“Indiani” d’America: un mito che non rende loro giustizia.
In Italia prima della diffusione del movimento hippie, sull’onda dell’enorme successo del festival di Woodstock, sul mondo dei nativi nordamericani se ne sapeva poco o niente.
La vecchia Hollywood li dipingeva in maniera impersonale (a volte grotteschi a volte puramente selvaggi) come se fossero un elemento primordiale di un immenso territorio da conquistare, per il bene del popolo e per il progresso, al pari dei monti, dei deserti o degli animali.
La conquista del West doveva apparire come l’epopea di uomini semplici che, combattendo contro una natura ostile, sviluppavano capacità e doti morali fuori dal comune, tanto da costruire il mito fondante dell’America come terra di riscatto e libertà.
Prima della seconda guerra mondiale, la cinematografia americana aveva prodotto anche lavori decisamente migliori sotto il profilo dell’obiettività.
Per esempio il bellissimo ”Passaggio a nord ovest”, forse uno dei primi del genere ”grande avventura”. Si riferiva ad un periodo precedente la conquista del West, ma comunque aveva il pregio di non ignorare i fatti storici.
Significativo l’anno in cui uscì nelle sale americane, il 1940, cioè un anno prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti.
Bellissimo anche, per quanto riguarda la letteratura popolare (che allora era il solo “media” capace di diffondere miti), il romanzo ”L’ultimo dei Mohicani” (The last of the Mohicans) scritto da James Fenimore Cooper (1789-1851) e pubblicato nel 1826.
Fu il romanzo più letto dei suoi tempi e ebbe notevole diffusione anche in Europa dove affiancò, fino alla fine degli anni Sessanta del Novecento, nelle librerie assai scarne delle classi popolari, quelli di Jules Verne, Emilio Salgari e di Alexandre Dumas.
Da ”L’ultimo dei Mohicani” furono tratti diversi film; il più bello, a mio parere, è l’omonimo del 1992 con la regia di Michael Mann.
Ma i “western” che travolsero l’Italia nel dopoguerra furono quelli di genere classico. Precursore e modello ispiratore dei molti successivi (fino alla fine degli anni 60), fu
”Ombre Rosse” di John Ford del 1939.
Il western del dopoguerra non si accontentava più delle sue radici, ma cercava di aggiungere interessi supplementari, di ordine estetico, sociologico, psicologico, morale, politico. Era uno strumento di egemonia culturale che andava oltre l’idea di intrattenimento e diventava un mezzo per diffondere nel mondo “la morale americana”.
Il successo fu travolgente: chi non ha vissuto quei tempi può difficilmente comprenderne l’impatto sull’immaginario delle classi popolari del nostro paese. Il cinema era diventato, in assenza ancora di una diffusione capillare della TV, il “media” più influente a livello globale.
Comunque gli “indiani” continuavano ad essere rappresentati o come selvaggi, assassini (nel genere classico) o come spietati nemici dell’America (come ne “L’ultimo dei Mohicani,” dove alcune tribù combattono al fianco dei francesi).
Prima degli anni Settanta a nessuno sarebbe venuto in mente di prendere ad esempio positivo i nativi del nord America.
Negli anni Settanta tutto cambia… per non cambiare niente.
A seguito del clima sociale di contestazione instauratosi dopo il 1968, si iniziò a mettere in discussione alcuni dei temi tradizionali del genere: dalla proposizione dei nativi americani come selvaggi al dualismo buono-cattivo, all’uso della violenza come metro per misurare la forza di carattere o per affermare di essere nel giusto.
Esempi di “western revisionisti” sono rappresentati da Soldato blu, Corvo rosso non avrai il mio scalpo, Un uomo chiamato cavallo, Piccolo grande uomo ecc.
I nativi americani cominciano ad essere visti come vittime di un vero e proprio genocidio operato dai bianchi durante i decenni della conquista delle terre nordamericane dell’ovest.
Gli stessi eroi della storia americana, lungamente mitizzati in precedenza, vengono ora rivisti in modo critico, come nel film “Buffalo Bill e gli indiani”, se non addirittura sbeffeggiati come, ad esempio, il generale Custer in ”Piccolo grande uomo”.
E anche stavolta funziona, l’industria cinematografica e culturale americana riesce a rovesciare, con un cinismo e una naturalezza sconcertanti, il paradigma precedente appropriandosi della cultura americana originale come se non avesse contribuito a giustificarne la distruzione.
