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CHE COS’ E’ L’ ECOMARXISMO


Di Tiziano Bagarolo (da Trotskismo)

Buona parte di questo lavoro riprende la relazione tenuta il 29 aprile 1993 a Palazzolo Milanese, nell’ambito degli incontri su “Marx e l’ambiente” promossi dalla Associazione Culturale Punto Rosso di Paderno Dugnano (Milano).

Premessa

E’ noto che la questione ambientale diventa un tema politico di primaria importanza all’inizio degli anni settanta.

Nell’aprile del 1970 ha luogo la prima giornata della terra (Earth day) negli Stati Uniti. Due anni più tardi si riunisce a Stoccolma la prima conferenza mondiale delle Nazioni Unite sull’ambiente. In quegli anni escono anche alcuni libri che segnano una tappa fondamentale nel dibattito sulla questione ecologica e prefigurano gli approcci teorico-ideologici dei successivi decenni.

Tra gli scritti più emblematici possiamo elencare: il rapporto al Club di Roma The Limits to Growth (1972, titolo malamente tradotto in italiano con I limiti dello sviluppo); l’opera di Barry Commoner The Closing Circle (1971, tit. trad. it. Il cerchio da chiudere); lo scritto di due redattori della rivista inglese “The ecologist”, Edward Goldsmith e Robert Allen, A Blueprint for Survival (1972, un programma per la sopravvivenza, pubblicato in italiano col titolo La morte ecologica).

Il primo di questi scritti sintetizza il punto di vista delle tendenze riformistico-tecnocratiche del capitale (per dirla con una formula semplificante). Per l’epoca, esso esprime con grande efficacia le preoccupazioni per l’emergente crisi ecologica che si fanno strada in gruppi di studiosi e di intellettuali legati alle classi dominanti. Nel rapporto si lancia un forte allarme nei riguardi del cieco ottimismo della ideologia della crescita, allora imperante, si afferma l’esigenza di un nuovo approccio globale ai temi dello sviluppo e dell’ambiente (si avanza l’obiettivo della cosiddetta “crescita zero”) e si auspica la attuazione di riforme profonde, pur nel quadro economico-sociale esistente.

L’ultimo scritto è una delle prime espressioni organiche di un nuovo punto di vista che negli anni seguenti sarebbe stato definito “ecologismo”. Esso propugna la necessità di una rottura radicale con lo stato di cose esistenti, ma la pone innanzi tutto su un piano culturale ed etico, più che politico e sociale; centrali sono la proposta di una rivoluzione culturale, la critica della ideologia della crescita, del consumismo, delle velleità di dominio tecnologico sulla natura, l’esigenza di riconoscere e di rispettare i legami che intercorrono fra la specie umana e l’ecosistema terrestre.

Anche lo scritto di Barry Commoner Il cerchio da chiudere esprime un punto di vista di rottura con l’esistente; ma questa rottura vi è concepita non solo come rivoluzione culturale ma anche e soprattutto come svolta radicale in campo politico e sociale. Citando Karl Marx, Barry Commoner riconduce la crisi ecologica al conflitto fra la logica di funzionamento della natura (degli ecosistemi) e i meccanismi di funzionamento della economia capitalistica. Mentre la prima tende alla stabilità e opera con cicli chiusi, la seconda promuove la crescita secondo schemi lineari che sfociano nella perturbazione degli equilibri naturali. Per uscire dalla crisi egli propone perciò di cambiare il modello di sviluppo e i meccanismi economici, di conferire priorità ai vincoli ecologici e non al profitto, e di attivare una pianificazione democratica della produzione, da sottoporre al controllo dei cittadini, in relazione ai veri bisogni sociali e alla difesa dell’ambiente.

L’impostazione di Commoner, chiaramente influenzata dal marxismo anche se non riconducibile direttamente ad esso (Commoner è essenzialmente un biologo, e le sue incursioni teoriche in campo sociale e soprattutto economico non hanno lo stesso valore delle sue elaborazioni ecologiche) divenne negli anni settanta il punto di riferimento di coloro che a sinistra affrontavano la questione ambientale. In questo senso il ruolo di Commoner è stato sicuramente molto positivo e importante.

Nel panorama delle posizioni teorico-ideologiche che emergono agli inizi degli anni settanta in relazione all’esplodere della questione ecologica, non c’è dunque un posto di primo piano per il marxismo, anche se c’è una sua rilevante influenza su una delle principali correnti che si sviluppano (alla quale spesso si fa riferimento con il termine di “ecologia politica”).

Perché il marxismo resta in secondo piano? Forse perché non ha niente da dire? O forse perché i marxisti erano “distratti”?

Parlo altrove di ciò che si può trovare sui temi ecologici nei testi classici del marxismo (1). Qui cerco di rispondere sommariamente all’ultimo quesito, come premessa storica al discorso sull’ecomarxismo.

La mia opinione, in sintesi, è la seguente.

Da un lato, ritengo che la ragione principale del fatto che il marxismo non ha giocato un ruolo di primo piano fra le posizioni ideologiche emerse in relazione alla crisi ecologica sia stato il ritardo delle forze maggioritarie del movimento operaio e della sinistra a capire l’importanza dei nuovi problemi e dei nuovi movimenti. In fin dei conti, i sindacati e i partiti tradizionali della sinistra (tutti: socialdemocratici, socialisti, laburisti, comunisti e eurocomunisti) condividevano allora l’ideologia dello sviluppo secondo la quale la crescita economica e quella industriale sono in se stesse positive, quale che sia il prezzo pagato dall’ambiente, perché creano posti di lavoro e benessere, e qualificavano le critiche degli ecologisti come antindustriali e magari reazionarie.

E’ vero che alcune forze minoritarie e d’avanguardia nella sinistra e nel sindacato provarono a confrontarsi davvero con i problemi dell’ambiente, a partire dai temi del nucleare e della salute in fabbrica, e ciò accadde soprattutto in paesi dove erano nati e/o si erano sviluppati negli anni settanta movimenti di estrema sinistra di ispirazione marxista con un certo radicamento sociale. In Italia, ad esempio, nacquero esperienze importanti come i collettivi di operai e tecnici di Castellanza e di Marghera, la rivista “Sapere”, il movimento di Medicina Democratica ispirato all’opera di Giulio Maccacaro, ecc. Queste esperienze hanno prodotto interessanti letture dei problemi ecologici in chiave marxista e approcci politico-teorici tesi a combinare lotta ambientalista e lotta di classe in una prospettiva anticapitalistica (un importante tentativo politico-teorico in questo senso fu compiuto da Democrazia proletaria negli anni ottanta), ma tutto questo è rimasto confinato in ristretti ambiti nazionali e non ha prodotto scritti teorici di rilievo tali da configurare un punto di vista marxista originale e autorevole sui temi della crisi ecologica, almeno fino ad anni piuttosto recenti.

D’altro lato, se sulle questioni ecologiche sono mancate autorevoli opere di teoria marxista capaci di diventare senso comune ciò si deve anche al fatto che abbiamo avuto a lungo una infelice divaricazione fra marxismo ed ecologia, o meglio fra i movimenti classisti-marxisti e i movimenti ambientalisti:

1. anche quando si occupavano di problemi ecologici i primi tendevano a negare validità teorica all’ecologismo criticandolo, sotto molti aspetti a ragione, come inadeguato, negando però nel contempo l’esigenza di un ripensamento delle tradizionali coordinate ideologiche, economicistiche e “industrialiste”, del movimento operaio e, soprattutto, dimostrandosi nei fatti inconseguenti nella loro lotta anticapitalistica, con ciò precludendo la possibilità di un dialogo fertile tra movimenti classisti e movimenti ecologisti;

2. nella misura in cui rivendicavano una propria autonomia politica e teorica i secondi tendevano a loro volta a respingere il marxismo e i riferimenti classisti, giudicando il primo una variante dell’ideologia industrialista mentre la classe operaia veniva ritenuta coinvolta e cointeressata nei meccanismi di sfruttamento e di devastazione della natura (2).

Questa divaricazione si è ben presto sviluppata anche sul terreno politico con la nascita dei Verdi come corrente politica autonoma che rivendicava un suo spazio e una sua collocazione politica originale, esemplificata dalla formula “né di destra né di sinistra”, che per i marxisti suona come una bestemmia (3).

Storicamente parlando, questa divaricazione era probabilmente inevitabile. Essa corrisponde a una di quelle cesure storiche che segnano i passaggi di fase e i mutamenti nella coscienza collettiva e che costringono le ideologie esistenti a fare i conti con i nuovi dati della realtà (ad aggiornare la propria attrezzatura teorica o perire) non solo attraverso la comprensione intellettuale, ma anche e soprattutto attraverso le sfide portate dai nuovi movimenti sociali.

