La disfatta del renzismo
Il renzismo ha consumato una autentica disfatta.
La combinazione dell’altissima partecipazione al voto (70%) con la valanga del No (quasi il 60%) offre un’indicazione inequivoca. Il plebiscito della maggioranza silenziosa che Renzi aveva invocato per sé si è capovolto contro di lui e il suo governo. La tendenziale omogeneità della vittoria del No sull’intero territorio nazionale (con la parziale eccezione toscana) rafforza l’imponenza del pronunciamento.
Il populismo di governo e il suo progetto bonapartista conoscono una sconfitta senza ritorno. Il tentativo di sfondamento nell’elettorato di centrodestra nel nome della stabilità politica contro il salto nel buio; il tentativo di incursione nell’elettorato grillino e leghista nel nome del taglio delle poltrone e dei politici contro la casta; la pioggia parallela di mancette elettorali e richiami clientelari nella legge di stabilità; l’occupazione, infine, a reti unificate dei canali della comunicazione pubblica, hanno tutti mancato nel loro insieme il proprio obiettivo. Non è colpa dello spartito in sé, ma del suo interprete. Il renzismo arrivava alla prova decisiva del referendum istituzionale in uno stato di profonda crisi di consenso, registrata da tutti i pronunciamenti elettorali dei due ultimi anni. Una crisi apertasi a partire dallo scontro sociale su Jobs Act e Buona scuola, e poi approfonditasi nella fase successiva. La disfatta referendaria ha confermato e pesantemente aggravato questa crisi.
La disfatta del renzismo e del suo progetto bonapartista è un fatto straordinariamente positivo. Tanto quanto una sua vittoria sarebbe stata catastrofica per i lavoratori. Ma ciò non significa che il pronunciamento di massa del No abbia una valenza politica uniforme. I blocchi sociali interclassisti del populismo di opposizione hanno sostanzialmente tenuto nei propri riferimenti politici, sommandosi contro il governo. Ha tenuto massicciamente il blocco sociale della Lega , come emerge dal voto veneto. Ha tenuto il grosso dell’elettorato di Forza Italia attorno al richiamo di un pur indebolito Berlusconi. Ha tenuto il grosso dell’elettorato grillino, come emerge dal voto nel Sud, a Roma, a Torino. Su questo versante il No ha avuto il marchio di una “pancia di destra”. Ma parallelamente si è espresso contro Renzi un settore di classe lavoratrice legato alla tradizione della sinistra politica e sindacale, nelle sue diverse articolazioni e organizzazioni (CGIL, FIOM, sindacati di base…), e attorno ad esso il grosso di un popolo della sinistra segnato da una cultura democratica e costituzionale con i suoi riferimenti portanti (ANPI): un settore di classe e un popolo compositi che hanno affollato in tante parti d’Italia le iniziative dei comitati del No, con livelli di partecipazione e coinvolgimento spesso sorprendenti. Questo è il versante progressivo del pronunciamento anti-Renzi. Il versante che può e deve assumersi ora la responsabilità di una propria risposta e di una propria soluzione alla crisi politica e istituzionale che la disfatta di Renzi ha aperto.
La disfatta del renzismo segna la sconfitta della Seconda Repubblica. La Riforma costituzionale Renzi-Boschi non era solo il progetto bonapartista dell’uomo solo al comando. Era anche, perciò stesso, l’atteso completamento del lungo processo di riforma istituzionale che dai primi anni Novanta ha investito gli assetti politici e istituzionali della Repubblica, a partire dai comuni e dalle Regioni. Un processo di progressiva costituzionalizzazione di governi di minoranza, grazie al combinato di leggi maggioritarie e potenziamento degli esecutivi. Un processo funzionale allo sviluppo dell’aggressione sociale ai lavoratori e alla lavoratrici, allo smantellamento progressivo dei loro diritti e conquiste, a vantaggio dei profitti padronali e nel quadro dei vincoli UE. Riforma Boschi e Italicum dovevano completare e chiudere la transizione alla Seconda Repubblica, col plauso di tutto il grande capitale, interno e internazionale. Proprio per questo la disfatta di Renzi non è solo la sconfitta di un aspirante Bonaparte. È anche la sconfitta di un lungo corso politico istituzionale.
