di falaghiste
Riproponiamo dal lontano 2013.
La crisi economica più devastante dal dopoguerra appare e viene generalmente percepita a livello di massa come una crisi dalle origini astratte non precisamente identificabili con gli strumenti della ragione. La crisi di un sistema che presumibilmente si fonda, sull’oggettività dei calcoli economici , è vista come una crisi morale del sistema politico-istituzionale e non della struttura economica che queste istituzioni rappresentano.
La tesi delle classi dirigenti dei partiti borghesi , degli economisti e dei propagatori dell’ideologia liberale al servizio del capitale, descrive questa crisi come una crisi finanziaria, che riguarda il denaro la cui carenza o uso improprio( speculazione) avrebbe bloccato il meccanismo della produzione.
Questa è la versione colta, liberale,apparentemente logica, sull’origine delle crisi .
Ma così facendo si avvalora, ( fra le masse colpite materialmente dalla crisi) la versione populista sull’origine della crisi: cioè che sia colpa dei corrotti, degli incapaci, dei ladri che si appropriano delle risorse economiche che altrimenti, se usate con discernimento, ( dagli onesti, dai capaci, dai meritevoli) potrebbero risolvere o quantomeno moderare il degrado economico progressivo.
La soluzione sarebbe quindi sostituire l’attuale classe dirigente parassita ( identificata nei partiti, nell’ amministrazione pubblica, nei sindacati ecc,…. mai fra gli imprenditori ) con un’altra dotata di senso dello stato, della collettività, dell’interesse comune fondato sulle affinità etniche e culturali della nazione, sul ritorno a legami di solidarietà e gerarchie sociali del tutto estranee alla modernità.
Nessuna delle due versioni mette in discussione il capitalismo in quanto tale, entrambe sono il prodotto del crollo dell’economia di mercato ma la versione populista (il grillismo) è il sottoprodotto arcaico della crisi; della versione borghese sulle origini della crisi e della sua incapacità a risolverla all’interno dell’attuale sistema .
Del resto il programma economico del grillismo non diverge affatto dalla politica economica dei governi passati. A tal proposito è significativa una dichiarazione dell’ambasciatore americano, riguardo ad una sua conversazione con Casaleggio. (La Stampa del 14/03)
In sintesi : il movimento di Grillo è un fenomeno nuovo e interessante per il rinnovamento del sistema politico italiano. A parte alcuni elementi fantasiosi, Casaleggio parla come un vero imprenditore proponendo alcuni punti programmatici condivisibili : Abbattimento dei costi della burocrazia e snellimento dell’apparato dello Stato, diminuzione delle tasse, defiscalizzazione degli utili d’impresa, abolizione dei vincoli nel mercato del lavoro.
Niente di nuovo !
I sintomi della crisi:
Se le leggi naturali si esprimessero direttamente nei fenomeni che producono, la ricerca scientifica sarebbe pressoché inutile, nella realtà sintomi uguali possono corrispondere a malattie diverse e ogni sintomo, di per se, non indica sempre una precisa malattia. Scambiare il sintomo per la malattia è l’errore del medico somaro o di quello interessato a propinare sempre la stessa medicina.
Leggendo le pagine dedicate da Karl Marx alle crisi economiche del suo tempo, la prima impressione è quella di una sorprendente familiarità. Leggiamo osservazioni che si riferiscono a crisi di 150 anni fa, e sembra che si parli di oggi:
“Se la speculazione si presenta verso la fine di un determinato ciclo commerciale come immediato precursore del crollo, non bisognerebbe dimenticare che la speculazione stessa è stata creata nelle fasi precedenti del ciclo e quindi rappresenta essa stessa un risultato e un fenomeno, e non la ragione ultima e la sostanza del processo”
Marx individua qui, nella ricerca moralistica del colpevole della crisi (lo speculatore), l’altra faccia della medaglia della fede ingenua nell’evitabilità delle crisi :
“Tale fede riposa sulla convinzione che la crisi sia qualcosa di estraneo al normale funzionamento dell’economia capitalistica. Secondo questa illusione ideologica, la crisi viene sempre da fuori, è una patologia esterna al sistema. Quindi è dovuta ad errori o colpe specifiche di qualcuno.”
