Elezioni USA: i risultati
di Giacomo Turci
È ufficiale: Donald Trump, candidato del Partito Repubblicano, è il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America; si insedierà il 20 gennaio 2017.
Trump è riuscito nell’impresa di vincere in tutti gli stati in bilico, gli “swing States”, assicurandosi la maggioranza assoluta dei Grandi Elettori: negli USA, sono questi 540 rappresentanti dei singoli Stati, eletti dai cittadini in base a una proporzione demografica, che ufficialmente voteranno il presidente degli USA tra i vari candidati; Trump ne ha conquistati 279 con quasi il 100% delle urne scrutinate, garantendosi l’elezione.
Nonostante rimanga bassa se comparata a quella degli altri grandi Stati imperialisti, l’affluenza alle urne non è stata bassa per gli standard USA: su circa 220 milioni di cittadini maggiorenni, circa 208 milioni erano legittimati a votare (“eligible”, che non includono carcerati e altri privati del voto) e di questi 194 milioni si erano registrati per votare (procedura assente in Italia) anche se i votanti effettivi sono stati “solo” 124 milioni.
Sia il Partito Repubblicano, sia il Partito Democratico, la cui candidata a presidente era Hillary Clinton, hanno raccolto quasi il 48% dei voti (circa 59 milioni di voti), mentre Gary Johnson del Partito Libertariano (liberale di destra) ha il 3% (4 milioni di voti), Jill Stein del partito dei Vedi l’1% (1,2 milioni di voti), gli altri candidati lo 0,7% (0,8 milioni di voti).
L’inaspettata vittoria di Trump ha sfruttato l’incapacità della Clinton di attirare massicciamente il voto dei giovani, della classe operaia e delle minoranze, prerogativa che aveva segnato tutte le vittorie dei Democratici statunitensi.
Alle elezioni presidenziali si sono accompagnate le elezioni per tutta una serie locale: al voto anche per Camera e Senato (con una piena vittoria dei repubblicani), 44 parlamenti nazionali su 50, e per la carica di sindaco di alcune grandi città come Milwaukee, Baltimora e San Diego.
Si sono tenuti anche alcuni referendum: lo Stato del Nebraska ha votato la reintroduzione della pena di morte ribaltando la recente sentenza della Corte Suprema; la California e il Massachusetts hanno legalizzato l’uso ricreativo della marijuana.
L’effetto elezioni si è sentito anche nel campo della finanza: Wall Street ha subìto un duro colpo, con i future sullo S&P 500 che hanno da subìto perso il 5%. In forte calo anche il Nasdaq, che ha ceduto il 5%. La borsa di Londra ha perso invece il 5% sui mercati a termine, mentre quella di Hong Kong è scesa del 2,82% e l’indice giapponese Nikkei ha perso quasi il 6%. Il tutto mentre è sospinta la crescita già in corso del bene-rifugio oro, aumentato del 4,4% a 1.337 dollari l’oncia.
All’estero, Trump ha incassato subito le congratulazioni dell’Ungheria reazionaria di Orban, di Putin e della Duma russa che l’ha applaudito, e di Israele, dove un membro del governo ha parlato di “fine dell’era di uno Stato palestinese” grazie agli ottimi rapporti tra Trump e i sionisti più incalliti. A questi si aggiungono i partiti della destra borghese di svariati paesi, con il Front National di Marine Le Pen in testa.
Fanno da contraltare gli esponenti della fazione più o meno “progressista” variamente social-liberale e democristiana e “cosmopolita”: da Napolitano al governo francese del Partito Socialista di Hollande; dal governo tedesco a quello della Cortea del Sud (che addirittura ha convocato un Consiglio di Sicurezza nazionale per l’occasione), non si nasconde la sorpresa e lo sdegno per la vittoria di Trump. Mentre il bischero Renzi non perde l’occasione per declamare un (per ora del tutto ipotetico) rilancio politico del suo governo nella UE legato a una forte collaborazione con gli USA.
Se l’elezione di Trump mette in discussione l’attuale relazione tra potenze imperialiste e tra fazioni della borghesia negli USA e nel mondo, a poche ore dal voto non appaiono ancora segnali di rottura. Anche se il Grande Gioco per la supremazia militare ed economica sul globo si fa ora più intricato e la natura del triangolo USA-Russia-Cina più confusa, così come l’esito delle attuali missioni militari all’estero degli USA, data la politica isolazionista sul piano militare promessa da Trump.
La classe lavoratrice statunitense conferma lo il suo stato ideologico, politico e organizzativo assolutamente arretrato, seppure in crescita rispetto a qualche anno fa: i candidati delle forze operaie e operaie-borghesi (riformiste) non arrivano messi insieme all’1%, sonoramente battuti persino dall’anacronistico partito dei verdi. La stragrande maggioranza della classe è divisa fra l’astensionismo collegato all’individualismo apolitico, l’illusione che Trump faccia gli interessi anche degli sfruttati, e la speranza altrettanto illusoria che i democratici e la Clinton, essendo “di sinistra”, potessero instaurare un governo saggio e illuminato che proteggesse tutti i “deboli” della società – quando è proprio la riscoperta della propria forza la grande necessità del proletariato americano. Proprio per questo, non si dovrebbe perdere altro tempo col partito democratico e col liberale di sinistra “socialista” Bernie Sanders.
La classe operaia americana ha bisogno di un proprio partito politico che tragga la sua forza dai movimenti nati dal basso tra sfruttati e oppressi (come quello per la paga orario di 15 dollari, Black Lives Matter etc.) e dalle sue strutture economiche, in primis i sindacati effettivamente impegnati nella lotta economica quotidiana.
La soluzione alla crisi mondiale e alla stagione reazionaria negli USA rimane sempre una sola: classe, partito, direzione. Solo una risposta organizzata e di massa, anticapitalista, di classe, rivoluzionaria del proletariato americano, solo un suo governo che superi l’attuale Stato borghese imperialista, solo la guida politica di un partito rivoluzionario negli USA e nel mondo porterà gli sfruttati statunitensi e di tutto il globo fuori dalla barbarie che sempre più ci attanaglia.