A me sembra che questa situazione cominci a cambiare verso la fine degli anni ottanta, in contemporanea con il mutamento repentino e radicale del panorama geo-politico e ideologico del mondo contemporaneo (4).

Da un lato il crollo dell’Urss e dei regimi dell’Europa orientale, nonché la crisi delle forze tradizionali della sinistra in Occidente, ha liquidato la credibilità di una tradizione marxista ormai sclerotica e inadeguata, lasciando il terreno più sgombro per nuovi tentativi di ripensamento o di ricostruzione del marxismo stesso, per quanto ciò avvenga, come è evidente, in un contesto politico e sociale molto più arduo e difficile.

Da un altro lato, le conseguenze in materia di ambiente della ondata neoliberista che ha spazzato l’Occidente durante gli anni ottanta, i suoi drammatici effetti sui paesi del cosiddetto Terzo Mondo, i magri risultati ottenuti dai Verdi nei paesi europei in cui si sono messi alla prova negli ultimi anni, hanno reso visibile la debolezza di fondo dell’approccio aclassista e eminentemente etico-culturale alla questione ambientale e hanno riproposto l’esigenza di indagare i meccanismi strutturali alla base della crisi planetaria, tema su cui il marxismo ha tradizionalmente qualcosa da dire.

E’ in questo contesto che negli ultimi anni si assiste ad una ripresa di interesse per il marxismo e che si comincia a parlare di “ecomarxismo”, termine entrato nell’uso con l’opera di James O’Connor (5).

L’ecomarxismo di James O’Connor

James O’Connor ha proposto l’ecomarxismo in una serie di saggi degli ultimi cinque anni. Il primo, intitolato nella traduzione italiana con una formula fortunata L’ecomarxismo (1989), risale nella versione inglese all’autunno del 1988. Un secondo scritto importante è l’editoriale del numero 1 della rivista “Capitalismo Natura Socialismo” (marzo 1991). La formulazione forse più compiuta e soddisfacente dell’ecomarxismo è il saggio The Second Contradiction of Capitalism: Causes and Consequences, pubblicato in italiano sul n. 6 (dicembre 1992) di “CNS” italiana. Per la politica dell’ecomarxismo, infine, oltre a diversi stralci dai testi già citati, assumono un particolare rilievo altri due scritti: Verso un’economia politica della natura, sul n. 4 (marzo 1992) di “CNS” italiana, e Think Globally, Act Locally? Towards an International Red Green Movement, comparso nel fascicolo del dicembre 1992 di “CNS” americana e tradotto nel n. 7 (marzo 1993) di “CNS” italiana. Faremo riferimento essenzialmente a questi testi anche per la nostra trattazione.

In questi lavori O’Connor delinea uno schema teorico, ispirato al marxismo ma con accenti nuovi, che si prova a spiegare gli aspetti ecologici della crisi capitalistica e le loro implicazioni.


Ritardi e vuoti teorici della tradizione marxista e socialista

Noto in Italia soprattutto per un libro pubblicato negli anni settanta, La crisi fiscale dello Stato (ma ha al suo attivo molte altre opere), James O’Connor ha sempre prestato un’attenzione particolare al tema delle crisi economiche nei paesi a capitalismo maturo. Non gli poteva perciò sfuggire il ritardo e il vuoto di elaborazione marxista in materia di crisi ecologica. Scrive sul n. 1 di “CNS” (6):

“Non esiste nessuna trattazione sistematica marxista o neo-marxista della dialettica delle tendenze di breve o di lungo periodo delle crisi ecologiche ed economiche […]. Nonostante l’ambientalismo costituisca uno dei più importanti movimenti sociali sia negli Stati Uniti che negli altri paesi, e nonostante la crisi ecologica abbia ormai raggiunto il mondo intero, i marxisti e i socialisti hanno fatto finora pochi e deboli tentativi di dare una spiegazione teorica di questi fatti […]. Né esiste una spiegazione soddisfacente della dialettica della storia e della natura, che si collochi come interfaccia tra le scienze naturali e quelle sociali, e che si doti di un parametro di misura per definire quel che la natura dovrebbe essere, rispetto a quel che essa è oggi.”

Di conseguenza, pur cercando di aggiornare la strumentazione teorica del marxismo a partire dal marxismo, James O’Connor non manca di esprimere giudizi piuttosto drastici – che non mi sento di condividere – su questa tradizione e sui suoi fondatori (7):

“La teoria marxista non ha alcun fondamento nella scienza ecologica, nonostante gli sforzi compiuti dai socialisti – da Podolinskij a Commoner – per convincere i marxisti a muoversi in questa direzione […].”

si può leggere nel medesimo scritto.

E ancora:

“Marxisti e socialisti non hanno prestato molta attenzione, finora, alla natura e all’ecologia […].”


Ecologia e materialismo storico

Giudico invece condivisibile – e davvero centrale – quello che O’Connor indica come il punto di partenza di una riflessione marxista sulle relazioni fra storia e natura, e cioè l’esigenza di integrare l’ecologia (l’economia della natura) e il materialismo storico. Ciò significa da un lato tener conto dei fattori naturali che influenzano la dialettica della società umana, dall’altro considerare il rapporto uomo-natura non un dato meramente “naturale”, ma mediato dai rapporti sociali e dalla lotta di classe (8):

“In realtà, il termine chiave che media tra storia naturale e quella umana, o che funziona come interfaccia tra storia e natura, è il lavoro, organizzato e diviso in compiti specializzati, inclusa la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale: la storia della natura può dunque essere analizzata, sul piano teorico, come storia del lavoro. Nelle società classiste, poiché il lavoro è sfruttato dalle classi proprietarie, la storia della natura diventa quella dello sfruttamento e della resistenza allo sfruttamento. Non solo la storia umana ma anche la storia naturale è dunque storia delle lotte di classe.” (nostra sottolineatura). Inoltre, “l’accumulazione e la crisi capitalistica hanno effetti devastanti sulla qualità della terra, dell’acqua e dell’aria, e questi effetti, a loro volta, limitano le possibilità di accumulazione capitalistica in futuro.”

Queste affermazioni – che chiariscono il carattere storicamente determinato dei problemi che insorgono nel rapporto società-natura – non vanno lette come una negazione della “oggettività” della natura e tanto meno come una riduzione della natura a mero oggetto del lavoro, dell’appropriazione e dello sfruttamento, ovvero a mera variabile dipendente della accumulazione del capitale. Scrive bene O’Connor (9):

“Ovviamente, la natura si modifica per conto suo in modi complessi, al tempo stesso in cui viene modificata dall’attività materiale umana. La natura è dunque un partner attivo nella vita materiale della specie umana, e quindi nella coscienza e nella storia umana, e lo sviluppo dell’ecologia e della sensibilità ecologica ne è una testimonianza forte.”

Ancora (10):

“I cambiamenti prodotti dagli esseri umani sulla natura, contribuiscono a loro volta a definire possibilità e vincoli della storia umana. Gli uomini cambiano la natura; contemporaneamente, la natura cambia se stessa e i percorsi della storia umana. Questa è l’unica strada possibile per qualsiasi revisione o estensione del marxismo e del materialismo storico.”

Forze, rapporti e condizioni di produzione

Questo il quadro di riferimento generale del pensiero di James O’Connor. Passiamo adesso a esaminare più da vicino gli aspetti analitici più rilevanti del suo contributo teorico.

Merito non secondario di O’Connor è quello di aver richiamato l’attenzione dei marxisti su una categoria chiave della teoria dei modi di produzione, lasciata spesso in secondo piano dai marxisti, la categoria delle condizioni di produzione. Lo schema teorico con cui Marx analizza i modi di produzione, infatti, distingue tre categorie generali di elementi: le condizioni della produzione, i rapporti di produzione, le forze produttive. Non solo, dunque, la distinzione forze produttive-rapporti di produzione, come viene in genere detto. Di queste tre categorie oggi, in relazione alla crisi ecologica, tende ad assumere un rilievo sempre maggiore e tendenzialmente centrale proprio l’elemento delle condizioni di produzione.

Che cosa sono forze, rapporti e condizioni di produzione?

Brevemente qualche richiamo di concetti piuttosto noti.

Le forze produttive sono tutto ciò che entra attivamente nel processo produttivo, dalla forza lavoro alle macchine e alle fonti di energia, dai modi di divisione-cooperazione del lavoro alla scienza.

