarono, con frequenza tristemente famosa, la vita politica italiana nei quattordici anni che precedettero la guerra mondiale, hanno dimostrato che questa integrazione (integrazione volontaria e di collaborazione, naturalmente: l’integrazione per mezzo della forza il fascismo l’ha attuata) non era altro che un sogno. Tanto più chimerica essa doveva apparire – e lo era – nella situazione del dopo guerra, quando tutte le masse erano lanciate in avanti verso nuove conquiste politiche e sociali, e quando, per poter continuare ad esistere, le classi sfruttatrici avevano bisogno di ricacciarle indietro. Integrare le masse nello Stato, dopo la guerra, non avrebbe significato – come pensa Rossi – permettere loro di utilizzare i suoi meccanismi per consolidare ed estendere le proprie conquiste, ma avrebbe significato spezzarne le forze e sottometterle spontaneamente (per mezzo delle mitragliatrici socialdemocratiche) allo sfruttamento ancor più forte dei capitalisti e degli agrari.
Ma ciò avrebbe almeno risparmiato all’Italia la dominazione fascista? Rispondere con un sì o con un no a questa domanda sembra una questione un po’ fuori tempo… I fatti hanno risolto il problema a modo loro. Tuttavia bisogna considerare questo: abbiamo già avuto esperienze simili a quelle preconizzate da Rossi; tra le altre, in Austria e in Germania, e più recentemente in Francia e in Spagna. Nei primi due casi, il fascismo ha vinto quasi senza combattere: la resistenza opposta dagli operai viennesi nel 1934 contraddice i mezzi preconizzati da Rossi. L’integrazione delle masse nello Stato, operata in Austria e in Germania mediante la collaborazione della socialdemocrazia al governo, è servita solo, come primo passo, ad arrestare il cammino della rivoluzione, per poi torcerle il collo definitivamente.
In Francia, il passaggio di Blum al governo non ha in nulla modificato l’atteggiamento dello Stato in favore della classe operaia. E’ riuscito solo a farle mandar giù una politica d’insieme che nessun governo non di Fronte popolare, negli attuali rapporti di forza, sarebbe stato capace di imporle. Non appena Blum ha accennato ad un gesto di resistenza – se vogliamo chiamarlo così – è stato messo gentilmente alla porta. In Spagna, una battuta d’arresto contro Franco è stata data dalle masse insorte contro il tentativo fascista e contro… lo Stato “repubblicano”. Esso, non solo con tutte le sue strutture, ma perfino coi membri del suo governo, o passa apertamente a Franco o è pronto alla capitolazione. Nella misura in cui le masse della Spagna “repubblicana” sono state “integrate” nello Stato borghese dopo il luglio 1936, la guerra civile contro il fascismo è stata trasformata sempre più in una guerra tra clan legati agli imperialismi rivali. Gli scopi specifici del proletariato e delle masse nella lotta contro il fascismo vengono messi in disparte ogni giorno di più, e al loro posto vengono adottati fini borghesi-imperialisti, cosicché le masse vedono sempre meno chiaramente perché esse stanno versando il proprio sangue; il che si traduce in un notevole aiuto a Franco. I veri disfattisti della lotta antifascista sono ancora una volta coloro che, al servizio della borghesia nazionale e dell’imperialismo straniero, privano le masse delle ragioni essenziali della loro dedizione e resistenza fino alla morte.
