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MISTICA E MITOLOGIA DEL PARTITO

Massima crisi del capitalismo, massima crisi di direzione del movimento operaio.
Da sette anni la più profonda crisi capitalista degli ultimi 80 anni sconvolge lo scenario mondiale seguendo una direttrice di sviluppo diseguale e combinato che conosce picchi e rallentamenti in modo disomogeneo in tutto il mondo.
L’economia mondiale è immersa in una potente crisi contraddittoria che la pone di fronte ad un impasse che non può risolvere, come già negli anni ’30, con l’aumento della spesa pubblica e che ci lascia come eredità immediata, per quel che concerne il baricentro europeo della crisi, il recente passato di politiche di austerità, che sono un modo elegante per dire aggressione padronale al mondo del lavoro, ai suoi diritti e ai suoi salari. La risposta del proletariato internazionale a questo stato di crisi permanente del capitalismo è stata caratterizzata da una dinamica particolarmente difforme da continente a continente, da stato a stato, con una peculiare combinazione di processi di ascesa in alcune zone e di profonda crisi e di regresso in altre, ma con un filo rosso fondamentale: l’assenza di un progetto comunista, la consapevolezza della necessità del superamento rivoluzionario del capitalismo e dell’apertura della transizione al socialismo.
Di fronte alla crisi storica del capitalismo, il proletariato si mostra completamente invischiato nella più profonda crisi della sua direzione che segna ad un tempo la perdita dell’egemonia sulla globalità delle masse oppresse, lo sviluppo di populismi reazionari di massa e infine lo sviluppo di movimenti di massa democratico-progressisti che si caratterizzano anzitutto per la marginalità della presenza del movimento operaio organizzato al loro interno, come il movimento anti-Erdogan in Turchia o i movimenti di massa sviluppatisi in Brasile.
La crisi del capitalismo si mischia quindi alla crisi storica del movimento operaio internazionale, che è in primo luogo la crisi della direzione del movimento operaio stesso.

La crisi della direzione del movimento operaio

Che cosa si intende nello specifico con questa formulazione?
La direzione del movimento operaio non è questa o quella soggettività d’avanguardia che si proclama in tal senso, ma è chi materialmente guida la maggioranza della classe operaia. L’attualità della fase italiana mostra distintamente questa dinamica e la sua tragedia. Il vuoto politico impostosi a sinistra dopo anni di tradimenti e compromissioni da parte delle principali organizzazioni politiche che si richiamano al comunismo ha consegnato la guida del movimento operaio nelle mani della CGIL e della FIOM, che hanno di fatto assunto negli ultimi anni il ruolo di supplenti, stante l’assenza di una guida politica. Ruolo per altro che assolvono in modo del tutto inadeguato, da un lato perché la CGIL è condizionata dalla strategia concertativa di fondo, funzionale alla sopravvivenza della sua burocrazia e della sua maggioranza, dall’altro perché la FIOM è condizionata dall’egemonia della sua burocrazia, capace di terribili tradimenti anche nel recente passato (Termini Imerese ad esempio). Nonostante ciò la FIOM ancora gode di un discreto prestigio tra le masse operaie, prestigio che però non ha voluto investire in una svolta radicale della sua azione o della sua prospettiva, ma che utilizza invece per tenere ancora a freno e “raffreddata” la disponibilità operaia alla mobilitazione di massa e ad una svolta radicale sui metodi stessi di mobilitazione, come dimostra la recentissima vicenda della AST di Terni. L’implosione dello stalinismo se da un lato ha aperto un enorme spazio politico, liberandolo dalla guida dei partiti stalinisti e dai sindacati da loro controllati, dall’altro, rilanciando la questione cruciale della direzione e del progetto comunista, inevitabilmente ha aperto spazi anche a riformisti e centristi. Le questioni cruciali della presa del potere e del governo operaio sono state sistematicamente rimosse per rigetto, le sinistre riformiste hanno imbarcato integralmente la critica liberale e borghese allo stalinismo, traducendola nell’eguaglianza tra bolscevismo e stalinismo e ripudiando quindi ogni prospettiva della presa del potere. In Italia, questa linea ha segnato profondamente tutta l’esperienza di Rifondazione Comunista, da Bertinotti a Ferrero.
La debolezza delle sinistre politiche e la pochezza delle loro proposte politiche riformiste, indebolite ancor di più da anni di tradimenti e di svendita in cambio di ministeri o assessorati e l’inadeguatezza delle direzioni sindacali, strette intorno ai loro interessi di bottega, sono una combinazione letale, che rischia di segnare la prossima fase con un indelebile segno negativo.
Questo quadro non fa che mostrare la crucialità della questione della direzione del movimento operaio, che prima ancora di essere il problema di avere materialmente qualcuno alla guida del movimento operaio (perché questo, eventualmente, è un vuoto che si riempie), è il problema di avere una proposta di guida del movimento operaio che sia un progetto politico di superamento rivoluzionario del capitalismo, di governo dei lavoratori e di apertura della fase transitoria al socialismo.