I rapporti di produzione sono le relazioni che si stabiliscono fra le diverse classi in relazione al processo di produzione e alla appropriazione dei mezzi di produzione e dei prodotti del lavoro sociale. Un esempio: nella società schiavistica il proprietario dei mezzi di produzione (la terra, le officine, gli attrezzi, ecc.), è proprietario anche degli schiavi, nonché del risultato del loro lavoro. Invece nella società capitalistica il proprietario dei mezzi di produzione non è proprietario dei lavoratori che impiega, ma acquista sul mercato in cambio del salario l’uso della forza lavoro di lavoratori formalmente “liberi”, e questo gli dà il “diritto” di appropriarsi del risultato del loro lavoro. Marx ha dimostrato che in entrambi i casi, anche se in modo diverso, avviene necessariamente uno sfruttamento del lavoratore, mascherato, nel caso del capitalismo, dietro l’apparenza di uno scambio “libero ed eguale” sul mercato.

Secondo il materialismo storico c’è una dialettica costante fra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione. A un certo livello di sviluppo delle forze produttive corrispondono, grosso modo, determinati rapporti di produzione (11). Ad esempio, il rapporto capitale-lavoro quale noi lo conosciamo oggi non poteva svilupparsi fino in fondo prima della rivoluzione industriale e dello sviluppo del sistema di fabbrica fondato sulle macchine. D’altra parte, lo stesso progresso delle forze produttive tende a rendere superati determinati rapporti sociali di produzione che diventano un ostacolo ad ogni ulteriore sviluppo. Le classi sociali legate alle nuove forze produttive, interessate a stabilire rapporti sociali più avanzati, cercano perciò di soppiantare le vecchie classi dominanti. Questa, schematicamente, la dialettica storica fra forze produttive e rapporti di produzione; dialettica che si può leggere nella vicenda storica che ha condotto alla disgregazione della società feudale e all’ascesa della borghesia e del capitalismo industriale.

E’ evidente da questo schizzo della dialettica forze produttive-rapporti di produzione che questo schema non riesce a dare conto adeguatamente del dato nuovo dell’attuale crisi capitalistica che in quanto crisi ecologica presenta aspetti di una crisi di eccesso di sviluppo, piuttosto che di blocco dello stesso. Si può spiegare il degrado dell’ambiente come risultato della contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e l’intralcio di rapporti sociali di produzione superati? (12)

Solo in parte. In realtà, secondo O’Connor, è più facile spiegare i problemi ambientali come il risultato di una contraddizione che emerge nel corso dello sviluppo capitalistico fra lo sviluppo delle forze produttive entro i rapporti di produzione dati (capitalistici), da un lato, e le condizioni della produzione, dall’altro (13). E’ quella che James O’Connor definisce la “seconda contraddizione del capitalismo”.

Le condizioni della produzione

Ma che cosa sono le condizioni della produzione?

Questo concetto, in verità, è già presente in Marx e nel Capitale. Giustamente James O’Connor lo ha ripreso e posto al centro della riflessione sui temi del rapporto fra accumulazione capitalistica e degrado della natura (14).

Per Marx sono condizioni della produzione la forza-lavoro umana (il lavoratore) e i suoi mezzi di lavoro, e inoltre tutti quegli elementi senza i quali il processo di produzione non potrebbe aver luogo, anche se alcuni di essi non entrano attivamente in esso e nel processo di valorizzazione (15).

Marx distingue le condizioni di produzione in questi tre gruppi:

1. le “condizioni personali”, cioè la forza lavoro umana;

2. le “condizioni esterne”, cioè la natura, l’ambiente;

3. le “condizioni generali, comunitarie”, cioè lo spazio urbano, le comunicazioni, le infrastrutture di trasporto, ecc. Questa tripartizione è ripresa da O’Connor che vi aggiunge una specificazione importante (17):

“Sotto il profilo teorico, le condizioni di produzione si riferiscono a tutto quel che è trattato come merce nonostante non sia stato prodotto come merce in base alla legge del valore, o legge dei mercati.”

Questa definizione generale ci consente, dice O’Connor, di trattare insieme cose diverse come la forza lavoro, la terra, lo spazio urbano, la natura, individuando tratti comuni e differenze tra capitale, forza lavoro, natura, da una parte, e movimento operaio e nuovi movimenti sociali dall’altra.

Una riflessione prima di procedere: è evidente che il fatto che i marxisti abbiano ad un certo punto trascurato questo elemento della teoria marxiana (le condizioni di produzione) non è senza relazione con quanto ho osservato all’inizio, e cioè i ritardi nella comprensione dei problemi ambientali. Se essi avessero fatto più caso alle condizioni di produzione in relazione ai rapporti di produzione e alle forze produttive, avrebbero sicuramente scoperto molto prima la necessità di fare i conti con la natura, con i modi in cui essa entra nella produzione e ne viene modificata. E avrebbero anche scoperto negli scritti di Marx e di Engels decine e decine di passi in cui già si prendevano in esame questi problemi, pur nei limiti in cui essi si presentavano nel secolo scorso (17).

Lo Stato e le condizioni della produzione

James O’Connor richiama con forza l’attenzione su un aspetto che riguarda in modo particolare il modo in cui la natura viene trattata nella società capitalistica: se le condizioni di produzione non sono prodotte come le altre merci all’interno del processo capitalistico di produzione, come vi entrano? In base a quale processo di “capitalizzazione” (ovvero di appropriazione e riduzione a elemento del ciclo di valorizzazione del capitale)?

Questa capitalizzazione delle condizioni della produzione, in particolare della natura e dell’ambiente antropizzato, è garantita non dai rapporti di produzione e riproduzione del capitale in senso proprio, bensì dallo stato, da rapporti in ultima analisi politici, i quali sono influenzati dalla lotta di classe, anche se non sempre direttamente dalla lotta di classe sui luoghi di lavoro; la capitalizzazione delle condizioni della produzione è piuttosto l’oggetto del contendere dei “nuovi movimenti sociali” (18):

“Né la forza lavoro né la natura, nelle loro dimensioni di spazio e tempo, sono prodotte dal sistema capitalistico, e ciononostante il capitale tratta le condizioni di produzione come se fossero merci, o beni capitali.”

Perché ciò avvenga, occorre che la capitalizzazione della natura venga mediata, regolata dallo stato:

“Lo stato si colloca tra il capitale e la natura – o media tra il capitale e la natura – con l’inevitabile conseguenza di politicizzare le condizioni della produzione.”

“Poiché le condizioni di produzione non sono prodotte come merci, è necessario che qualcuno le renda disponibili al capitale nella quantità, qualità, tempi e luoghi necessari. Questo qualcuno è lo stato: tutte le attività dello stato liberal-borghese – ad eccezione del battere moneta e delle forze armate – rientrano nella categoria della ‘regolazione o produzione delle condizioni di produzione’”

afferma altrove O’Connor (19), e fa degli esempi di politiche che si riferiscono ai tre tipi di condizioni:

“1) lavoro, famiglia, istruzione e politiche di welfare; 2) trasporti urbani, comunicazioni, uso del territorio e politica urbanistica; 3) acqua, aria, terra, coste e parchi.”

E’ un fatto sotto gli occhi di tutti che molti dei movimenti di lotta che sono venuti alla luce negli ultimi decenni, sia nei paesi capitalistici avanzati, sia nei paesi dipendenti, riguardano i terreni sopra elencati: le condizioni di vita delle persone (che influenzano la riproduzione e l’offerta sul mercato della forza lavoro); l’accesso alle risorse naturali e il trattamento dell’ambiente (normativa antiinquinamento per aria, acqua, rifiuti, difesa del suolo, delle foreste, della biodiversità e così via); l’uso del territorio, le politiche urbanistiche (piani regolatori, aree dismesse), le politiche dei trasporti e delle comunicazioni ecc. A tale proposito O’Connor fa una osservazione molto acuta e giusta (20):

“La struttura e le politiche degli stati differiscono grandemente tra i diversi paesi, quindi anche le opportunità e i vincoli dei movimenti sociali differiscono ampiamente da un luogo ad un altro. Di qui l’importanza che le politiche regionali e locali hanno per la sinistra oggi. L’attenzione a tutto quel che è “locale” è accresciuta dalla specificità dei “luoghi” della politica e della burocrazia, come di quelli sociali, culturali ed ecologici. I nuovi movimenti sociali sono più politici dei sindacati, ma anche più locali e regionali, ad eccezione di quei sindacati che hanno privilegiato la salute e la sicurezza sul posto di lavoro e sul territorio, la cura dei bambini, il trasporto casa-lavoro, l’abitazione.”

Prima e seconda contraddizione del capitalismo

Credo che sia adesso più chiara la differenza tra la prima e la seconda contraddizione di cui parla O’Connor. La prima contraddizione del capitalismo è quella tradizionale, fra capitale e lavoro, analizzata in modo esauriente da Marx, che si manifesta innanzitutto sui luoghi di produzione e nelle dinamiche del salario, della occupazione, del saggio di sfruttamento. Alla prima contraddizione si riconduce la crisi capitalistica di tipo classico dovuta a sovrapproduzione e a difficoltà di realizzo dal lato della domanda. La prima contraddizione “è interna al sistema”, dice O’Connor.