Questi pochi esempi ci autorizzano ad affermare che l’integrazione delle masse italiane nello Stato (ammesso che essa fosse stata possibile) non avrebbe evitato il fascismo; eventualmente, essa gli avrebbe aperto un’altra strada per raggiungere il suo scopo. Bisogna inoltre sottolineare che il fascismo non è stato solo un mezzo per garantire alla borghesia lo sfruttamento “pacifico” delle masse all’interno del paese. Esso è stato soprattutto un mezzo per sviluppare la sua potenza esterna. Sfruttamento “pacifico” all’interno e potenza esterna sono le condizioni necessarie senza le quali ogni borghesia nazionale è
votata alla decadenza e alla morte. Si pone dunque questa questione: o le masse “integrate” si prestano volontariamente, spontaneamente, alla politica di autoschiavizzazione e di saccheggio imperialista, o vengono ben presto de-integrate e schiacciate senza pietà, vale a dire che vengono “integrate” nello Stato alla maniera fascista. Non vi erano altre alternative possibili in Italia per coloro che, come Rossi, si basano sul mantenimento del capitalismo e del suo Stato.
Da questa posizione iniziale deriva anche la posizione di Rossi su tutti gli altri problemi sollevati nel suo libro: procederemo per sommi capi.
Tutta la critica di Rossi alla socialdemocrazia italiana si riduce a questo: essa doveva entrare nel Governo. Per far che? Per impedire che il posto… venisse occupato da altri! Solo che non basta occupare il posto: bisogna anche, tra l’altro, decidere chi paga le spese di guerra. La borghesia? Ma allora non rimane altra risorsa che espropriarla e abbatterla. Ma Rossi sa molto bene che non per questo era stata sollecitata la collaborazione socialista. Del resto, quella sarebbe stata la sola collaborazione alla quale i “socialisti” alla Turati si sarebbero risolutamente rifiutati con tutte le loro forze. Forse il proletariato e le masse lavoratrici? Senza dubbio… ma allora occorrerà domarle, perché esse non possono e non vogliono più vivere nelle condizioni attuali. Il “perfido” dilemma si ripresenta sempre. I “socialisti”, che erano fondamentalmente ostili ad ogni rivoluzione in Italia, hanno certo commesso un crimine rifiutando la collaborazione di governo. Sarebbe stato mille volte meglio che essi avessero svolto apertamente il loro ruolo (e in questo caso, anche indirettamente, la classe operaia poteva ricavarne dei vantaggi), piuttosto che ridursi a pugnalare la rivoluzione tra le quinte. Perché il “nullismo” massimalista e, più tardi, l’inesperienza dei giovani quadri comunisti, non possono in alcun modo “giustificare” o attenuare il tradimento degli altri.
Del resto, esaminandola come fa Rossi, la collaborazione dei socialisti al governo non avrebbe fatto altro che ridurli al ruolo di semplici fantocci nelle mani dei loro “alleati”. Rossi, in effetti, pone la questione in questi termini: sul terreno della forza nel paese, il proletariato e le masse lavoratrici non potevano che essere battute. Bisogna dunque entrare nel governo per utilizzare le forze dello Stato. Ma se questo è vero, allora coloro che entrano nel governo devono farlo accettando le condizioni imposte dall’avversario (l’avversario delle masse lavoratrici). E questi non è così stupido da offrire a colui che si trova alla sua mercè le armi per farsi abbattere; d’altronde, tutti coloro che hanno offerto la “collaborazione” ai socialisti (Nitti, Giolitti ecc.), hanno fatto loro questo semplice discorso: o voi entrate nel governo e ci aiutate a strangolare il movimento operaio, o saremo obbligati a farlo con la Guardia reale e con le bande fasciste. Tutta la strategia di Rossi consiste nell’accettazione di questa collaborazione.