Perché un Partito

La contraddizione tra capitale e lavoro è il cuore delle dinamiche che si esplicano intorno al modo di produzione capitalista, dando forme specifiche tanto al sistema produttivo, quanto a tutte le forme sovrastrutturali. L’accumulazione capitalista tramite l’estrazione del plusvalore da un lato e la difesa dei salari da parte dei lavoratori dall’altro sono il nocciolo centrale del modo in cui il mondo funziona nella società capitalista. La struttura stessa del capitalismo, fatta di cicli e di crisi, porta i padroni a tagliare i salari e a peggiorare le condizioni di lavoro e di conseguenza gli operai a scontrarsi con loro per difendere le proprie condizioni di vita.
Questa lotta però non evolve automaticamente nella costruzione di un nuovo modello di società, non si muta spontaneamente in una socializzazione del lavoro. La struttura produttiva del capitalismo lavora incessantemente per trasformare se stessa, per rivoluzionare continuamente i mezzi di produzione, in prima istanza per aumentare il profitto, ma che come conseguenza porta con se anche lo stravolgimento della composizione della classe e della sua identità sociale. I capitalisti usano tutto il potere a loro disposizioni, economico, sociale, culturale, politico, per imporre la riproduzione e l’estensione del modo di produzione capitalista. Ma se la lotta di classe non si traduce automaticamente in lotta per il superamento del capitalismo non è solamente per l’azione continua volta alla riproduzione che il capitalismo esercita su se stesso e dunque su tutti gli esseri umani che vivono dentro il suo recinto.
La consapevolezza della necessità della trasformazione in senso socialista della società non è un dato che sorge spontaneamente dalla lotta di classe, ma un progetto che si costruisce politicamente.
Lo strumento per costruire questa consapevolezza è il partito della rivoluzione, il partito comunista.

Mitologia e mistica del partito

Di fronte al vuoto politico che si è creato e alla necessità di una guida alternativa, rivoluzionaria, della classe operaia, il tipo di risposte che organizzazioni politiche, singole avanguardie o compagni coscienti senza collocazione danno sono le più diversificate, molte delle quali rimuovo, aggirano, ignorano o ancora peggio affrontano la questione del partito con un atteggiamento che oscilla tra il mistico ed il mitologico.

«Dobbiamo riunirci tutti in un grande partito»