La seconda contraddizione è invece “esterna al sistema”, ossia si situa sulla frontiera tra il sistema economico capitalistico e l’“ambiente” in cui esso opera e si sviluppa e di cui si alimenta: la natura, gli uomini e l’ambiente materiale, sociale e culturale da essi forgiato. Nella seconda contraddizione non c’è un elemento centrale, dice ancora O’Connor, ma dipende dalle circostanze di tempo e di luogo quello che di volta in volta è il più significativo. Inoltre, egli osserva, non è possibile una teoria puramente economica della seconda contraddizione, anche se dal punto di vista economico essa tende a presentarsi come aumento dei costi di riproduzione del capitale, come carenza di capitale da investire (21).

Questo peraltro indica anche il limite di qualsiasi possibile “ecocapitalismo” fondato sullo sviluppo dell’ecobusiness, cioè di un settore preposto al disinquinamento e al ripristino di ciò che viene inquinato e degradato dal resto del sistema: questo settore rappresenta per il capitale nel suo insieme un costo, anche se in prima istanza partecipa alla valorizzazione.

Cause e conseguenze della seconda contraddizione

La causa principale della seconda contraddizione è il fatto che le condizioni di produzione, che pure non sono prodotte né sono (ri)producibili come merci, vengono assoggettate alla legge del profitto e della valorizzazione, e non alle proprie leggi interne. Ad esempio, lo sfruttamento agricolo di un terreno o quello di un’area forestale non sono regolati dai principi di sostenibilità ecologica, ma dalle possibilità di valorizzazione economica (dalle possibilità di ricavarne un profitto). Lo sviluppo capitalistico è stato in effetti caratterizzato lungo tutta la sua storia dall’appropriazione e dall’uso autodistruttivo della forza lavoro, dell’ambiente, delle risorse, dello spazio urbano ecc. (22).

Lo sviluppo successivo alla seconda guerra mondiale, sarebbe stato inimmaginabile senza deforestazione, senza inquinamento dell’aria e dell’acqua, senza il buco dell’ozono e gli altri disastri ecologici, senza la congestione delle metropoli, il degrado urbano e il collasso dei trasporti; senza la crisi dei sistemi di sanità pubblica e dell’istruzione ecc. Se il capitale si fosse preoccupato di tutto ciò, osserva O’Connor, in questo dopoguerra i tassi di crescita del prodotto nazionale negli Stati Uniti sarebbero stati inferiori di oltre la metà (23).


Limiti “naturali” creati dal capitale

Una conseguenza della “capitalizzazione della natura” e della seconda contraddizione è l’insorgere di scarsità che non sono fisico-ecologiche ma sociali: sono limiti creati dal capitale.

Scrive O’Connor (24):

“Il capitale incontra limiti – spesso autoprodotti – di spazio, lavoro disciplinato e socializzato, buona terra, aria pulita e così di seguito. La versione borghese di questo problema è quello dei limiti alla crescita, teorizzata dal Club di Roma e da molti suoi epigoni. La versione marxista è che il capitale non incontra mai limiti assoluti, ma limitazioni di materie prime, di spazio e così di seguito, e deficit di flessibilità, che si esprimono sotto forma di crisi economica. La crisi è comunque sempre localizzata, a causa delle specificità di luogo delle condizioni di produzione – e questa è una delle ragioni per la natura discontinua e squilibrata dei periodi di prosperità e di quelli di crisi.”

E’ utile pertanto, anche se in termini del tutto astratti, distinguere fra due modalità di crisi capitalistica:

1. la crisi capitalistica di tipo ecologico che deriva dalle difficoltà che il capitale crea a se stesso, per così dire, alla sua riproduzione normale, in quanto degrada e distrugge le condizioni di produzione trattandole come fossero merci, inducendo in tal modo un aumento dei costi e la comparsa di limiti alla crescita autoprodotti che non sono necessariamente limiti “naturali”;

2. la crisi “classica” di sovrapproduzione già analizzata da Marx e dai marxisti, che si presenta spesso sotto forma di carenza di domanda (crisi di realizzo).

Per O’Connor il capitalismo risponde alle crisi – e alle lotte sociali che le accompagnano – con processi di ristrutturazione che tendono a promuovere una maggiore socializzazione delle forze e delle condizioni della produzione, nonché dei rapporti sociali (25):

“Quando il capitale minaccia se stesso, distruggendo o danneggiando le sue stesse condizioni di produzione […] si determina una crisi economica da costi. Il capitale cerca allora di ristrutturare le condizioni di produzione nel tentativo di ridurre i costi. Normalmente ciò comporta più intervento statale, e cioè forme più sociali di produzione delle condizioni di produzione.”

Nella crisi di tipo classico l’agente di questa trasformazione è, con le sue lotte, la classe operaia. Nella crisi di tipo ecologico gli agenti della trasformazione sono i nuovi movimenti sociali. Questa maggiore socializzazione dei rapporti e delle condizioni di produzione è una condizione necessaria, anche se non ancora sufficiente, afferma O’Connor, per “immaginare la possibilità del socialismo” (26).

Questa trattazione è interessante, individua tendenze reali, ma a mio parere ha il difetto di presentarle in modo eccessivamente deterministico. I modi della socializzazione in atto sono tutt’altro che univoci e predeterminati. Essa infatti può assumere forme autoritarie, ad esempio la costituzione di una ecoburocrazia soggetta al capitale; oppure passare per una estensione sostanziale della democrazia, ad esempio tramite la diffusione di forme di controllo e di veto operaio e popolare sulle attività produttive (sul cosa, come, quanto e per chi produrre) e sui processi decisionali che riguardano il territorio e l’ambiente, da un lato, e sui servizi sociali, dall’altro, nonché di forme di autogestione democratica degli stessi.

Questa seconda possibilità, tuttavia, non è compatibile col sistema statale esistente, se non per brevi periodi di intensa mobilitazione di massa e di tendenziale dualismo di potere.

Tutto ciò ci conduce al tema della politica dell’ecomarxismo.

La politica dell’ecomarxismo

La riflessione di James O’Connor si muove a un livello di grande astrazione. Tuttavia egli ne trae anche alcune indicazioni concrete di strategia politica. Nel valutarle va tenuto conto che, benché egli presti attenzione anche alla situazione europea e mondiale, fa i conti innanzitutto con la più frammentata e meno strutturata situazione americana, dove è più debole la presenza e il ruolo delle forze politiche tradizionali del movimento operaio e dove nella sinistra maggiore è l’influenza delle posizioni post-marxiste, cioè di posizioni che hanno rinunciato all’obiettivo del socialismo e che propongono cambiamenti in un orizzonte democratico-radicale (27).

La posizione di James O’Connor emerge dunque dal confronto con questi interlocutori principali: l’ecologismo e il post-marxismo.

Nuovi movimenti sociali

I processi di riproduzione e di regolazione delle condizioni di produzione sono in effetti il “luogo” in cui si manifestano i nuovi movimenti sociali.

Questi luoghi della riproduzione e della regolazione delle condizioni di produzione sono i più vari: la famiglia, gli apparati dell’istruzione, l’ambiente urbano, le infrastrutture, lo stato sociale e la sanità, l’ambiente naturale, la conservazione delle risorse biologiche, le realtà locali e regionali ecc. E’ giusto osservare a questo proposito, che “i problemi che riguardano le condizioni di produzione sono problemi di classe, ma sono anche qualcosa di più (non di meno) dei problemi di classe” e che “le lotte sulle condizioni [di produzione] sono non di meno ma di più di un problema di classe” (28).

Osserva O’Connor che (29):

“la nascita dei nuovi movimenti sociali, organizzatasi intorno alle condizioni di produzione, ha spostato la lotta di classe dai luoghi di lavoro al territorio; dagli scioperi dei lavoratori al boicottaggio delle merci da parte dei consumatori; dal capitale alla burocrazia statale, che è diventata il principale bersaglio delle lotte […]”. I nuovi movimenti si occupano di “sanità, istruzione, condizioni urbane ed ambiente, sottolineandone il valore d’uso anziché quello di scambio, tentando di rafforzare le forme democratiche del processo decisionale, contro il potere tecnico della burocrazia e dello stato.”

Marxisti ed ecologisti
E’ un punto fermo spesso sottolineato da O’Connor che esiste un fondamento storico reale perché, nella nuova situazione creata dalla crisi ecologica, il movimento “socialista” e quello “ecologista” convergano in un unico movimento di carattere radicale che vada oltre gli scopi assegnati tradizionalmente al socialismo e si ponga il compito di realizzare un nuovo equilibrio con la natura.

