La violenza maschile è violenza, è violenza del patriarcato, violenza del Capitale, violenza di Stato, fenomeno strutturale e non “occasionale”

di Chiara Pannullo

La mattina di mercoledì 28 febbraio Luigi Capasso, un appuntato dei carabinieri in servizio a Velletri, ha sparato con l’arma di ordinanza alla moglie, Antonietta, da cui si stava separando, ferendola gravemente, ha ucciso le sue due figlie nella casa in cui vivevano con la madre a Cisterna di Latina e poi si è suicidato. Ciò è accaduto – perché la donna in questione si è salvata ma quell’uomo si è comunque portato via la vita delle due giovanissime figlie – è l’ennesimo caso di “femminicidio” che in scarne e dolorose parole, significa che si è consumato l’ennesimo assassinio da parte di un uomo, in questo caso nella proiezione di ciò che è più profondamente intimo di una donna, la prole, e che ciò succeda nel momento in cui la stessa , decide di voler fare altro della propria vita in un progetto individuale e non più di coppia.

Già nella parola femminicidio, vi è dunque la narrazione dell’accaduto e la motivazione. Non è più possibile infatti considerare tali eventi come delitti passionali, non vi è alcuna passione, nulla che riporti ad un bene, nell’assassinio a sangue freddo (e in questo caso, come in altri ma reso ancora più evidente della preterintenzionalità delle lettere lasciate in casa da Capasso, con precise disposizioni! ) o nella più recente formula giornalistica che le definisce, “tragedie”. Una tragedia è una calamità naturale, non una dinamica che ha un preciso andamento legato al ciclo della violenza, dove i segnali sono coerenti negli eventi che si susseguono e che finiscono spesso nella morte della donna e anche dei propri figli. Un uomo in questo caso, si è armato e ha sparato, dopo aver pianificato tutto nei minimi dettagli: un uomo ha scelto di impugnare un’arma, di stalkerare, di togliere la vita, la casualità del destino non c’entra nulla . Così come l’ “esasperazione” che la volontà femminile dell’allontanamento creerebbe nell’uomo, nessun alibi emotivo può essere concesso ad un assassino. La colpa non è di chi decide di chiudere una relazione ma di chi stabilisce la soluzione per sé e per l’altro e quindi per la propria ex compagna, recidendo il filo dell’esistenza.

Dunque, non si tratta né di “follia”, né “raptus”. Il femminicidio è costruito giorno per giorno in un climax di violenze e abusi che in questo caso, come in molti altri narrati dalla cronaca, erano stati resi noti anche alle forze dell’ordine ma il cui epilogo vede la morte per mano di un uomo della donna che si sosteneva di amare. Il femminicidio è la conclusione di una fantasia che diventa lucido progetto di distruzione. Se è reato togliere la vita, è altrettanto colpevole non impedire che questo accada. La violenza di genere, è la violenza che include anche stereotipi, vecchi codici patriarcali che sopravvivono nelle esistenze di tutti e soprattutto di tutte le donne, in quanto ideologica, è anche veicolata dal linguaggio che la banalizza e spesso giornalisticamente, banalizza tali orrori, rendendo compartecipe la vittima della scelta del carnefice, donne che invece decidono di prendere in mano la propria esistenza e che come in questo caso, anche dalle forze dell’ordine, non vengono prese sul serio perché la paura non viene considerata una spia importante, restituendo loro la convinzione che denunciare non serva a salvarsi.