Ma a questo riguardo Marx ha gioco facile nell’osservare che:“proprio il ripetuto insorgere delle crisi smentisce l’idea che le loro ragioni ultime debbano essere ricercate nella mancanza di scrupoli di singoli individui” .
L’idea che sia nella scarsità di profitto, ( della ricchezza come moltiplicatore del benessere ) l’origine della crisi non è certo un’idea nuova, anzi è sempre stata alla base del pensiero economico classico borghese.
Secondo questo presupposto all’aumento del profitto d’impresa corrisponde la crescita allargata della produzione e degli scambi delle merci.
*Il denaro viene posto al centro dell’intero processo di produzione e crescita degli scambi merce-denaro. Il capitalista ( il coraggioso capitano d’impresa ) cerca di realizzare, con la vendita, il valore dei suoi prodotti trasformandoli in denaro (M-D) e, attraverso il denaro, egli può di nuovo appropriarsi di merci aventi una forma materiale (mezzi di produzione e forza lavoro )a lui utile al fine di iniziare un nuovo ciclo di produzione: M-D-M ( merce -denaro- merce).
In effetti Le cose si presentano realmente in questi termini, ma l’analisi dei fenomeni da questa angolatura non riesce a svelare i rapporti cruciali. Non ci spiega sufficientemente, per esempio, qual è il movente che induce a ripetere questo ciclo in forma capitalistica e su scala allargata, ovvero cosa spinge ad allargare continuamente la produzione delle merci come dinamica indispensabile al funzionamento del sistema ( crescita del PIL come valore in denaro deibeni e servizi prodotti )
*Se modifichiamo invece il punto di partenza del processo di scambio, partendo dal denaro (D – M), le cose si chiariscono.
*Non si tratta di un puro espediente analitico: porre il denaro all’inizio e alla fine del processo quale forma generale della ricchezza, corrisponde alla percezione corretta della produzione capitalistica, la quale è produzione di ricchezza astratta (denaro) fine a sé stessa e non di valori d’uso, cioè delle merci utili e necessarie per la qualità della vita.
In parole povere il capitalismo è una macchina per far soldi e non per produrre ciò che serve, ma solo ciò che può essere venduto con profitto.
Se facciamo astrazione dal contenuto materiale della circolazione delle merci, dallo scambio dei valori d’uso, e consideriamo soltanto le forme economiche generate da questo processo, troviamo che il suo ultimo prodotto è il denaro. Quest’ultimo prodotto della circolazione delle merci è la prima forma fenomenica del capitale.
Infatti ,se il ciclo diviene D – M – D (con il denaro, punto di partenza e di arrivo) il processo di scambio ha senso solo se l’ultimo termine è superiore quantitativamente al primo, in quanto qualitativamente si tratta della stessa merce. Il ciclo M – D – M si capovolge nel ciclo D – M – D’ (ove D’ è maggiore di D) e il denaro immesso nel ciclo diviene valore che si conserva e si accresce, diviene cioè capitale. A questo punto il capitale, deve nuovamente trasformarsi in mezzi di produzione e forza lavoro per produrre merci e, alla fine del ciclo di produzione, in nuovo capitale con un valore superiore al capitale investito.
E’ necessario concettualizzare che il ciclo D-M-D’ si compone di due fasi: la fase di produzione D-M dove si creano valori d’uso ( cioè merci finte, pronte per essere usate) e la fase M-D’ dove si crea, attraverso la vendita, il valore di scambio sotto forma di denaro come equivalente generale della ricchezza prodotta: il capitale.
Inoltre, il ciclo D-M-D’ indica che l’origine del profitto, (del valore aggiunto che il capitalista realizza con la vendita ) si trova nella merce e quindi nel lavoro che è servito per produrla. Così l’origine materiale del capitale si precisa attraverso il ciclo: D – L1+L2+L3…. -D’ , dove la somma del lavoro dei singoli lavoratori salariati, alla fine del ciclo ha prodotto un plus valore, cioè un valore di scambio superiore a quello speso dal capitalista per acquistare la forza lavoro.Consegue che il capitalista ha sottopagato la forza lavoro appropriandosi di una parte del valore prodotto; ovvero i lavoratori hanno lavorato di più di quanto fosse necessario per produrla.