Per questa stessa ragione il movimento operaio deve porsi all’altezza della crisi che ora si è aperta e indicare la propria soluzione. Autonoma, di classe, totalmente alternativa e contrapposta a quelle prospettate dagli altri soggetti del campo del No.
La crisi politica e istituzionale che si è aperta vede in campo, da protagonisti, diversi avversari della classe lavoratrice. La presidenza della Repubblica cercherà di incardinare una soluzione di governo che regga la pressione del capitale finanziario, tamponi la crisi delle banche, conduca in porto una legge di stabilità che regala altri 20 miliardi a imprese e banche, gestisca il negoziato nella UE, istruisca in un parlamento assai più instabile una nuova legge elettorale che garantisca “governabilità” (antioperaia). Non sarà facile. Intanto, sul fronte del No ogni soggetto dispiega il suo gioco. Ma sempre contro i lavoratori. La Lega di Salvini punta alla rapida scalata del centrodestra con un messaggio trumpista e lepenista, fondato su caccia ai migranti e nazionalismo antieuropeo. Berlusconi punta a recuperare uno spazio negoziale col PD indebolito su legge elettorali, riforma istituzionale, ulteriore detassazione delle imprese. Il M5S invoca elezioni subito, in compagnia della Lega, per provare a capitalizzare a proprio vantaggio la spinta del No, conquistare il potere, e affermare il proprio disegno di Repubblica plebiscitaria via web, che contrappone reddito di cittadinanza alla ripartizione del lavoro, punta all’abolizione dell’Irap, solletica gli umori xenofobi e nazionalisti.
Il movimento operaio non ha nulla a che spartire con questi disegni, tutti mirati contro i suoi interessi sociali. Tutti interessati a costruire sulle rovine del renzismo diverse soluzioni reazionarie.
Al contrario. Di fronte alla bancarotta della Seconda Repubblica, si tratta di battersi per una soluzione operaia della crisi. Una soluzione che volti finalmente pagina. Che chiami in causa le classi dirigenti del Paese, tutti i loro poteri e tutti i loro partiti. Che rivendichi la cancellazione delle leggi antioperaie di trent’anni, a partire dal Jobs Act e Buona scuola. Che ponga al centro dello scontro le ragioni di classe del lavoro, contro ogni loro subordinazione al capitale. Che rivendichi il diritto alla piena rappresentanza proporzionale di queste ragioni, contro ogni loro subordinazione alla governabilità del sistema. È la prospettiva di una repubblica dei lavoratori, basata sulla loro forza e la loro organizzazione. L’unica che possa abolire il debito pubblico verso le banche e nazionalizzarle, espropriare i capitalisti che licenziano ed inquinano, ripartire tra tutti il lavoro attraverso una riduzione generale e progressiva dell’orario di lavoro a parità di paga, cancellare le leggi di precarizzazione del lavoro, sviluppare un grande piano di nuovo lavoro, a partire dal riassetto idrogeologico del territorio e la messa in sicurezza antisismica dell’intero patrimonio edilizio pubblico e privato. Nessuna di queste misure è rinunciabile. Nessuna di esse può essere realizzata dagli avversari dei lavoratori, dentro il quadro capitalistico, dentro la UE. Solo una rottura anticapitalista, solo un governo dei lavoratori può realizzarle.
Proponiamo il più ampio fronte unico di lotta del movimento operaio e delle sue organizzazioni attorno a questo programma indipendente, e a questa autonoma prospettiva politica. E dentro questa prospettiva diciamo con chiarezza che vanno archiviati e respinti gli accordi sindacali a perdere siglati dalla burocrazia sindacale alla vigilia del referendum istituzionale, nel settore privato (metalmeccanici) come nel settore pubblico (pubblico impiego) come nei servizi (igiene ambientale). Regali al padronato per scalare la segreteria CGIL (Landini), regali al governo per compiacere l’unità con la CISL renziana. Regali da revocare, subito, a partire dal No delle assemblee dei lavoratori. Il No a Renzi diventi il No di classe del mondo del lavoro a decenni di sacrifici e umiliazioni. Ora basta. È l’ora di costruire una riscossa. È ora di ripartire da una piattaforma di lotta unificante, da una vertenza generale che l’accompagni, da una mobilitazione prolungata che l’imponga.
Il PCL si batte e si batterà come sempre in ogni lotta per aprire questa pagina nuova.