Il sentimento del bisogno di una cosiddetta unità a sinistra nasce molto spesso dalla dogmatica convinzione che “più grande è meglio”. Questo tipo di impostazione è un retaggio del togliattismo e della dottrina del partito di massa che riesce ancora oggi ad avere una grande influenza sull’immaginario persino delle più recenti generazioni dei militanti della sinistra italiani. L’idea è che il partito di massa, il cosiddetto “partito nuovo”, in sostanza il modello del PCI togliattiano, sia il metodo universale di costruzione di un partito comunista. In realtà quel metodo, quella costruzione, era integralmente al servizio di un progetto di compatibilità con la repubblica italiana, un progetto di riforme all’interno del capitalismo e in definitiva un progetto di competizione elettorale con l’altro grande partito repubblicano di massa, ossia la Democrazia Cristiana. La struttura stessa del PCI serviva a rimuovere la questione dell’egemonia sulla maggioranza della classe lavoratrice, a rimuovere in ultima istanza, la questione della presa del potere. Questa concezione va combattuta non per una difesa consolatoria dei piccoli numeri o per atteggiamento settario, ma perché una diversa impostazione è necessaria per un diverso obbiettivo. L’anelito alla unificazione dei partiti che legittimamente o meno si rifanno al comunismo è un dato caratterizzante per converso gli ultimi anni della storia recente segnata da una progressiva frammentazione del quadro delle organizzazioni comuniste o sedicenti tali, a partire dalla crisi inarrestabile di Rifondazione Comunista. Questa richiesta di unità a sinistra è un dato che non può essere trattato con sufficienza o con presunzione, perché è sintomo del grande disorientamento politico che domina lo scenario delle avanguardie operaie e politiche in Italia. Fuori da ogni retorica, tutti i progetti di riunificazione portati avanti negli anni passati si sono contraddistinti per l’essere poco più di un mero cartello elettorale (Arcobaleno, Ingroia, Tsipras) o la riproposizione di un progetto politico identico, senza bilancio degli errori del passato, senza una rottura con le dirigenze compromesse, senza, soprattutto, una svolta sulle prospettive politiche, come è stata la Federazione della Sinistra. Partiamo da un punto: la prospettiva della confluenza delle varie sigle in un unico partito è un falso problema o, in altre parole, è una domanda mal posta. L’unità dei comunisti si fa sul programma a partire dall’indipendenza di classe. Non c’è fusione possibile tra chi ha un programma rivoluzionario e chi ha un programma riformista o neokenesyano, non c’è fusione possibile tra chi è compromesso in modo irrimediabile con la borghesia, avendo assunto ministeri su ministeri, sostenuto governi borghesi nazionali e locali e continuando ad avere una linea di alleanza con i partiti della borghesia ancora oggi, dove questi, in modo del tutto opportunista, continuano a concedergli spazio. Il punto non è solamente una questione di retaggio politico che le organizzazioni compromesse si portano dietro, è anche una questione di prospettiva. L’apertura di percorsi unificatori dei partiti rivoluzionari è senza dubbio un percorso più che auspicabile, ma non si può derogare su questo. La proposta di fondere i partiti che in modo più o meno confuso si rifanno al comunismo è molto spesso poco più che un’operazione di nostalgia, quando non è un vero e proprio tentativo di sopravvivenza di un ceto dirigente esautorato attraverso il tentativo di ingrossare le maglie dell’organizzazione che intendono continuare a dirigere. L’eventuale percorso di unificazione deve confrontarsi con il progetto, con la prospettiva, con il programma: il programma è per noi l’obbiettivo della rivoluzione e della conquista del potere, la dittatura del proletariato e la democrazia consiliare, il progetto di una transizione ad un modo di produzione socialista. Compito principale dei comunisti in questa specifica fase storica è quello di raggrupparsi attorno a questo programma, conquistare ad esso l’avanguardia della classe operaia e in prospettiva la sua maggioranza.
La costruzione del Frente de Izquierda y de los Trabajadores in Argentina, che ha posto all’interno di un processo riunificatore ben tre partiti rivoluzionari, con un programma che non fa sconti al riformismo e non deroga sulle questioni fondamentali che abbiamo qui ricordato, dimostra che tali processi sono oltre che auspicabili anche reali là dove vi sono le condizioni (prima fra tutte l’esistenza di più partiti disponibili a condividere un programma di rivoluzione). Che il FIT superi al più presto la sua attuale struttura federativa e apra un percorso di reale costruzione di un grande partito rivoluzionario è un punto di svolta per la lotta di classe internazionale che non può più essere rinviato.

«Il vostro partito non mi rispecchia al cento per cento»