Tale processo coincide con il processo di valorizzazione del capitale.
Rapporto fra pluslavoro e plusvalore
Per Marx , quest’ultimo risultato (il plusvalore) è possibile perché il lavoro necessario alla reintegrazione del valore della forza-lavoro assorbe solo una frazione dell’intera giornata lavorativa. Così, ad esempio, mentre la giornata lavorativa è di otto ore, nell’equivalente pagato per l’uso giornaliero della forza lavoro, nel salario, sono oggettivate solo cinque ore. Il lavoro svolto nelle rimanenti tre ore (pluslavoro) determina il di cui si appropria il capitale e rappresenta l’entità della sua valorizzazione.
In termini formali, se L è la quantità di lavoro impiegata per una determinata produzione e V il lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro, il plusvalore Pv sarà dato dalla differenza: Pv = L-V
*Il plusvalore è l’unica fonte del profitto, la cui realizzazione ed accumulazione costituiscono il fine essenziale del capitale. Pertanto ogni capitalista pratica metodi per accrescere il plusvalore. Tali metodi sono classificati da Marx nel modo seguente:
Plusvalore assoluto. Si tratta di tutti i metodi che cercano di espandere, a parità di altre condizioni, il lavoro assoggettato al capitale. Tra questi il più classico è il prolungamento della giornata lavorativa, che consente di ampliare le ore di pluslavoroquando siano date e costanti le ore di lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro . Anche l’estensione dei soggetti sottomessi a un maggiore sfruttamento (si pensi ad esempio al lavoro nero o precario) possono rientrare in questa classificazione.
Plusvalore relativo. Sono questi i metodi che consentono di ridurre le ore di lavoro necessario o, che è lo stesso, del capitale variabile ( forza lavoro). Infatti, ponendo costante la durata della giornata lavorativa, al diminuire delle ore di lavoro necessario il pluslavoro aumenta. Poiché il salario non può scendere al di sotto del livello di sussistenza, il modo tipico di ridurre il tempo di lavoro necessario è l’aumento della produttività del lavoro: se occorrono meno ore di lavoro per produrre i beni di consumo dei lavoratori, si riduce il lavoro necessario anche senza diminuire i consumi dei lavoratori, cioè i salari reali. Le ragioni della crisi: sovraccumulazione del capitale, sovrapproduzione di merci e caduta tendenziale del saggio di profitto
*Bisogna prima di tutto ricordare le conseguenze contraddittorie di un aumento della produttività sulla produzione di valore d’uso e sulla produzione di valori. Il progresso della tecnica, sostituendo mezzi di produzione alla forza lavoro, aumenta la produttività del lavoro vivo e la sua potenza materiale di produzione di valore d’uso, ma limita simultaneamente la sua potenza sociale di creazione di nuovo valore in quanto riduce il suo peso relativo nella produzione di valore – una parte crescente di questa produzione di valore è valore trasmesso sotto forma di lavoro passato, incorporato nei mezzi di produzione. La diminuzione del peso relativo della fonte del plusvalore (il lavoro vivo) si traduce quindi per il capitale in una difficoltà crescente di valorizzarsi.
*Sottolineiamo quindi fin dall’inizio questo fenomeno particolare della produzione capitalista, per cui un aumento della produttività materiale, che permette una crescita della produzione di valori d’uso, prende la specifica forma sociale di una produzione ristretta di plusvalore. E questo nonostante un aumento del tasso di plusvalore, sia con un aumento del plusvalore in rapporto al capitale variabile (del pluslavoro in rapporto al lavoro necessario) sia, al contrario, con una riduzione della parte del capitale variabile nel valore nuovo creato dalla forza lavoro: una riduzione della parte dei salari nel “valore aggiunto”.
