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Dall’ “Ave Maria” di De Andrè alcuni spunti per una lettura di classe della questione femminile

di Leo Evangelista
L’analisi dell’Ave Maria di De Andrè può indurre al facile giudizio per cui, parlando di religione e prostituzione con lo stesso amore, con lo stesso tono, con la stessa chitarra, se ne esaltino sia le contraddizioni sia i parallelismi.
In verità l’Ave Maria di De Andrè ha poco di religioso. Tanti in chiesa la suonano come se fosse un canto di fede. Ma in realtà è tutt’altro. L’ Ave Maria di Faber sottolinea la contraddizione insita nella vita di tutte le donne: da un lato il loro desiderio di essere donne, che viene concesso per un solo giorno, ma comunque destinate ad essere madri per sempre.
L’ “Ave Maria” di Faber (Maria sta per donna e non come “vergine e santa”), seppur sembra che strizzi l’occhio al dogma della famiglia tradizionale, nella quale la donna “deve” necessariamente essere femmina ma soprattutto madre e moglie, in realtà vuole esaltare proprio altre contraddizioni .
La prima è quella che intercorre tra il desiderio interno della donna di essere “femmina ma anche madre”, imposta dalla società basata sull’istituto del matrimonio che vuole la donna asservita all’uomo (l’autorità della famiglia patriarcale), ma sottolinea l’altra contraddizione che vuole la donna capace di liberarsi individualmente da questo giogo maschilista, ed autonomamente ottenere una superiore condizione socio-economica.
Quindi il fondamento dell’Ave Maria di De Andrè naviga proprio in queste acque: critica della famiglia come istituzione sociale, del patriarcato, del maschilismo ma anche del femminismo piccolo borghese interclassista, cioè quello che considera come risoluzione della questione di genere, favorire l’individuale emancipazione della donna, pur conservando quel ruolo di “madre” che la società le impone in quanto dogmaticamente predefinito anche dalle icone religiose (tipo la “Madonna con bambino” avulsa dal ruolo maschile). Passa quindi il messaggio che il genere femminile possieda in sé capacità soprannaturali ( definito anche “senso femminile”).
Quindi confondere in maniera truffaldina il fardello delle responsabilità familiari (cioè il peso della cura della casa e dei figli) con il diritto “divino” di essere la genitrice principale è il peggior errore che si possa commettere. Questa non è una visione classista della questione femminile, non tiene in considerazione la dialettica tra la classe di appartenenza e la famiglia come istituto sociale.
Questo è l’errore del femminismo interclassista: confondere la lotta contro l’ideologia maschilista dominante con la lotta contro l’uomo in quanto tale. Definire le violenze di genere come un atteggiamento innato dell’uomo alla violenza nei confronti della donna e non come un prodotto dell’ideologia dominante.
Altrettanto deve fare l’uomo: deve liberarsi per primo dal desiderio di possesso della donna. Lo potrà fare solo attraverso la distruzione del suo ruolo di “pater familias”, impostogli dalla società e dalla sua famiglia di origine (spesse volte trasmesso anche dalle madri ossessivamente protettive verso il figlio, ma più severe verso le figlie). L’uomo deve considerare, non che la risoluzione dei problemi di genere siano un mero trasferimento di potere decisionale dall’uomo alla donna, ma che entrambi siano oggettivamente schiavi di una società basata sulla proprietà privata: un sistema che incatena la donna all’uomo, in quanto genitrice, e l’uomo alla donna in quanto produttore di ricchezza, nell’ortodosso rispetto del suo ruolo di capo famiglia.
A parti invertire, mi spiace dirlo, le cose non cambiano sostanzialmente: anzi la donna produttrice di ricchezza sarebbe ulteriormente sfruttata, perché dovrà ottemperare anche al suo ruolo di “focolare domestico”. Cambiando padrone, quindi, non si cancellano gli schiavi né tanto meno si cancella la schiavitù.
Proprio in questo senso va letta la strofa della canzone di De Andrè “Sai che fra un’ora forse piangerai, poi la tua mano nasconderà un sorriso: gioia e dolore hanno il confine incerto , nella stagione che illumina il viso.” La mano nasconde “un sorriso”: un sorriso di gioia o di dolore ? un sorriso che è il coronamento di un sogno che si avvera o la fine di una tortura? Non possiamo rispondere, tant’è che “gioia e dolore hanno confine incerto”.
Ed il tempo che passa, cioè le “stagioni”: prima illuminano il viso, poi “le stagioni non sente” (la maturità), quando ormai il viso della donna non è più luminoso. L’età della maturità nella quale, per l’ideologia dominante, decade anche il ruolo della femmina. La femmina diventa così moglie e madre, relegando la donna al ruolo di colei che deve provvedere solo alla famiglia.
Si badi però che il riscatto dalla maturità (alla decadenza del corpo)  non è l’evasione fanciullesca della donna matura, ma deve passare solo tramite la demolizione di questi ruoli predefiniti, con la distruzione dell’istituto del matrimonio, legame che non certifica alcun desiderio o sentimento, ma solo la proprietà, che sia di carne o di beni, che cristallizza sempre più il maschilismo, il patriarcato, l’ideologia borghese della famiglia, che fu l’antitesi della degenerazione settecentesca della società clerico-nobiliare.
Sono sempre più vicini tempi di una migliore e superiore società. Una società fondata sui bisogni e strettamente legata sul benessere collettivo. Che faccia piazza pulita della schiavitù, non intesa solo come lavoro male o per nulla pagato, ma come primitivo rapporto interpersonale tra donna e uomo. Pertanto la questione di genere si fonde con la questione di classe: la lotta di classe passa proprio tramite la distruzione dei rapporti di privilegiotra le persone, siano essi donne o uomini, e della proprietà privata. Per tutte queste ragioni è necessaria una Rivoluzione sociale.

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