Da notare la totale esclusione, da questa nuova epopea, del massacro delle popolazioni native della costa orientale nord-americana (Irochesi, Uroni, Seneca e molte altre), più ampio ed ugualmente efferato di quello a danno dei popoli nomadi delle grandi praterie (Sioux e Cheyenne).
La letteratura fa la sua parte: una quantità di pubblicazioni di vario genere che esaltano la cultura “delle grandi praterie” si diffondono a macchia d’olio in Europa e in Italia trainate dal movimento hippie, dalla sua musica, dai suoi “guru” della beat generation (Ginsberg, Kerouac ecc.) e naturalmente dalla accresciuta potenza dell’industria culturale statunitense.
Uno dei capostipiti di queste pubblicazioni è l’autobiografia, tratta da un’intervista dell’autore (John G. Neihardt) ad uno sciamano Sioux-Lakota, e pubblicata trent’anni dopo (1960) con il titolo ”Alce Nero parla”.
Gli aforismi di Alce Nero entrano a far parte del lessico e dell’immaginario del movimento hippie senza che emerga alcuna contraddizione fra il pacifismo fondante dei ”figli dei fiori” e l’aspetto guerriero della cultura dei nativi americani.
In Europa, ma in modo particolare in Italia, la cultura hippie (ecologista, pacifista, antindustrialista e sostanzialmente interclassista) si diffonde insieme al movimento operaio, studentesco e dell’estrema sinistra (classisti e iper-politicizzati).
I due movimenti, nel loro percorso di crescita e di decadenza non si incontrano, anzi competono per l’egemonia sulle nuove generazioni, ma si influenzano a vicenda. Per esempio, il movimento degli “Indiani metropolitani” pur facendo parte della sinistra politica e ispirandosi a Guy Debord (caposcuola del situazionismo il cui manifesto fu il saggio “La società dello spettacolo”, edito nel 1967), assumeva nomi “indiani”, come il collettivo “Geronimo” o soprannomi personali, quali Cochise, Corvo rosso ecc.
All’opposto, già nella metà degli anni Settanta, si assiste al fenomeno del movimento di occupazione delle case poderali abbandonate in seguito all’inurbamento delle masse contadine.
L’influenza hippie è evidente, nello stile e nell’immaginario, (con una netta prevalenza dell’ecologismo), ma con slogan politici e classisti. Esempio ne è “La terra a chi la lavora e la casa a chi la occupa!” della Comune di Pian Baruccioli, nell’alto Appennino forlivese, dove si aggiungono anche influenze di tipo luddista (rifiuto della tecnologia).
In Europa nascono “comuni” dalle caratteristiche diverse anche in aree metropolitane vedi “Christiania” fondata nel 1971, ”Città libera di Christiania” (Fristaden Christiania, in lingua danese).
In queste comunità si fonde più o meno armonicamente, non senza qualche contraddizione, la tradizione hippie con quella parte dei movimenti politici dell’estrema sinistra e libertari (anarchici) che, dopo la repressione subita dallo Stato alla fine del decennio 70-80, cercava una via di sopravvivenza, al riparo dalla repressione ma senza abiurare sostanzialmente il proprio antagonismo.
Tuttavia non sono esperienze omogenee, ma un sincretismo di situazioni ispirate, in misura più o meno evidente, oltre che dalla cultura delle grandi praterie e della sinistra antagonista, anche dal cristianesimo primitivo e dalla filosofia trascendentale del buddismo e dell’induismo.
Nella musica, di queste tendenze orientali il principale esponente fu Ravi Shankar (virtuoso del sitar, detto the Godfather of Sitar, divenne noto al mondo per aver partecipato al festival di Monterey (1967), Woostock (1969), e al Concerto per il Bangladesh del 1971.)
Lo stesso ruolo svolse nella letteratura lo scrittore tedesco Herman Hesse (1887-1962). suoi romanzi più famosi sono Demian (1919), Siddharta (1922), Il lupo della steppa (1927), Narciso e Boccadoro (1930), Il giuoco delle perle di vetro (1943).
Non va dimenticato “Il Signore degli anelli” (The Lord of the Rings) dell’inglese John Ronald Reuel Tolkien, pubblicato in tre volumi dal 1954 al 1955 (più di un decennio prima dell’epopea sessantottina). Tuttavia, pur ispirandosi alla mitologia nordica europea (celtica e germanica), “Il signore degli anelli” interagisce nei rapporti fra movimento hippie e sinistra politica classista, suscitando un dibattito fra i due movimenti, sintetizzabile nel quesito: gli Hobbit sono di destra o di sinistra?
Comunque e non a caso, a parte il fascino della storia, alcuni gruppi di estrema destra si identificarono negli Hobbit al punto da organizzare campeggi e ritrovi chiamati “campi Hobbit”.