Dalla metà degli anni settanta si è realizzata una più stretta interrelazione fra crisi economiche e crisi ecologica, la qual cosa rende attuali tanto le istanze del socialismo che dell’ecologia (30):

“Non è eccessivo dire che ecologia e socialismo sono le due facce di uno stesso processo storico […]. E’ il capitalismo che favorisce oggi il “matrimonio” tra socialismo ed ecologia.”

A mio a parere, queste osservazioni tendono a dare troppo per scontato ciò che è invece da costruire pazientemente. E’ vero che le lotte sull’ambiente tendono a scontrarsi con gli assetti del potere capitalistico, ma esse non assumono spontaneamente una dinamica anticapitalistica e socialista convergente con le lotte del movimento operaio se non interviene un soggetto cosciente portatore di un progetto di ricomposizione del fronte di lotta e di un disegno strategico di potere e di trasformazione sociale.

Questa è in effetti una potenzialità su cui lavorare, non già un dato storico da cui partire.

Aggiungo che le forze politiche verdi nate in questi anni hanno esplicitamente rinunciato a lavorare per un progetto in questo senso, limitandosi a cercare di dare alle istanze dell’ambiente una rappresentanza istituzionale tutto meno che antagonistica.

Democrazia radicale o socialismo?

Il pensiero post-marxista nega la validità del marxismo, dei tradizionali riferimenti classisti e della contraddizione capitale-lavoro. Valorizza invece i nuovi movimenti e si pone l’obiettivo di una “democrazia radicale” da acquisire mediante l’estensione dei diritti democratici a nuovi ambiti (ambiente ecc.) come mezzo per imbrigliare e controllare le dinamiche distruttive del capitalismo senza sopprimerlo (fra i più noti teorici post-marxisti si può qui ricordare il tedesco Klaus Offe).

O’Connor fa parecchie concessioni a queste posizioni. Anche per lui vanno oggi declinando il movimento operaio tradizionale e l’importanza delle lotte di fabbrica, mentre svolgono un ruolo crescente i nuovi movimenti sociali. Rispetto alla prospettiva del socialismo non è chiaro se O’Connor la giudichi ancora all’ordine del giorno o se invece anche per lui l’unico orizzonte possibile sia la “democrazia radicale”.

In effetti, in O’Connor non è sempre chiara la distinzione fra la società futura preconizzata dai fondatori del marxismo e il “socialismo realmente realizzato” che della prima è stato per molti aspetti la negazione. Egli afferma dunque che il socialismo tradizionalmente inteso è andato incontro a un fallimento. Esso aveva definito se stesso come il movimento in grado di portare a compimento le promesse del capitalismo in campo politico-sociale (uguaglianza, libertà, fraternità) e in campo economico (abbondanza materiale). Alla prova storica esso ha fallito non solo su tali terreni (ha partorito uno stato burocratico-autoritario e la penuria materiale) ma anche sul piano etico ed ecologico (non ha superato la prassi etico-politica antropocentrica del capitalismo, ha promosso uno sviluppo delle forze produttive incurante della natura) (31).

O’Connor attribuisce questo fallimento ai limiti intrinseci del materialismo storico marxista il quale non avrebbe considerato in modo adeguato il rapporto con la natura (32). Per quanto Marx e Engels abbiamo spesso insistito sul fatto che l’attività materiale degli esseri umani ha due aspetti, e cioè consiste in un rapporto sociale e in un rapporto materiale, il materialismo storico ha trascurato che la vita materiale è anche interscambio tra esseri umani e natura, e che dunque la concezione materialistica della storia non si riduce al condizionamento dei rapporti sociali ma include l’influenza dei rapporti materiali con la natura. A questo proposito O’Connor fa una significativa citazione (33):

“Nel tentativo di sfuggire all’accusa di riduzionismo biologico, il marxismo è caduto nella forma opposta di riduzionismo, che sostiene il prevalere del dominio dei fattori sociali sopra quelli naturali, eliminando il biologico dalla nostra esistenza.”

Questa critica di O’Connor è giusta, a mio parere, se rivolta ad alcune versioni tradizionali, economicistiche o storicistiche, del marxismo; lo è molto meno per quel che riguarda personalmente Marx e Engels e i loro scritti (34).

Anche per O’Connor, comunque, l’orizzonte in cui occorre agire è quello di un approfondimento della democrazia, almeno come passaggio intermedio. Le lotte pongono “una domanda universale […] di democratizzare lo stato, la famiglia, la comunità locale ecc. […]” (35). Altrove si delinea una prospettiva apparentemente più netta, ma in modo vago (36):

“Si potrebbe dire che abbiamo bisogno del socialismo almeno per rendere trasparenti i rapporti sociali di produzione e porre fine alla legge del mercato, al feticismo consumistico, allo sfruttamento degli esseri umani da parte di altri esseri umani; e abbiamo bisogno dell’ecologismo almeno per rendere trasparenti le forze sociali di produzione e per porre fine al degrado, alla distruzione e allo sfruttamento della terra.”

Critica delle strategie verdi

Recentemente O’Connor ha formulato una analisi critica delle cosiddette “strategie verdi”, assente dai suoi scritti precedenti dai quali emergeva un giudizio a mio parere eccessivamente acritico verso questi stessi movimenti. Forse le verifiche degli ultimi anni hanno suggerito a O’Connor un approfondimento dell’argomento che lo ha condotto a precisare alcuni assi che distinguono la strategia ecomarxista (o rosso-verde) dalle tradizionali strategie verdi.

Una riflessione interessante a questo proposito è quella comparsa sul n. 12 di “Capitalism Nature Socialism” (n. 7 di “CNS” italiana, marzo 1993) nell’editoriale dello stesso O’Connor intitolato Think Globally, Act Locally? Towards an International Red Green Movement (37). L’articolo discute lo slogan “pensare globalmente, agire localmente”, da sempre insegna degli ecologisti, con riferimento al quadro politico mondiale scaturito dalla fine del bipolarismo e dalla caduta dell’Urss.

Stiamo vivendo in una fase di accelerata globalizzazione della economia capitalistica mondiale, segnata dalla tendenza alla caduta dei tassi di crescita economica. Il capitale ristrutturandosi per ridurre i costi del lavoro, dell’energia e delle materie prime, nonché il tempo di riproduzione del capitale, tende a centralizzare il potere nelle imprese e nelle banche transnazionali.

L’intensificazione dello sfruttamento del lavoro si accompagna a una nuova disoccupazione di massa, a differenze crescenti nella distribuzione del reddito e a un crescente degrado ecologico poiché la deregulation consente al capitale di ridurre i costi di produzione “esternalizzandoli”, cioè scaricandoli sull’ambiente.

Con l’emergere della crisi ambientale globale i movimenti che vi si oppongono (comunità locali, movimenti verdi, organizzazioni non governative ecc.) tendono ad agire in parallelo alle forze classiste come movimenti di resistenza alla marcia del capitale. In altre parole, vediamo aumentare le contaminazioni e le convergenze fra movimenti “rossi” e “verdi”, intendendo O’Connor col primo termine quelli classisti e col secondo i movimenti ambientalisti (38).

“I contorni di un movimento rosso-verde cominciano dunque a delinearsi, al Nord e al Sud, e consistono in un vasto arco di organizzazioni, movimenti e ideologie da quelle più settarie a quelle politicamente più aperte e libere” (39).

Pensare e agire globalmente e localmente

Per O’Connor è possibile “organizzare un movimento rosso-verde internazionale” capace di superare il divide et impera del capitale e di contrapporgli un fronte unico di soggetti vecchi e nuovi: lavoratori, ambientalisti, contadini, movimenti femministi, cittadini inquinati, popoli nativi ecc., ma a condizione di superare il punto di vista verde “pensare globalmente, agire localmente” per integrarvi il principio “pensare localmente, agire globalmente”, e arrivare a “pensare e agire globalmente e localmente”.

Per i verdi, scrive O’Connor, lo slogan “pensare globalmente, agire localmente” significa pensare agli effetti delle nostre azioni locali sull’ambiente globale; di qui l’insistenza per provvedimenti concreti anche locali per proteggere le specie e gli ecosistemi, ridurre i rifiuti, i consumi energetici, gli sprechi di materie prime ecc. Essi tuttavia (40):

“non offrono nessuno strumento per trasformare il “locale” in “globale”. Il movimento verde non ha alcun sistema per riflettere sui modi in cui il locale è determinato dal globale […]. I verdi inoltre sottovalutano la crescente centralizzazione del potere politico ed economico, e sottovalutano quindi il fatto che gli “ambienti locali” sono sempre più vincolati e determinati dalla ristrutturazione e dal cambiamento economico e politico globale.”

Questa sottovalutazione porta a non considerare che “il divario tra le buone intenzioni e i cattivi effetti indesiderati delle azioni locali tende ad allargarsi”.