Questo aumento della parte del plusvalore nel nuovo valore creato non significa per niente che sia “in eccesso”,. Il fatto che aumenti a un ritmo decrescente nella misura in cui la produttività aumenta, mostra invece la difficoltà crescente del capitale di valorizzarsi, in altri termini la mancanza di plusvalore.
*Insomma, per valorizzarsi il capitale deve trasformarsi in mezzi di produzione e accrescere la produttività del lavoro, ma la sua valorizzazione, che è determinata dal rapporto tra lavoro necessario e pluslavoro, è sempre più difficile proprio nella misura in cui si sviluppa, così come scrive Marx:
Quanto più il capitale è quindi già sviluppato, quanto più lavoro eccedente esso ha creato, tanto più deve aumentare in misura formidabile la forza produttiva per valorizzarsi, ossia per aggiungere plusvalore, solo in misura modesta […] Quanto più è già ridotta la frazione riguardante il lavoro necessario, quanto maggiore è il lavoro eccedente, tanto meno un qualsiasi aumento della forza produttiva può diminuire sensibilmente il lavoro necessario […] L’autovalorizzazione del capitale diviene più difficile nella misura in cui esso è già valorizzato
[Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (“Grundrisse”), Torino, Einaudi, 1976, pag. 296].
*Questa realtà della produzione capitalista che è rivelata qui al livello d’astrazione del Libro I del Capitale, quello del “capitale in generale” che fa fronte al “lavoro in generale”, si manifesta al livello d’astrazione del Libro III, quello dei capitali particolari e della concorrenza, sotto la forma di una tendenza alla diminuzione del saggio di profitto. Un saggio di profitto sufficiente perché la produzione avvenga è il punto di partenza di un’accumulazione il cui risultato è una tendenza alla diminuzione del saggio di profitto. Questa a sua volta provoca un’accelerazione dell’accumulazione il cui obiettivo è di ristabilire le condizioni di una produzione profittevole, ma che comporta una nuova tendenza alla diminuzione del saggio di profitto. Se la diminuzione non si realizza in quanto tale nella realtà in modo permanente, appare invece continuamente sotto forma di una tendenza ad accumulare. Diminuzione del saggio di profitto e accelerazione dell’accumulazione, scrive Marx:
“non sono che espressioni diverse del medesimo processo, nella misura in cui esprimono entrambe lo sviluppo della forza produttiva del lavoro”
[Marx,Il Capitale, libro terzo, Torino, Utet, 1987, pag. 309].
*Ciò mette in luce il fatto singolare che il saggio di profitto tende ad abbassarsi non perché il lavoro diventa meno produttivo, ma perché diventa più produttivo.
La tendenza alla diminuzione del saggio di profitto è come dice Marx:
“non è perciò che un’espressione, propria del modo di produzione capitalistica, dell’incessante sviluppo della produttività sociale del lavoro” [Marx, Il Capitale, libro terzo, cit., pag. 273].
La difficoltà crescente di valorizzazione del capitale si esprime alla fine in una effettiva caduta del saggio di profitto, in un rallentamento o un arresto dell’accumulazione, e si ha “la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, l’eccesso di capitale accanto all’eccesso di popolazione” [Marx, Il Capitale, libro terzo, cit., pag. 310].
Le politiche economiche praticate con progressiva intensità negli ultimi venti anni, sia dai governi di centro destra che di centrosinistra, come dai governi tecnici,( in tutto il mondo occidentale ma in Italia in modo particolarmente elevato) sono state tutte finalizzate all’aumento del profitto ( plusvalore-capitale.fittizzio) agendo sia sul fronte del plusvalore assoluto che di quello relativo,riducendo i salari ( diretti, indiretti, differiti) sia riducendo le tasse alle imprese, sia aumentando lo sfruttamento del lavoro ( precarizzazione ) sia trasferendo alle imprese finanziamenti diretti. Considerando che le imprese hanno poi reinvestito progressivamente in nuovi mezzi di produzione si è ottenuto un’immenso aumento della produttività accelerando e aggravando l’insufficenza di plusvalore .
