Di partigiano stanziale
Sarà per la doverosa diffidenza per le apparenze ma questo mostro dell’ISIS, per come ci appare nei mezzi d’informazione di massa, non convince per niente.
È troppo perfetto nella sua assoluta malignità, troppo alieno in tutti i suoi aspetti da tutto ciò che noi definiamo modernità che sembra impossibile che esista.
Forse è per questo che riesce ad incrinare la granitica indifferenza di massa assuefatta a stragi e porcherie di ogni genere ma non a qualcosa che sembra appartenere a un’altra epoca. Un’epoca che in questa forma estrema non è parte della storia dell’Islam, ma che piuttosto assomiglia alla furia dei cristiani che, nel IV secolo d.C., fecero strage di pagani in ossequio ai decreti dell’imperatore Teodosio.
La proibizione del culto presso i templi non fu ovviamente accolta facilmente dai pagani, che rappresentavano ancora la maggioranza degli abitanti dell’Impero.
Si arrivò a vere e proprie occupazioni armate dei luoghi di culto che si risolsero con l’intervento dell’esercito imperiale cristiano e con devastazioni, distruzioni di statue e templi da parte dei monaci cristiani provenienti dai monasteri e da fanatici guidati spesso da un vescovo.
Particolarmente significativo è il caso del Serapeo di Alessandria d’Egitto.
Ad Alessandria il vescovo Teofilo chiese ed ottenne da Teodosio il permesso di convertire in chiesa il tempio di Dionisio.
La decisione imperiale causò la ribellione dei pagani che si scontrarono nelle strade con i cristiani, dopo che questi ultimi avevano malmenato, torturato e ucciso i sacerdoti del tempio di Dioniso.
I pagani si asserragliarono nel Serapeo, assediati dalla guarnigione imperiale comandata da un certo Romano e dai fanatici guidati da Teofilo. Guidava la rivolta un certo Olimpio, che esortava i pagani a morire piuttosto che rinnegare la fede dei loro padri.
Una volta massacrati tutti i non cristiani del Serapeo, i cristiani fecero passare alcuni cadaveri (sembrerebbe anche portati dalle prigioni) come martiri cristiani presi in ostaggio e uccisi dai pagani, ma il grande storico Eunapio nega che fossero stati presi dei prigionieri cristiani.
Tutto ciò accadeva verso la fine dell’impero romano. Sarebbero dovuti trascorrere più di mille anni dominati dalla superstizione affinché l’Europa considerasse di nuovo la scienza e la ragione.
Ma l’antico Stato romano (schiavista e oligarchico ma laico e rispettoso del sapere) crollò perché le sue classi dirigenti erano marce fino al midollo o forse, meno colpevolmente, inadeguate a governare un mondo diventato troppo grande e complesso per i mezzi intellettuali e materiali che avevano a disposizione.
Per cui il fanatismo e l’intolleranza prevalsero facendo leva sulle legittime aspirazioni delle masse schiavizzate, per poi naturalmente tradirle. La fine dell’antichità fu un bivio per il destino dell’Occidente e, con il senno del poi, per l’intera umanità.
Ovvio che quei tempi nello specifico degli avvenimenti, nelle relazioni fra cause ed effetti e delle forze opposte in campo, poco ci aiutano a capire il nostro presente e quindi azzardare ipotesi sul futuro che ci aspetta.
Però ci dicono una cosa importante sulla storia dell’umanità: quando una civiltà entra in decadenza (e con essa le classi dominanti con la loro cultura, la loro ideologia e i loro modi di produzione) l’umanità si avvia o verso il progresso o verso la barbarie, in un turbinio di eventi in cui è difficile distinguere fra le opposte tendenze per la semplice ragione che nella manifestazione della contemporaneità sono insite entrambe.
Domandarsi se l’ ISIS sia un rigurgito arcaico (destinato a scomparire) o al contrario un fenomeno anticipatore è un esercizio inutile, in quanto con la prima ipotesi si ignorerebbe l’esistente e con la seconda si violerebbe l’imprevedibilità del futuro.
Piuttosto si può dire che esso rappresenti il prodotto regressivo di un capitalismo che lo è altrettanto, che sopravvive solo in virtù della capacità tecnologica (tanto potente quanto illogica) di spostare continuamente le sue irrisolvibili contraddizioni (e distruzioni) in giro per il mondo e sapersi tutelarle con un apparato repressivo senza precedenti.
A questo punto è d’obbligo ri-porsi la fatidica e quanto mai insoddisfatta domanda: che fare? Innanzi tutto non farsi ri-truffare dal nuovo leader di turno della sinistra che non c’è, ma nemmeno sottovalutare l’attualità di una classe lavoratrice sindacalizzata o meno che non ne vuole sapere(o non può) abbandonare il rassicurante tran-tran quotidiano, nonostante stia diventando sempre meno rassicurante.
Ce lo dicono i fatti: fra qualche isolata lotta, esemplarmente interpretata dai lavoratori e altrettanto esemplarmente tradita dai burocrati sindacali, ci troviamo dentro un limbo di svogliatezza generale delle masse popolari, che non sembrano interessate a nulla se non alle stronzate mediatiche che vengono loro propinate in dosi sempre più massicce. Intanto l’eroico iper-attivismo di alcune minoranze, combattive ma frammentate e represse brutalmente, non sembra incrinare nemmeno minimamente il muro che le circonda.
Se non fossimo certi che la lotta di classe sia il motore della storia e che continua al di là dei desideri di quelli che la temono (e perciò la negano), verrebbe voglia di farsi interpreti del bieco conformismo imperante.
In fondo chi siamo noi per pretendere di cambiare di il mondo? Meglio godersi ciò che la vita nella sua immanente e trascendente bellezza ci da ogni giorno, sopratutto nelle piccole cose, come ci invitano a fare i preti e la pubblicità?
Sciocchezze! Le piccole cose soddisfano i poveri di spirito e i poeti, che rappresentano gli opposti estremi dei prototipi umani, anche in termini quantitativi (i poveri di spirito sono tanti e i poeti assai rari).
Piuttosto pensiamo che in aggiunta alle vecchie ragioni dei rivoluzionari di ogni epoca se ne è aggiunta una nuova, che non riguarda soltanto la giustizia sociale (che è un’aspirazione che presuppone un minimo di coscienza di classe), ma l’oggettiva urgenza di salvare l’ambiente naturale la cui distruzione accelera con la riproduzione-accumulazione del capitale, per quanto essa si sia ultimamente ridotta per via della crisi.
Ma su questo argomento siamo ancora indietro. Forse perché si è sempre pensato che l’ambiente naturale, non essendo dotato di coscienza, non possa essere il soggetto del cambiamento; ma l’uomo ( nel nostro caso il proletariato) può evolversi al di fuori di esso essendone parte egli stesso? È pensabile una rivoluzione sociale senza una contemporanea rivoluzione ambientale? È così scontata la compiutezza dell’uomo-economicus o sopravvive in lui, per quanto repressa, la propensione verso la naturalità delle proprie origini?
E sotto questo aspetto, tanto per tornare all’argomento iniziale e correndo il rischio di un azzardo estremo, gli estremismi religiosi, i fascismi emergenti e i fanatismi di ogni sorta non rappresentano forse per molti aspetti la strumentalizzazione di una propensione atavica alla purezza originaria in forma arcaica e regressiva? L’attrazione per una vita più semplice e con regole certe, dove è chiaro chi è il responsabile e di che cosa; e dove una nube annuncia la pioggia e una rondine la primavera.