Povera vita mia
Povera vita mia è una canzone dei 99 posse, vecchia di vent’anni. Vent’anni fa il gruppo musicale incise questo brano denunciando le morti sul lavoro, nella fattispecie le assunzioni interinali, le poche tutele sui luoghi di lavoro e la collusione dei vari partiti borghesi con il padronato.
Luana D’Orazio va a rinfoltire le fila degli Eroi senza funerali di Stato, eroi che ahimè non avrebbero mai voluto esserlo. Eppure ne contiamo tre al giorno da almeno vent’anni, o da chissà quanti decenni.
Sentiamo dire troppe stupidaggini, soprattutto in tempo di Covid. Qualcuno dice addirittura che lavoratori salariati sarebbero i più tutelati perché, mentre ristoratori, albergatori, artigiani e padroni muoiono di fame, loro vengono pagati con la cassa integrazione; cassa integrazione che peraltro viene finanziata dai lavoratori stessi, in una sorta di unità di classe che dovrebbe essere la leva per cambiare lo stato delle cose.
Il caso terribile di Luana e il clamore che ha suscitato smaschera tutta l’ipocrisia di una società borghese che si fonda sul profitto e sull’oppressione di una classe sull’altra, sullo sfruttamento fino alla morte.
Questa ennesima vittima arriva sulle prime pagine dei giornali perché “era una bella ragazza” ed era una “mamma”. Per qualche tempo riescono a comparire tra le notizie anche la morte di un ragazzo di 37 anni a Parma, Andrea Recchia, di un altro a Busto Arsizio, Christian Martinelli. Si alza il solito breve polverone, già posatosi, tra una polemica su Biancaneve e quella sull’influencer di turno.
Alla borghesia benpensante fa impressione vedere una donna, trucidata sui campi di battaglia del lavoro, come gli uomini, come gli immigrati.
Tuttavia, per riprendere le parole di “Canto per Ustica” di Paolini, a noi italiani l’indignazione dura meno dell’orgasmo. E dopo viene sonno. E il sonno sui morti sul lavoro è più profondo che mai.
Nella giungla di contratti precari, a termine, lavoro a chiamata, ritmi massacranti, cooperative come scatole cinesi che comprimono, un passaggio dopo l’altro, i diritti e la sicurezza di lavoratori e lavoratrici, non sono le bestie feroci a sbranare 3 persone al giorno, ma un’unica grande bestia famelica: il padronato.
E sì, lo cantavano i 99 Posse già vent’anni fa:
Perché il lavoro interinale non è altro che
Una prestazione occasionale di lavoro manuale
Non qualificato, esattamente il caso in cui
Il rischio d’incidente sul lavoro è quintuplicato
E tutto questo non è capitato
Ma è stato pensato, progettato e realizzato
Dal padronato in combutta con l’apparato decisionale dello stato
Per il quale la vita di un proletario non vale non dico niente
Ma sicuramente non vale il costo di un’assunzione regolare
Con tanto di corso di formazione professionale
è evidente il disegno criminale o no?
O sono io che sono pazzo?
Il problema non è confinato al lavoro interinale o al precariato imbarbarito, ma riguarda tutte quelle forme di assunzione che non vanno a tutelare i lavoratori, rese possibili da quella mano “sinistra” che ha ideato Jobs Act e abolizione dell’articolo 18.
I morti sono e saranno sempre i nostri. Il mandante sempre il Capitale e i suoi servi. Finché la classe lavoratrice non metterà da parte le divisioni artificiose che il capitale ha introdotto tra lavoratore e lavoratore, tra fisso e stagionale, tra interinale e indeterminato, tra italiano e straniero, tra singoli e singoli e non colpirà unita il padronato, l’unico nemico che continua inesorabilmente a ucciderla un lavoratore o un lavoratrice alla volta. Anzi. Tre al giorno. Per quanto ancora?