E’ necessario invece rivitalizzare con lo stanziamento di fondi, i centri antiviolenza, avviare progetti di formazione scolastica che combattano gli stereotipi di genere che ancora costruiscono il maschile possessivo ed esigono il femminile remissivo. I ragazzi, fin da giovani, devono comprendere che i rapporti possono finire e che non per questo si contrae l’orizzonte della propria esistenza e delle proprie possibilità, che la perdita va vissuta con responsabilità e con il rispetto dell’altro e della scelta dell’altro. E’ pertanto fondamentale rendersi conto che la violenza maschile contro le donne è sistemica, non vi è ambito delle nostre vite in cui questa non si esprima. È implicita nell’edificazione e nella costruzione del reale e soprattutto nella considerazione sociale del maschile e del femminile, la violenza di genere è dunque più diffusa, capillare e pervasiva di quanto non si pensi e non può essere superata nell’ottica dell’emergenza, o considerata una questione geograficamente o culturalmente determinata. L’oppressione, si rende sostanziale e si fa forte delle differenze sociali, di origine, di classe, di identità di genere e sessuale. Questa si combatte nei luoghi della formazione, dunque nella scuola e nelle università. Necessaria è dunque una conoscenza anche per gli educatori di tali conflitti, dunque vanno rivisti i manuali e il materiale didattico adottato, affinché la scuola non contribuisca a diffondere una visione stereotipata e sessista dei generi e dei rapporti di potere tra essi. Va dunque abolita la Legge 107/15 e smantellata la riforma Gelmini, con la riappropriazione dal basso, di scrittura delle riforme di scuola e università che consenta anche una rimodulazione dei contenuti e dei programmi. La violenza di genere, richiede di una formazione continua che sia permanente e multidisciplinare, capace di avere il polso del fenomeno in tutte le sue sfaccettature e di agire e intervenire sui vari livelli nel sostegno alle donne. E’ importante pertanto la formazione delle operatrici curata dei Centri Antiviolenza, affiancate da figure professionali coinvolte nel percorso di fuoriuscita dalla violenza delle donne (insegnanti, avvocati e avvocate, magistrati e magistrate, educatori ed educatrici ecc.). Indispensabile un diverso approccio e la formazione per chi lavori nei media e nelle industrie culturali, perché si diffonda un diverso tipo di vulgata che riguardi il femminino e promuova una cultura nuova. Anche e soprattutto il mondo del lavoro non può ritenersi escluso da una seria alfabetizzazione al rispetto di genere, in molestie, violenza e discriminazione di genere. La donna ha il diritto di poter decidere del proprio corpo e la propria parola su questo, è la sola autorevole. La salute intesa come benessere psichico, fisico, sessuale e sociale va intesa come l’inalienabile espressione della libertà di autodeterminazione. L’obiezione di coscienza va abolita dal momento che nel servizio sanitario nazionale, non consente alle donne il diritto pieno all’autodeterminazione delle stesse, che hanno e devono avere la possibilità di abortire se ne fanno richiesta. Così come la garanzia della libertà di scelta , durante la gestazione, della cultura della fisiologia della gravidanza, del parto, del puerperio e dell’allattamento e che la costrizione ostetrica sia considerata una delle forme di violenza contro le donne che si ripercuote sulla salute riproduttiva e sessuale. Nei casi di violenza, vanno ridotti i tempi della giustizia, anche mettendo in previsione l’utilizzo di corsie preferenziali che a tutt’oggi non esistono, per i procedimenti civili e quasi mai utilizzate nei procedimenti penali. Spesso la denuncia, mette seriamente in pericolo la donna che subisce violenza per sé e la propria famiglia, soprattutto nella decisione della separazione, va dunque in sede penale contrastata ogni forma di obbligatorietà di tale strumento piuttosto va data l’immediata procedibilità d’ufficio dei reati e vanno stabiliti dei parametri corrispondenti alla reale offerta che sia di risarcimento del danno ma che non sviliscano la gravità del reato subito e corrispondano alla donna, dignità e centralità. Vi è in tale direzione una direttiva europea che applica il risarcimento del danno alle vittime di violenza, mettendo a carico dello Stato, l’anticipazione di tutte le somme disposte dall’autorità giudiziaria che vada a favore di queste sia in sede civile che in sede penale, disincagliandosi dalla burocratizzazione delle attuali procedure di accesso ai fondi già costituiti. Va estesa la tutela del permesso di soggiorno per le donne che subiscono una qualunque forma di aggressione (art. 18 bis TUIMM), non ponendo limiti verso le donne prive di documenti sul territorio. Vanno necessariamente introdotte modifiche legislative in materia di affidamento condiviso (artt. 337 quater c.c. e ss.) che va assolutamente escluso quando vi è un conflitto intrafamiliare e vanno applicati provvedimenti ablativi e/o limitativi della responsabilità genitoriale paterna. Nei casi di violenza, va mantenuto il divieto di mediazione familiare e di soluzioni alternative nelle controversie giudiziarie andrebbero anche vietati da parte dei consulenti tecnici d’Ufficio e dei Servizi Sociali, di procedere a valutazioni psicologiche e psicodiagnostiche sulle donne vittime di violenza e sulla loro capacità genitoriale, se un uomo è abusante e pericoloso per sé, la donna e la propria famiglia, non può essere valida l’equiparazione dell’uomo maltrattante alla donna maltrattata; Nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza, la questione dell’abitazione, assume una valenza importante, primaria e le risposte non possono, né devono essere episodiche e/o emergenziali. L’ospitalità nelle case protette, va protratta, dagli attuali 3-6 mesi a 12 mesi . Le donne che escono da situazioni di pericolo, vanno agevolate nelle spese di affitto e agevolate di un fondo di garanzia che consenta loro di stipulare un contratto facilitato, avvalersi in questo modo dei Centri Antiviolenza e delle Associazioni che li gestiscono come garanti. Nelle graduatorie per le case popolari, vanno dunque assegnati alle donne che stanno liberandosi dalla violenza, punteggi alti, che possano agevolarle e una parte del patrimonio pubblico va utilizzato proprio in direzione delle donne che cercano mettersi in salvo. Le compagne e i compagni del PCL, sono ben consapevoli che il percorso è lungo e disseminato di ostacoli, le soluzioni proposte sono solo alcune in supporto alle donne, altre cercano di evidenziare quanto l’ideologia delle classi dominanti che del vecchio patriarcato ne utilizza le forme più becere, vivificandosi nelle politiche di sfruttamento e rapina si sia reso di “massa”, nel linguaggio, nella violenza verbale, psicologica, nelle odiose e sottili prevaricazioni ritenute normali, quotidiane, nella dialettica dei rapporti e della comunicazione, nella femminilizzazione del lavoro, considerata ‘prassi’ di una “vocazione” di pertinenza alla donna e strettamente connaturata al genere. Siamo contro ogni forma di oppressione patriarcale e capitalista del corpo della donna e intendiamo creare relazioni con collettivi, realtà femministe ed essere punto di riferimento per tutte le donne che abbiano e sentano il bisogno di un appoggio, dato che il fenomeno della violenza maschile, è una violenza di Stato, violenza di un sistema, fenomeno strutturale e non ‘occasionale’.

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