L’insufficienza di plusvalore, causa ultima della crisi localizzata nella produzione, si manifesta sul mercato in modo rovesciato, sotto forma di una sovrabbondanza di merci (invendibili). La tendenza del capitale a valorizzarsi senza limiti “si identifica… con la creazione di ostacoli alla sfera dello scambio… [alla] realizzazione del valore creato nel processo di produzione” [Marx, Grundrisse, cit., pag. 391].
Aldilà di un certo punto, l’esplodere della crisi realizza una “svalutazione generale o distruzione di capitale”, provoca una diminuzione della produzione, finché non si arrivi a “ristabilire la giusta proporzione tra lavoro necessario e lavoro eccedente, su cui in ultima istanza tutto si fonda” [Marx, Grundrisse, cit., pag. 421-422 ]
Il carattere transitorio del capitalismo
Quello che mutua è l’idea, già rintracciabile in Adam Smith e fatta propria da David Ricardo, che il lavoro sia la fonte della ricchezza e che il valore sia determinato dalla quantità di lavoro contenuto nelle merci (lavoro incorporato). Marx tuttavia si distacca dai classici perché rifiuta una rappresentazione del modo di produzione capitalistico come qualcosa di a-storico, naturale ed eterno, sostenendo invece l’idea secondo cui la società capitalistica non è che una tappa dello sviluppo storico dell’umanità. Respinge inoltre la definizione del capitale come insieme dei mezzi di produzione, ma lo considera come un qualcosa di storicamente determinato, avente un carattere sociale specifico e non dato in natura una volta per tutte. Il capitalismo è dunque per Marx un modo di produzione transitorio, caratterizzato dalla separazione dei mezzi di produzione dai lavoratori e dalla massima diffusione della produzione mercantile.
In tale ottica il valore non è più una proprietà “naturale”, ma risulta connesso alle determinazioni specifiche, storiche di tale modo di produzione. Un sistema che ha avuto il merito (il solo) di moltiplicare la produttività del lavoro umano affrancando l’umanità dai capricci della natura ma nel quale:
periodicamente si producono troppi mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza, per farli funzionare come mezzi di sfruttamento dei lavoratori a un saggio di profitto dato. Si producono troppe merci per poter realizzare, nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo dati dalla produzione capitalistica, il valore in esse contenuto e il plusvalore ivi racchiuso, e riconvertirli in nuovo capitale, cioè per poter compiere questo processo senza esplosioni perennemente ricorrenti. [Marx, Il Capitale, libro terzo, cit., pp. 329-330].
Conclusioni
Nelle condizioni attuali l’umanità non ha più la necessità di sviluppare indefinitivamente la produttività del lavoro ma usarla per scambiare merci senza l’obbligo che ogni scambio presupponga un profitto per pochi e un progressivo sfruttamento per tutti gli altri. E’ necessario che la scienza così sviluppata, anziché occuparsi di ampliare la forza produttiva sociale attraverso la crescita della potenza dei mezzi di produzione ( sottraendo così all’ambiente naturale un surplus crescente di energia) si occupi di un’accurata programmazione della produzione dei prodotti del lavoro umano. E’ indispensabile che il lavoro , nella sua dimensione temporale, rappresenti il valore degli oggetti prodotti e che i prodotti vengano scambiati alla pari senza presupporre un profitto in denaro ma un profitto in termini di progresso sociale. In quando al denaro, come equivalente del valore sociale delle merci prodotte e non già della ricchezza prodotta, dovrà essere un semplice strumento per favorire gli scambi e finanziare la nuova richiesta sociale di prodotti sempre migliori, sempre di più compatibili con i tempi e i cicli di riproduzione naturale. Il controllo diretto dei lavoratori sui destini del loro lavoro, sarà la garanzia di una forma più avanzata di democrazia ed un salto in avanti dell’evoluzione umana. L’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la loro socializzazione non è quindi una necessità che vale solo per le classi subalterne, gli sfruttati, i poveri, ma universale.
O socialismo o barbarie !
NOTA: i periodi segnati con asterisco (*)sono tratti da un articolo di Luis Gill su Carrè rouge n.40