O’Connor fa l’esempio della lotta contro i rifiuti tossici nei paesi avanzati: essa spinge il capitale ad aumentare l’esportazione delle sostanze tossiche verso i paesi del Terzo Mondo, dove è più facile eludere leggi, controlli e movimenti ambientalisti. In realtà, le situazioni locali sono al tempo stesso frammentate e interconnesse dalla divisione internazionale del lavoro che è un dato globale. Invece di teorizzare il dualismo fra globale e locale, osserva O’Connor, è utile cercare di capire come le situazioni locali sono in relazione fra loro e con la totalità nel quadro dell’economia mondiale.

“Pensare globalmente, agire localmente è un autoinganno” conclude O’Connor, che “sostituisce il pensiero globale alla strategia globale”. Agire globalmente, invece, significa rendersi conto delle conseguenze non volute delle pratiche verdi e agire di conseguenza.

Il capitale del nord del mondo agisce da sempre globalmente verso il sud, per estrarre da esso materie prime, energia e forza lavoro a buon mercato. Anche alcune proposte benintenzionate del movimento verde volte a contrastare l’impatto ecologico dello sfruttamento capitalistico nel sud del mondo (lo scambio debito contro natura, le proposte di adottare modelli agricoli sostenibili, la rivalutazione delle tecnologie indigene ecc.) in realtà rischiano di legittimare l’esistente divisione del lavoro e le condizioni di miseria del sud in nome di una battaglia comune in difesa della natura planetaria.

Scrive O’Connor (41):

“’Agire globalmente’ richiede consapevolezza di pensiero e di azione strategica, non solo di fronte ai comportamenti socialmente ed ecologicamente disastrosi di una particolare impresa o industria ma anche di fronte alle agenzie internazionali, le cui decisioni riguardano milioni di persone. Gli obiettivi prioritari sono, sotto questo profilo, il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca mondiale, il Gatt (accordo generale sulle tariffe e il commercio) e le nuove entità regionali (la Cee, la Nafta, aerea di libero scambio del Nordamerica, e l’impero finanziario informale detenuto dal Giappone in Asia). Le loro politiche sul debito, l”aggiustamento strutturale’ e gli investimenti infrastrutturali nel Terzo Mondo, e le loro regole per il governo del commercio regionale e mondiale hanno creato incalcolabili danni ecologici e miseria umana.

“’Agire globalmente’ significa costringere il Fmi e le altre agenzie economiche mondiali non-democratiche a rendere conto dei loro programmi e delle loro politiche, pretendere che le politiche future siano rapportate alle necessità dei popoli e delle fragili ecologie mondiali, piuttostoché agli interessi delle banche centrali, ai ministri del Tesoro e ai monopoli finanziari privati.”

Porsi sul terreno di un’azione globale richiede la costruzione di “un movimento ambientalista di tipo nuovo, un movimento rosso-verde” dice O’Connor, un obiettivo difficile ma stimolante.

Questo movimento in realtà già esiste, giudica O’Connor; è fatto dai milioni di persone che in tutto il mondo sono impegnate nelle lotte sociali e ambientali le quali sempre più comprendono i nessi globali dei processi responsabili del deterioramento delle condizioni sociali e ambientali. Solo che agiscono ancora sparpagliate, frammentate, disorganizzate sul piano internazionale.

Una nuova internazionale

“Sviluppare e rafforzare i collegamenti tra i gruppi e gli attivisti locali, e tra gli intellettuali e gli studiosi rosso-verdi, richiede un movimento internazionale – una ‘quinta internazionale’. Questa nuova internazionale dovrebbe avere profonda conoscenza sia dell’ecologia che dell’economia capitalistica: la sua ‘linea’ dovrebbe essere non ‘celebrare le differenze’ ma ‘quel che si ha in comune’; il suo obiettivo, costruire un punto di vista internazionale e coordinare le strategie politiche globali” (42).

Occorre lavorare senza settarismi in questa direzione, suggerisce O’Connor; non abbiamo nulla da perdere e tutto da guadagnare.

Credo che nei suoi termini generali, l’analisi critica delle strategie verdi tradizionali svolta da O’Connor e la sua indicazione dell’esigenza di un movimento internazionale, anzi di una “nuova internazionale” capace di integrare la tradizione marxista (rossa) e la cultura ecologica (verde), siano pienamente condivisibili.

Anche su questo terreno – quale che sia la validità delle singole proposte concrete di O’Connor – egli segnala un problema reale, mette a nudo un grave ritardo che non è solo dei verdi – sia chiaro – ma di tutte le forze classiste e anticapitalistiche su scala mondiale.

Sono problemi che si pongono anche a Rifondazione comunista.

Anzi, il recupero di storici ritardi sui temi ecologici e sostanziali passi avanti nella ricostruzione di un quadro di riferimento internazionale, sono terreni su cui si misurano oggi le potenzialità e il futuro del nostro progetto di rifondazione di un pensiero e di una forza comunista la quale non può, in prospettiva, rimanere confinata nell’orizzonte nazionale, pena condannarsi a restare un fenomeno, per quanto positivo, residuale. Ma questo pone altri problemi che esulano dal tema presente.

I limiti di una riflessione utile

James O’Connor ha senza dubbio il merito di aver cercato di rilanciare con rigore un pensiero marxista sulla crisi ecologica, e di averlo fatto ponendosi il problema di farne una riflessione collettiva, internazionale, in rapporto con i movimenti concreti, non chiusa su se stessa ma aperta al confronto (attraverso la rete internazionale di riviste di cui si è detto) con altre tendenze (ecologismo, femminismo ecc.) e con tutte le esperienze politiche che si muovono nella ricerca di una alternativa al capitalismo.

Egli è riuscito a darci una cornice teorica che interpreta in modo acuto e penetrante molte recenti trasformazioni delle società capitalistiche contemporanee: la combinazione fra crisi economica e crisi ecologica, la contraddizione capitale-ambiente, il ruolo dello stato, i limiti intrinseci delle politiche ambientali capitalistiche, la natura dei conflitti localistici, il relativo declino del movimento operaio tradizionale e le radici dei nuovi movimenti sociali ecc. Possiamo dunque dire che l’ecomarxismo ci consente di leggere più chiaramente molti dei conflitti del presente.

Tuttavia diversi aspetti del suo ragionamento non sono del tutto convincenti.

1. Il primo limite che vedo nel suo approccio è lo stesso che viene segnalato da Victor Toledo su “CNS” n. 6, nel dibattito sulla seconda contraddizione, secondo il quale O’Connor propone una spiegazione della crisi ecologica “in una logica sostanzialmente economica”. Questo approccio appare però riduttivo (43):

“La crisi ecologica è solo conseguenza di una contraddizione economica o nasce da un insieme di cause altamente complesso, che includono la tecnologia, la demografia, la geografia, la cultura, l’ideologia e le forme di proprietà? […]. Stiamo affrontando solo una crisi del sistema economico, oppure la crisi di una civiltà (che significa mettere in discussione non la razionalità economica, ma un intero ‘modo di vita’)?”

Personalmente non ho dubbi: benché al cuore della crisi attuale ci sia il modo di operare del capitale, essa è più di una crisi del sistema economico-sociale capitalistico: essa è il cul de sac del modello di civiltà e di cultura occidentali che per certi aspetti non risalgono solo alla rivoluzione industriale e all’ascesa del capitale, ma almeno alla Conquista delle Americhe, se non alla affermazione del cristianesimo.

Se questo è vero, cambiare o sostituire il sistema economico-sociale è necessario ma non è sufficiente.

Dal punto di vista teorico credo che il recupero del marxismo sia anch’esso necessario ma non sufficiente. Occorre passare il vaglio all’interno del marxismo stesso; abbandonare gli elementi che in esso sono compromessi con l’ideologia borghese del progresso e del dominio tecnologico sulla natura; riprendere invece e sviluppare gli elementi che mettono in dubbio le certezze di questa ideologia e che propugnano la riconciliazione con la natura, in sintonia ad esempio con il naturalismo romantico-rivoluzionario del giovane Marx (44).

Credo poi che un ripensamento del marxismo in relazione alla crisi ecologica debba valorizzare i risultati di quelle scienze – la termodinamica, l’ecologia – il cui livello di sviluppo non era, ai tempi di Marx e di Engels, tale da offrire un solido fondamento alla costruzione di una teoria della produzione sociale capace di integrare adeguatamente il tema del ricambio organico con la natura e quello dei vincoli ambientali.

2. Un secondo elemento poco convincente del lavoro di O’Connor è una certa superficialità e disinvoltura nel ricostruire il pensiero di Marx e di Engels sulle questioni ambientali, ricostruzione con cui spesso non sono d’accordo (45). Un più serio lavoro di scavo nei testi dei classici gli avrebbe consentito di portare alla luce altri elementi utili e stimolanti.