Per questa ragione egli nutre solo disprezzo per quei poveri socialisti bolognesi che, di fronte alle minacce fasciste, apertamente ed ostensibilmente sostenute dal governo che offriva ai socialisti di collaborare, decidono di difendersi da soli. Occorreva, secondo lui, chiedere allo Stato di difendere le sue stesse istituzioni. E poi? Se lo Stato ritiene che per difendere le sue istituzioni è necessario cacciarne i socialisti eletti dalle masse? Se, per arrivare a ciò, esso arma i fascisti, li inquadra come ufficiali dell’esercito e li spinge all’attacco protetti dalle forze di polizia? I profeti disarmati sono votati alla disfatta, ma colui che si mette sotto la protezione delle armi dell’avversario che vuole abbatterlo non ha maggiori chance di sfuggire ad essa. Rossi giustamente critica Matteotti, quando questi invita i contadini del Polesine a non resistere con le armi ai fascisti, ma lo critica perché, secondo lui, la non-resistenza alla base doveva avere come complemento un’azione ancor più energica a Roma. Ma quale azione energica potevano attuare a Roma coloro che vi arrivavano dalla provincia in qualità di postulanti, con la coda e le orecchie lacerate dai morsi dei lupi fascisti che Roma proteggeva con le armi? Non è forse evidente che essi potevano solo essere oggetto della cortesia ironica dei portieri dei ministeri? Non è evidente che per pesare a Roma bisognava essere in condizioni di distruggere i nidi fascisti che la capitale organizzava in provincia? E in tal caso, dove andare a cercare la “collaborazione”?
Nel suo libro Rossi dibatte anche il problema dei soviet, dei Comuni e delle camere del lavoro. Invece di inseguire fantomatici soviet, estranei all’esperienza italiana, occorreva, secondo Rossi, appoggiarsi alle camere del lavoro e ai Comuni: questi due organismi avrebbero potuto sostituire efficacemente i soviet.
Sostituirli per far che? Per entrare in un’alleanza ministeriale col cappio al collo? Certamente: per far ciò i soviet sono inutili. Ma l’esperienza italiana ha dimostrato anch’essa che il soviet non è affatto un organismo specificamente russo. Nelle fabbriche, durante gli scioperi, durante le manifestazioni contro il carovita, in mille altre occasioni, gli operai e le masse hanno dato vita spontaneamente ad organismi che li riunivano e li dirigevano, al di fuori ed oltre i limiti delle camere del lavoro (senza parlare dei Comuni, istituzioni dello Stato borghese).
Il fatto che i dirigenti del Partito socialista italiano (i Bombacci, i Gennari ed altri stolidi di questa specie), invece di appoggiarsi sull’esperienza delle masse, volessero creare dei “soviet” così come li vedevano nel loro povero cervello, non toglie nulla al fatto che questi organismi venivano scoperti spontaneamente dalle masse, almeno nella loro forma embrionale, ogni volta che esse ne avevano bisogno. Ciò spiaceva molto ai mandarini riformisti e ai loro avvocati, ma era un fatto.
Nonostante le idee del suo autore, noi raccomandiamo particolarmente ai giovani la lettura del libro di Rossi. Essi vi potranno apprendere molte cose. Prima di tutto, l’incapacità, la carenza, il tradimento dei dirigenti dei partiti proletari italiani di fronte al fascismo insegneranno loro – speriamo – a trovare altre strade per vincere questo terribile nemico. Vedranno poi mediante quali mezzi il fascismo italiano, guidato da Mussolini, è giunto al potere. Vedranno prima di tutto che il fascismo si è presentato sin dal primo momento come un’organizzazione di combattimento, un’organizzazione armata. Ha saputo sfruttare a fondo i mezzi legali e quelli illegali per raggiungere il suo scopo. Ha ampiamente utilizzato le forze dello Stato per proteggere la sua azione, ma in ogni momento si è preoccupato di avere una forza armata propria, dipendente solo da se stesso. E non solo una forza armata, ma anche una polizia, e mezzi di comunicazione e di collegamento: insomma, tutto ciò che devono avere un’organizzazione e un partito che vogliano effettivamente prendere il potere. Dal libro di Rossi derivano lezioni di strategia e di tattica politica della massima importanza per i giovani, i quali, rompendo col socialismo alla Blum, si riuniscono sotto la bandiera della Quarta Internazionale per vincere ove altri hanno perso, fallito e tradito.
[Pubblicato per la prima volta in “Quatrième Internationale”, n. 11, agosto 1938. Traduzione di Giuliano Corà.]