Plus-lavoro ed ecologia
di Stefano Falai
Nella società mercantile il valore di un uomo è, come tutte le altre cose, il suo prezzo; cioè quel tanto che gli viene dato per l’uso della sua forza, fisica e intellettuale. Se partiamo da questo principio, possiamo determinare il valore di scambio del lavoro, esattamente come possiamo determinare il prezzo di ogni altra merce.
Che cosa è dunque il valore della forza lavoro? Risulta evidente che, come per ogni altra merce, il suo valore è determinato dalla quantità di lavoro necessario per la sua produzione. La forza lavoro, in altri termini, consiste nella personalità vivente del lavoratore. Affinché egli possa conservarsi in vita deve consumare una certa quantità di generi alimentari, inoltre, come ogni altra macchina si logora e deve essere sostituito; ha quindi bisogno di una quantità di oggetti d’uso corrente per allevare i figli che lo sostituiranno sul mercato del lavoro. Inoltre, deve essere spesa una nuova somma di valori per istruirlo al lavoro, come serve al padrone che acquisterà la sua forza lavoro.
Da questo risulta che il valore della forza lavoro è determinato dal valore degli oggetti di uso corrente che sono necessari per produrla, svilupparla, conservarla e perpetuarla. Supponiamo che la quantità media giornaliera di oggetti necessari per la vita di un operaio richieda sei ore di lavoro medio: vorrà dire, se il salario è di cinque euro all’ora, che trenta euro sarebbero il prezzo (l’espressione monetaria) del valore giornaliero della forza lavoro di questo operaio. In sostanza lavorando sei ore al giorno egli produrrebbe un valore sufficiente per acquistare tutto ciò che gli serve quotidianamente per conservare la sua vita da operaio, secondo i consumi medi della classe operaia.
Quindi, se questo operaio lavorasse sei ore al giorno aggiungerebbe al prodotto un valore di trenta euro al giorno; cioè, il valore che gli serve per vivere. In questo caso però il capitalista non realizzerebbe nessun plusvalore, nessun profitto dalla sua forza lavoro.
Ma il nostro uomo è un operaio salariato, che vende la sua forza lavoro a un capitalista. Il capitalista ha già acquistato la forza lavoro dell’operaio e quindi ha il diritto di disporre, consumare e usare questa forza a suo piacimento, come ogni compratore ha il diritto di consumare ogni altro genere di merce. Per cui, il capitalista ha il diritto di fare lavorare il nostro operaio oltre le sei ore al giorno.
Riepilogando, il valore della forza lavoro corrisponde al lavoro socialmente necessario per la sua riproduzione; vale a dire nel caso del nostro operaio sei ore al giorno; ma egli potrebbe lavorare di più. In sostanza, il valore giornaliero della forza lavoro è una cosa completamente diversa dall’esercizio giornaliero di essa. Per esempio, un cavallo ha bisogno, diciamo, di un tot di foraggio al giorno, ma questa quantità non dipende, oltre certi limiti fisiologici, da quanto il cavallo può portare il cavaliere ogni giorno. In altri termini, l’operaio può lavorare più tempo di quanto gli serva per vivere: il nostro operaio per rinnovare giornalmente la sua forza lavoro (la sua energia vitale) deve produrre un valore di trenta euro al giorno, lavorando sei ore, ma ciò non lo rende incapace di lavorare dieci o dodici ore al giorno.
Però, il capitalista, pagando il valore giornaliero della forza lavoro, ha acquistato il diritto di usare come vuole la forza lavoro. Supponiamo che egli pretenda un orario di lavoro di dodici ore al giorno; allora il nostro operaio, oltre le sei ore che gli sono necessarie per produrre l’equivalente del suo salario, cioè del valore della sua forza lavoro, dovrà lavorare altre sei ore. Queste sei ore in più sono la quantità di esercizio della forza lavoro che Marx chiama sopra-lavoro o plus-lavoro e questo plus-lavoro diventerà plusvalore (profitto per il capitalista) e sovraprodotto.
In altri termini, un operaio riceve sempre il corrispondente in valore per la sua riproduzione sociale, secondo gli standard di vita storicamente determinati. Tutto il valore delle ore in più che ha lavorato genereranno il profitto del padrone e un aumento proporzionale delle quantità di prodotto. Il capitalista anticipando trenta euro al giorno, che sono il valore giornaliero della forza lavoro, otterrà invece un valore di dodici ore al giorno. Se il processo si ripete quotidianamente, il capitalista, anticipando ogni giorno trenta euro, ne intascherà sessanta, di cui la metà sarà nuovamente impiegato per pagare i salari e l’altra metà formerà il plusvalore, (il capitale monetario) per il quale il capitalista non paga nessun equivalente.
Questa è la forma di scambio fra capitale e lavoro.
Fino ad oggi, salvo eccezioni, la critica marxista al capitale si è concentrata soprattutto sul plus-valore, come materializzazione in denaro (equivalente generale del valore) del plus-lavoro, considerando secondario il fatto che il plus lavoro genera contemporaneamente al plus- valore un surplus di prodotto. In sostanza, il capitale più si accumula sotto forma di denaro più deve sviluppare la produzione delle merci. Non è un caso che lo stesso Marx, in una delle prime pagine del Capitale, scrisse che:” La ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, si presenta come una immane raccolta di merci e la singola merce si presenta come sua forma elementare.” Questa sottovalutazione è dovuta, probabilmente, al fatto che la consapevolezza della fragilità della natura rispetto alla potenza tecnologica così sviluppata sia relativamente recente, tuttavia questo non vuol dire che fosse inevitabile.
Infatti, nonostante che Marx ed Engels riconoscessero alla borghesia, come agente del capitale, l’unico merito di aver sviluppato in maniera crescente la redditività del lavoro, nelle loro opere troviamo una costante e attualissima critica all’ideologia borghese del progresso, dello sviluppo economico fine a sé stesso, dell’esaltazione positivistica della scienza e della tecnica. Il concetto di sviluppo delle forze produttive non ha una connotazione meramente quantitativa, ma semmai principalmente qualitativa: l’uomo è ad un tempo la principale forza produttiva e il fine dello sviluppo. Non il valore di scambio, ma i valori d’uso, il tempo disponibile per le attività creative, le facoltà degli individui e la ricchezza delle loro relazioni sociali liberate dallo sfruttamento e dall’alienazione: questa è la vera ricchezza, il fine del comunismo, in quanto superiore stadio della civiltà umana.
Allora, se ci concentriamo sull’accumulazione dal punto di vista ecologico, il capitale si presenta come un sistema sociale che per riprodursi non può fare a meno di distruggere una quantità maggiore di energia, sotto forma di calore e di scorie, di quella necessaria per la riproduzione della vita umana sulla Terra. E anche con l’applicazione a livello globale di tecnologie a basso impatto ambientale, comunque problematica al netto delle risorse disponibili e delle intenzioni delle classi dirigenti, la distruzione dell’attuale ecosistema, anche se magari a ritmi ridotti rispetto al passato, continuerà come prima.
Infine, se la critica marxista al fenomeno della riproduzione del capitale si oppone al ciclo M-D-M con il ciclo D-M-D1, laddove M corrisponde alla somma dei pluslavori ( L1+L2+L3….); la critica ecomarxista si può esprimere nel modo seguente: S-TEC-S1, laddove S sta per entropia (come dissipazione energetica) e TEC corrisponde alla somma delle tecnologie impiegate nel processo produttivo (TEC1+TEC2+TEC3 ….).