3. Infine, altri motivi di perplessità sorgono in relazione alla sua proposta politica: non sono ben definiti gli interlocutori reali della sua proposta di nuova internazionale rosso-verde, né la sua base politico-programmatica: dovrebbero farne parte le attuali formazioni politiche verdi sorte in giro per il mondo? o forse solo le associazioni di base? quale ruolo dovrebbero svolgere le forze politiche “rosse”? e quali: anche i partiti socialdemocratici o solo le formazioni alla loro sinistra? e quale orizzonte strategico dovrebbe unificarle: la conquista di una democrazia radicale o la realizzazione di una alternativa socialista fondata sul potere dei lavoratori?

Meglio per il momento lasciare aperte queste domande.

(maggio 1993)

Note

1) Vedi in proposito Marxismo ed ecologia, in particolare i primi tre capitoli; e Marxismo ed ambiente, che rielabora (fra altri materiali) la relazione del secondo incontro su “Marx e l’ambiente” promosso da Punto Rosso di Paderno Dugnano.

2) Anche molti studiosi marxisti che si sono occupati di ecologia, vedi in Italia Laura Conti, hanno espresso spesso analoghe critiche verso il marxismo.

3) In Italia, alla fine degli anni ottanta, questa divaricazione si è manifestata anche in Democrazia proletaria come rottura e fuoriuscita di un’ala che è confluita nei Verdi.

4) Non che in precedenza fossero mancati del tutto studi, scritti e convegni sulle questioni ambientali ispirate al marxismo. Una certa fioritura si era anzi avuta nel corso degli anni settanta, e anche con un certo impatto. Ma il grosso del movimento operaio tradizionale e dei suoi quadri intellettuali e militanti era rimasto abbastanza estraneo a queste novità.

5) Il termine “ecomarxismo” è stato usato per la prima volta da Ben Agger in Western Marxism. An Introduction: Classical and Contemporary Sources, Santa Monica, California, 1987 (si veda il saggio sottocitato di O’Connor, alla nota 11). E’ stato ripreso l’anno seguente dall’economista marxista statunitense James O’Connor in Capitalism, Nature, Socialism: A Theoretical Introduction, tradotto in italiano da G. Ricoveri col titolo L’ecomarxismo. Introduzione a una teoria (Datanews Editrice, Roma, 1989). Nell’accezione di O’Connor il termine designa l’uso di categorie marxiste (rivisitate) per spiegare la crisi ecologica nel contesto del capitalismo. Dopo l’apparizione del saggio citato il termine ha cominciato ad essere utilizzato in Italia per designare lo specifico approccio teorico di O’Connor, divulgato attraverso le “riviste di ecologia socialista” nate sotto i suoi auspici in diversi paesi (le quali peraltro ospitano anche contributi di diversa ispirazione). La prima di queste riviste è stata “Capitalism Nature Socialism”, comparsa in America nell’ottobre 1988. Quindi “Ecologìa Politica”, fondata a Barcellona dall’economista Juan Martinez-Alier, autore di Economia ecologica (Garzanti, 1991). L’edizione italiana, giunta al terzo anno (e all’ottavo numero), “Capitalismo Natura Socialismo”, è uscita per la prima volta nel marzo 1991 ad opera di alcuni studiosi legati al “Manifesto” fra i quali Giovanna Ricoveri, Valentino Parlato e Pierluigi Sullo. Per finire, è uscita l’anno scorso l’edizione francese, “Economie Politique”, diretta da Jean-Paul Deléage, fisico e storico delle scienze noto anche Italia come autore (con Jean-Claude Debeir e Daniel Hémery) di Storia dell’energia. Dal fuoco al nucleare, Edizioni del Sole 24 Ore, Milano, 1987), già militante negli anni settanta/ottanta della League communiste di orientamento trotskista, oggi responsabile per il programma dei Verts. In termini meno rigorosi, col termine ecomarxismo si indicano più genericamente i tentativi di coniugare marxismo ed ecologia, ossia di leggere con gli strumenti del marxismo le attuali problematiche ecologiche. In questa trattazione utilizziamo il termine essenzialmente in riferimento al pensiero di James O’Connor, pur con qualche sguardo al vivace dibattito che si è acceso in questi ultimi anni fra gli studiosi e i militanti marxisti sui temi della crisi ecologica e sulla pertinenza delle categorie marxiste per l’analisi di novità storiche di tanto rilievo.

6) In “CNS”, n. 1, p. 8.

7) In “CNS”, n. 1, pp. 11-12.

8) In “CNS”, n. 1, p. 12.

9) In “CNS”, n. 1, p. 13.

10) In “CNS”, n. 1, p. 15.

11) “Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali” (K. Marx, prefazione a Per la critica dell’economia politica, 1859).

12) Questa dialettica forze produttive-rapporti di produzione è così riassunta da Marx: “La contraddizione esposta in termini generali è questa: il capitale è esso stesso la contraddizione in processo. Il capitale si manifesta sempre più come una potenza sociale – di cui il capitalista è l’agente – che ha ormai perduto qualsiasi rapporto proporzionale con quello che può produrre il lavoro di un singolo individuo; ma come una potenza sociale, estranea, indipendente, che si contrappone alla società come entità materiale e come potenza dei capitalisti attraverso questa entità materiale. La contraddizione tra questa potenza generale sociale alla quale si eleva il capitale e il potere privato del capitalista sulle condizioni sociali della produzione, si va facendo sempre più stridente e deve portare alla dissoluzione di questo rapporto ed alla trasformazione delle condizioni di produzione, in condizioni di produzione sociali, comuni, generali. Questa trasformazione è il risultato dello sviluppo delle forze produttive nel modo capitalistico di produzione e della maniera in cui questo sviluppo si compie. La produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive, indipendentemente dal valore e dal plusvalore in esso contenuto, indipendentemente anche dalle condizioni sociali nelle quali essa funziona; ma nello stesso tempo tale produzione ha come scopo la conservazione del valore-capitale esistente e la sua massima valorizzazione. Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono. Ogni determinata forma storica del processo lavorativo ne sviluppa la base materiale e le forme sociali. Quando è aggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata viene lasciata cadere e cede il posto ad un’altra più elevata. Si riconosce che è giunto il momento di una tale crisi quando guadagnano in ampiezza e in profondità la contraddizione e il contrasto tra i rapporti di distribuzione e quindi anche la forma storica determinata dei rapporti di produzione ad essi corrispondenti, da un lato, e le forze produttive, capacità produttiva e sviluppo dei loro fattori, dall’altro. Subentra allora un conflitto tra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale.” (Karl Marx, cito qui dalla rivista marxista “La contraddizione”; si veda anche Il capitale, Editori Riuniti, Roma, 1974, III, p. 302).

13) “Questa esposizione intende porsi come punto di partenza per una teoria “eco-marxista” delle contraddizioni tra forze e rapporti capitalistici di produzione e condizioni di produzione” scrive O’Connor in L’ecomarxismo, p. 9.

14) “La categoria chiave, per il tema qui trattato, è quella delle “condizioni di produzione”, mutuata da Carlo Marx e Carlo Polanyi” (O’Connor, in “CNS”, n. 6, p. 9). Karl Polanyi, studioso americano di origine ungherese, non marxista ma indubbiamente influenzato dal marxismo, ha dato un contributo critico importante alla comprensione del carattere socialmente ed ecologicamente distruttivo del mercato e dei meccanismi capitalistici nell’opera La grande trasformazione, in cui esamina la formazione del mercato autoregolantesi e le sue conseguenze. Scrive O’Connor: “Nel 1944, Karl Polanyi pubblicò il suo capolavoro, The Great Transformation, che si occupa dei modi in cui la crescita del mercato capitalistico danneggia o distrugge le sue stesse condizioni sociali e ambientali […]. Il lavoro di Polanyi resta un punto luminoso in un universo di stelle spente e di buchi neri.” (L’ecomarxismo, p. 11), ovvero le varie versioni del pensiero “ecologista” borghese e romantico degli anni sessanta e settanta…