In Italia, ebbero grande successo anche autori quali Carlos Castaneda.
Il suo primo libro ”A scuola dallo stregone: una via Yaqui alla conoscenza” vendette otto milioni di copie in tutto il mondo (in diciassette edizioni)
A parte i meriti letterari, quello che colpì nel segno fu l’aspetto immaginifico nel rapporto fra i due protagonisti della storia: l’allievo (l’uomo occidentale materialista che vive una sola dimensione: la sua, opposta alla natura) e il maestro (lo stregone Yaqui Don Juan che, che con l’ausilio di sostanze psicotrope, accompagna l’allievo verso “la conoscenza”).
Il senso è questo: morire e poi rinascere dentro, per addivenire a una diversa e più alta percezione del mondo, che non è solo materia ma anche spirito.
Qui “gli indiani” non sono più quelli delle grandi praterie: la cultura dei cavalli, dei bisonti, dei guerrieri e del grande spirito, concreta e spirituale; tutto si concentra dentro la sfera del trascendente, nella quale si completa il messaggio. Sicuramente la storia è inventata, ma l’ambiguità reale-immaginario della vicenda, si presta anche ad interpretazioni letterali. E infatti qualcuno la prese sul serio e ci si buttò dentro piuttosto ”goffamente”.
Comunque, questo strano viaggio degli “uomini rossi” nell’immaginazione occidentale è continuato fino ai nostri giorni. Attualmente è stato ripreso, ma solo per l’aspetto del costume (molto stilizzato): negli innumerevoli generi del fantastico nelle arti e nella letteratura.
Un viaggio che sicuramente ha incrinato, anche se fuori tempo massimo, (quando tutte le culture precolombiane erano distrutte), il totalitarismo della cultura razzista, in quanto coloniale, dell’occidente. Ha fornito ad alcune generazioni un punto di vista diverso della realtà, ma non è riuscito (in quanto naturalmente interclassista) a interagire davvero con il movimento operaio, però senza negare (come sottolineato in precedenza) qualche reciproca contaminazione.
Peccato! Perché qualche insegnamento, gli uomini e le donne delle grandi praterie e in generale del continente nordamericano, avrebbero potuto darcelo. Ma, oltre ad aver contributo alla formazione di una sensibilità ambientale che ancora resiste, per il resto, (oltre la sfera spirituale) di loro è rimasto poco, rispetto a ciò che avevano e potevano rappresentare negli aspetti concreti dell’organizzazione sociale.
Infatti, loro stessa esistenza in epoca storicamente documentabile è la dimostrazione che la divisione in classi sociali e la proprietà privata non sono, come affermano gli apologeti del capitale, connaturate alla nostra specie e che ci si può organizzare socialmente senza di esse.
Ma erano primitivi! Certo, se per primitivi si intende che non conoscevano la scienza, che credevano nelle “favole” ed erano in balia della natura.
Però, non avevano bisogno di polizia, esercito e di tutto l’apparato burocratico e repressivo dello Stato: tutte le funzioni sociali necessarie erano svolte su base volontaria e tramite mandato.
Le cinque tribù degli Irochesi, per esempio, disponevano di uno statuto federale che per alcuni aspetti ispirò la Costituzione dell’Unione nord-americana (USA). I Capi erano uomini, ma venivano eletti dal consiglio delle “madri”, le decisioni erano prese collettivamente e anche i bambini potevano dire la loro, pur non avendo (opportunamente) il diritto di voto.
I prodotti erano distribuiti a tutti membri della tribù e ai bisognosi; fra di loro erano molto più uguali di noi. L’assistenza pubblica non esisteva, ma la giustizia sociale era molto migliore della nostra.
Inoltre, non essendoci ragione per rubare, tutti i conflitti connessi alla proprietà privata erano inesistenti, e quindi i reati (in generale) estremamente ridotti.
In conclusione, il messaggio di quei popoli, giunto a noi fra le pieghe contorte della storia scritta dai vincitori, andrebbe attualizzato per quegli aspetti irriducibili e concretamente estranei al modello attualmente dominante della falsa democrazia di mercato.
“Gli Irochesi erano molto lontani dal dominare la natura, ma entro i limiti naturali che vigevano per essi, dominavano la propria produzione […]. Questo era l’enorme vantaggio della produzione barbarica, che andò perduto con l’avvento della Civiltà. Riconquistarlo, ma in base al possente dominio, ora raggiunto, della natura da parte dell’uomo […], sarà il compito delle prossime generazioni”. F. Engels
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