Elezioni negli USA: le lezioni di una vittoria reazionaria
Il ritardo della rivoluzione socialista genera mostri
Donald Trump Presidente degli Stati Uniti non è certo un fatto ordinario della vicenda politica internazionale. Alla testa della più grande potenza imperialista del pianeta si afferma non un tradizionale esponente del Partito Repubblicano, dentro la normale alternanza bipolare della democrazia borghese americana, ma un outsider radicalmente reazionario estraneo alla storia del suo stesso partito, e combattuto dall’intero establishment. È un fatto inedito nella storia americana. Nei prossimi giorni approfondiremo l’analisi delle possibili conseguenze di questo fatto sul terreno delle relazioni internazionali, dove la postura isolazionista e protezionista di Donald Trump annuncia forti elementi di discontinuità e ricadute potenzialmente profonde. Ma da subito è necessario e possibile leggere l’eccezionalità del fatto accaduto in rapporto al contesto sociale e politico USA.
Quanto è accaduto trova la sua radice più profonda nell’esperienza della grande crisi capitalistica che ha attraversato e scosso la società americana. La grande crisi iniziata nel 2007 ha disgregato i vecchi blocchi sociali, ha impoverito larghi settori di classe operaia già colpiti dal lungo ciclo di ristrutturazioni e delocalizzazioni, ha declassato ampie fasce di classe media, ha colpito le condizioni sociali delle masse rurali americane. La modesta ripresa capitalista USA, seppur prolungata, non solo non ha sanato le ferite sociali della crisi, ma ha ampliato tutte le disuguaglianze sociali a vantaggio unicamente del capitale finanziario e di Wall Street. Da qui la crisi profonda dell’egemonia di Wall Street sul senso comune popolare, ed anzi la rabbia diffusa di un vasto blocco sociale interclassista contro la classe dirigente americana in tutte le tutte le sue espressioni tradizionali. Donald Trump ha dato a questo sentimento popolare una radicale traduzione reazionaria, volgendolo contro tutti i bersagli fittizi su cui scaricare la frustrazione popolare (messicani, donne, europei, minoranze, banche e fisco) in un classico esercizio della peggiore demagogia. E vi è riuscito proprio in quanto outsider, da “solo contro tutti”. La composizione sociale del voto per Trump, con lo sfondamento ottenuto nelle roccaforti della vecchia cintura industriale americana come nell’America profonda delle campagne misura il successo della polarizzazione reazionaria. La campagna sciovinista per “fare grande l’America” ha avuto lo stesso successo della Brexit, e in fondo ha raccolto lo stesso blocco sociale. C’è da augurarsi che chi a sinistra ha brindato alla Brexit non brindi oggi per la vittoria di Trump.
La candidata del Partito Democratico Hillary Clinton ha costituito il bersaglio perfetto per Trump. Una candidata espressione diretta dell’establishment e della continuità del potere, coinvolta personalmente negli scandali di Wall Street, lautamente remunerata dal capitale finanziario, apertamente invisa ad ampi settori dell’elettorato democratico ed in particolare al suo bastione giovanile, ha rappresentato il miglior alleato della campagna reazionaria. La capitolazione di Sanders a Clinton a conclusione delle primarie democratiche nel nome dell’unità contro la destra ha clamorosamente mancato l’obiettivo dichiarato. La subordinazione alla candidata del capitale finanziario non solo non ha sbarrato la strada di Trump ma l’ha lastricata (con buona pace dei commentatori del quotidiano Il Manifesto che tanto avevano applaudito tale scelta). Milioni di lavoratori e di giovani colpiti dalla crisi che non hanno trovato un’alternativa a sinistra, o hanno ripiegato nel non voto o hanno cercato una soluzione a destra.
La vittoria di Trump è infine anche un bilancio del doppio mandato di Barack Obama. La misura del fallimento impietoso di tutte le illusioni riformiste e progressiste che tanta parte della sinistra internazionale aveva seminato attorno alla sua esperienza. Gli otto anni di amministrazione Obama sono serviti a salvare le banche con le risorse pubbliche, e i capitalisti dell’auto col taglio dei salari e dei diritti. Parallelamente, milioni di proletari americani si trovano a pagare polizze sempre più care per l’assistenza medica lasciata nelle mani delle assicurazioni private. Milioni di studenti restano impiccati a un debito a vita per pagare le rette dei propri studi. Milioni di giovani lavoratori alternano la disoccupazione con lavori miserabili, ricattabili, sottopagati. Milioni di giovani neri vivono sulla propria pelle il peggioramento della propria condizione e le vessazioni odiose, spesso omicide, della polizia. L’unico progresso che Obama ha assicurato è quello dei profitti di Wall Street e dei voti di Trump. Il mito del capitalismo democratico ha subito, da ogni versante, l’ennesima smentita.
Ora si prepara in America un nuovo terreno di confronto e di scontro col Presidente più reazionario della storia americana. Nonostante tutto, non mancano le risorse sociali di una opposizione al trumpismo. Negli ultimi anni la ripresa delle lotte salariali nell’industria dell’auto, il movimento per l’aumento del salario minimo, le mobilitazioni giovanili di Occupy Wall Street, il movimento della popolazione nera misurano un potenziale importante. I 13 milioni di lavoratori e di giovani che avevano votato Sanders alle primarie contro Clinton, attratti da un richiamo, per quanto formale, al socialismo, sono anche espressione di nuove dinamiche sociali.
Ma proprio l’esperienza della capitolazione di Sanders a Clinton e della disfatta di Clinton a vantaggio di Trump ripropone in tutta la sua attualità storica la necessità di un partito di classe indipendente contrapposto ai Clinton e ai Trump, al Partito Democratico come al Partito Repubblicano. È l’unica via, tanto più oggi, per dare rappresentanza e prospettiva alla classe operaia e a tutti gli oppressi della società USA, alle loro esigenze e alle loro lotte.
La vittoria di Trump ripropone infatti una considerazione di fondo, che va al di là della vicenda americana. Dentro la svolta d’epoca segnata dalla grande crisi del capitalismo e del riformismo, non c’è spazio storico duraturo per le vecchie forme della politica borghese. Il bivio di prospettiva storica che interroga il mondo è quello tra rivoluzione o reazione. Il ritardo della rivoluzione socialista genera mostri. Trump non è il primo, non sarà l’ultimo. La costruzione di un partito rivoluzionario internazionale che lavori ad elevare la coscienza della classe lavoratrice all’altezza di un alternativa globale di sistema trova nella vicenda USA una ulteriore e clamorosa conferma.