15) Secondo Marx, prima dello sviluppo delle società divise in classi gli uomini usufruivano in forma collettiva del possesso delle proprie condizioni di lavoro. Nel Capitale, parlando della cooperazione egli scrive: “La cooperazione nel processo di lavoro che troviamo predominante agli inizi dell’incivilimento dell’umanità, presso popoli cacciatori o, per esempio, nell’agricoltura delle comunità indiane, poggia da una parte sulla proprietà comune delle condizioni di produzione, dall’altra sul fatto che il singolo individuo non si è ancora strappato dal cordone ombelicale della tribù o della comunità, come l’ape singola non si stacca dall’alveare.” (Il capitale, I, p. 375-6). La separazione del lavoratore dalle condizioni di produzione (dalle sue condizioni di lavoro) è risultato del processo storico che porta alla instaurazione delle società di classe. Le diverse forme sociali, per Marx, si distinguono dal modo in cui i rapporti sociali riuniscono, sotto il controllo della classe dominante, i lavoratori alle loro condizioni di lavoro (cioè riuniscono le condizioni di produzione): “Quali che siano le forme sociali della produzione, lavoratori e mezzi di produzione restano sempre i suoi fattori. Ma gli uni e gli altri sono tali soltanto in potenza nel loro stato di reciproca separazione. Perché in generale si possa produrre, essi si devono unire. Il modo particolare nel quale viene realizzata questa unione distingue le varie epoche economiche della struttura della società. Nel caso attuale la separazione del libero lavoratore dai suoi mezzi di produzione è il punto di partenza dato ed abbiamo visto come e a quali condizioni entrambi vengono riuniti nelle mani del capitalista, cioè come modo produttivo di esistenza del suo capitale. Il processo reale nel quale insieme confluiscono i fattori personali e i fattori oggettivi della produzione di merci così riuniti, il processo produttivo, diviene perciò esso stesso una funzione del capitale, processo capitalistico di produzione.” (Il capitale, II, p. 41).

16) In “CNS”, n. 6, p. 10.

17) Abbiamo segnalato alcuni di questi passi in scritti precedenti: Marxismo ed ecologia, NEI, Milano, 1989; Marx-Engels-Podolinskij: una traccia teorica perduta? in “Giano”, n. 10, 1992. Un tema già ben presente nei fondatori del marxismo è quello della città. L’ambiente urbano è un esempio particolarmente pregnante dell’importanza e del ruolo della categoria delle condizioni di produzione con riferimento al degrado ambientale indotto dal capitalismo. Nell’ambiente urbano l’accumulazione del capitale agisce sia sulle condizioni naturali, sia sulle condizioni personali, sia sulle condizioni comunitarie della produzione, in parte assoggettandole alle leggi di mercato, in parte assoggettandole per via politica. Nella crisi e nei conflitti urbani si intrecciano la lotta contro la capitalizzazione della natura, nonché contro la subordinazione delle condizioni comunitarie alla logica del capitale. La natura vi compare da un lato come suolo, quasi mera dimensione spaziale che fa da base e unifica la città e le sue diverse funzioni; dall’altro come ambiente vitale (aria, acqua, spazi verdi ecc.). Le lotte urbane hanno avuto tradizionalmente come posta in gioco la pianificazione urbana, i servizi urbani collettivi, gli alloggi, gli spazi verdi ecc., e hanno cercato di opporre la logica del soddisfacimento dei bisogni materiali e culturali delle persone e la fruizione collettiva delle risorse alla logica della speculazione e della rendita e alla appropriazione privata delle risorse collettive. Su questi temi troviamo già in Marx e in Engels pagine penetranti: ad esempio, le descrizioni e l’analisi delle città industriali inglesi della prima metà del diciannovesimo secolo in La situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels, l’analisi dei meccanismi della rendita urbana e della speculazione edilizia nello scritto di Engels sulla Questione delle abitazioni; oppure le pagine di Marx nel Capitale e di Engels nell’Anti-Dühring che denunciano la natura antiecologica dell’urbanesimo capitalistico.

18) L’ecomarxismo, p. 27.

19) In “CNS”, n. 6, p. 10.

20) In “CNS”, n. 6, pp. 10-11.

21) I marxisti hanno a lungo ignorato questi aspetti e anche Marx, secondo O’Connor, li ha trattati molto di sfuggita. Marx, in particolare, non avrebbe mai considerato che gli effetti distruttivi del capitalismo sulle condizioni di produzione configurano una sorta di “seconda” contraddizione intrinseca del capitalismo che si affianca e si intreccia con la “prima”, quella capitale-lavoro: “Marx ha scritto poco sui modi in cui il capitale si autolimita, mettendo in discussione le sue stesse condizioni sociali e ambientali […]. Né Marx ha scritto qualcosa sul rapporto tra la dimensione materiale e la dimensione sociale delle condizioni di produzione, a parte la trattazione della rendita fondiaria”. Queste affermazioni di James O’Connor sono, a mio parere, troppo drastiche. Ho esaminato la questione nel saggio su “Giano” dove ho cercato di mostrare che Marx aveva presenti queste problematiche e ha anche proposto un quadro analitico utile per cominciare ad analizzarle. D’altra parte, è anche vero che, all’epoca, non si avevano ancora le conoscenze scientifiche e le nozioni teoriche sufficienti per andare molto lontano. Peraltro, O’Connor stesso ricorda pareri significativi espressi da Marx su problemi collegati alla crisi ecologica: Marx sapeva che carenze nelle condizioni di produzione possono assumere la forma di crisi economica (ad esempio i cattivi raccolti); che esistono alcune barriere alla produzione realmente esterne al modo di produzione (che dipendono cioè dalla natura in quanto tale, non dai limiti propri del modo di produzione nel quale essa è impiegata); “che l’agricoltura e la silvicoltura capitalistiche recano danno alla natura, così come lo sfruttamento capitalistico danneggia la forza lavoro umana” (L’ecomarxismo, pp. 12-13).

22) Si vedano in proposito i saggi recentemente pubblicati in America latina 1492-1992. La conquista della natura, a cura del Nacla, traduzione ed edizione italiana a cura di “Quetzal” (Milano, aprile 1993). Il fascicolo è interamente dedicato alle conseguenze ecologiche della Conquista e di cinquecento anni di sfruttamento imperialistico.

23) In “CNS”, n. 6, pp. 12-13.

24) In “CNS”, n. 6, p. 14.

25) In “CNS”, n. 6, p. 14.

26) L’ecomarxismo, p. 36-7, 40.

27) “Il pensiero post-marxista postula la democrazia radicale e cerca di portare a termine l’autopsia finale del socialismo” (“CNS”, n. 4, p. 39).

28) L’ecomarxismo, p. 45.

29) In “CNS”, n. 6, p. 17.

30) In “CNS”, n. 1, p. 14.

31) In “CNS” n. 4, pp. 45-6.

32) “Il primo limite del materialismo storico è che la concezione tradizionale delle forze produttive ignora, o minimizza, il fatto che queste forze sono sociali allo stato naturale, e presuppongono il metodo della cooperazione, che è caratterizzato da particolari valori e norme culturali. Il secondo limite è che la concezione tradizionale delle forze produttive minimizza o ignora il fatto che tali forze sono insieme naturali e sociali.” (“CNS”, n. 4, p. 46).

33) In “CNS”, n. 4, p. 48; il passo è di Kate Soper, una studiosa propugnatrice di una “biologia sociale”, cosa ben diversa dalla sociobiologia.

34) Si vedano gli scritti segnalati alla precedente nota 18.

35) L’ecomarxismo, p. 43.

36) In “CNS” n. 4, p. 49.

37) Il punto interrogativo manca inspiegabilmente nella versione italiana: Pensare globalmente, agire localmente. Per un movimento internazionale rosso-verde (“CNS”, n. 7, p. 48-55).

38) Va detto che James O’Connor utilizza questi riferimenti con criteri piuttosto larghi. Fra i “rossi” include anche i sindacati e i partiti socialdemocratici che “accettano le problematiche verdi”.

39) In “CNS”, n. 7, p. 49.

40) In “CNS”, n. 7, pp. 50-51.

41) In “CNS”, n. 7, p. 53.

42) In “CNS”, n. 7, pp. 54-55.

43) V. Toledo, “CNS”, n. 6, pp. 25-26.

44) Vedere le osservazioni in proposito contenute in Marxismo e ambiente, pubblicato in questo blog.

45) Dopo la stesura di questo lavoro, sul n. 8 di “CNS” (maggio-agosto 1993) è comparso un intervento meritevole di segnalazione (Giovanni Mazzetti, Da Marx all’Ecomarxismo. E’ vero progresso?) che “fa le pulci” con severità e rigore alle disinvolte critiche di James O’Connor a Marx. Condivido pienamente le osservazioni “marxologiche” di Giovanni Mazzetti. Nella replica, in effetti, O’Connor sposta il tiro sulla presunta esistenza di differenze tra il Marx dei Manoscritti e dell’Ideologia tedesca e il Marx del Capitale (che personalmente non vedo così significative), o sui limiti di approfondimento della elaborazione marxiana in materia di cultura e di relazioni economia/ambiente (che naturalmente esistono, avendo scritto Marx oltre un secolo fa, ma che non giustificano le ricostruzioni sommarie, e qualche volta liquidatorie, del suo pensiero.

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