L’idea diffusa che l’adesione ad un partito si misuri con la sovrapposizione al millesimo delle proprie convinzioni politiche con l’insieme delle posizioni del partito stesso dimostra ancora una volta come l’eredità dello stalinismo in salsa italiana sia ancora molto forte. Il PCI si fondava sulla strenua limitazione del dibattito interno e del diritto al dissenso e sullo strapotere della segreteria generale. Molti compagni storici, ma anche nuove avanguardie di recente formazione, per non contare di un numero indefinibile di compagni inattivi, ritiratisi dalla militanza dopo anni di tradimenti delle dirigenze riformiste, sono ancora immersi in un immaginario che vede la tacita sottomissione alla linea della segreteria (quando non del segretario) uno dei punti centrali del funzionamento di un partito. Nell’immaginario il partito comunista è un blocco granitico senza alcuna dialettica interna ne esterna, in cui la rivoluzione proletaria è un richiamo tanto costante quanto vuoto e retorico. Questa tendenza si esprime anche in un forte leaderismo, in cui il capo incarna il programma – molto spesso più su un principio di fiducia che di condivisione politica – e l’adesione si misura nell’identificazione delle aspirazioni e delle convinzioni del singolo militante con quanto il capo riesce ad evocare. Ma c’è di più. C’è una forte distorsione nella percezione di quello che è il ruolo del partito in rapporto alla coscienza rivoluzionaria. C’è infatti in questa impostazione un forte idealismo: si concepisce la coscienza rivoluzionaria come qualcosa di astratto e astorico a cui aderire individualmente prima di prendere contatto con il partito rivoluzionario. Ma il partito non è il luogo in cui la coscienza della necessità del superamento in senso socialista del capitalismo viene gelosamente custodita da vestali e sacerdoti; al contrario, è il luogo in cui questa coscienza si definisce e attraverso cui si riverbera sulla classe. Ogni deviazione da questo principio porta a diverse nefaste conclusioni: da un lato una chiusura settaria del partito, eternamente in attesa che le coscienze rivoluzionarie si sviluppino spontaneamente e si avvicinino già integralmente formate al partito. Dall’altro, all’esterno, il rifiuto del contatto con il partito da parte di gruppi, singoli o collettivi, spaventati all’idea che alcune delle loro posizioni possano non trovare condivisione nella maggioranza del partito. A questa concezione occorre opporre un metodo organizzativo realmente centralista e democratico. Il centralismo democratico, lungi dalla deformazione stalinista che lo pretende come una sorta di tirannia della maggioranza (o della segreteria) è la combinazione di due elementi che sono ben più che caratterizzanti il partito rivoluzionario, due elementi che sono fondativi della stessa ragion d’essere rivoluzionaria del partito, la centralizzazione e la democrazia. Il centralismo politico è uno strumento essenziale, perché il partito centrato su un programma di rivoluzione deve muoversi in tutte le dinamiche che gli si pongono di fronte per riuscire ad adempiere al suo compito storico di elaboratore e divulgatore della coscienza socialista e in queste dinamiche non può lasciarsi travolgere da pulsioni federaliste o da particolari punti di vista contingenti di fase. Il centralismo politico poi è strumento di garanzia del programma e dell’indipendenza di classe. Per anni abbiamo assistito e continuiamo ad assistere all’opportunismo delle sinistre riformiste (SEL e PRC in primis) che oscillano continuamente tra il sostegno e la opposizione ai governi borghesi, anche simultaneamente: all’opposizione del governo centrale, non mancano di allearsi con gli stessi partiti che lo compongono sul piano locale, talvolta capita poi che rompano una giunta comunale o regionale per una opposizione maturata magari anche in modo sincero e in rottura, ma contemporaneamente riallaccino rapporti con gli stessi partiti padronali a livello centrale quando questi gli prospettino ministeri e sottosegretariati.
Il partito poi ha bisogno della democrazia interna come dell’ossigeno. La parodia stalinista del centralismo democratico ci ha lasciato un macigno molto difficile da rimuovere dall’immaginario collettivo della sinistra italiana: la limitazione del dibattito, della libertà di discussione e di confronto e della espressione di posizioni diverse dalla maggioranza sono stati assunti non solo come strumento di controllo, ma anche come strumento di vanto, contro posizioni anarcoidi o movimentiste delle organizzazioni dell’estrema sinistra. Lo stalinismo ha storicamente reagito con le scomuniche e le maledizioni all’opposizione di sinistra (oltre che con la persecuzione, l’esilio e lo sterminio dei suoi militanti). Questo è un punto cruciale. Un partito centralista democratico deve insindacabilmente garantire il diritto all’espressione del dissenso interno, anche fornendo gli strumenti organizzativi a compagni o gruppi di compagni che decidano di costituirsi in una vera e propria tendenza organizzata e centrata su posizioni divergenti. Massima libertà di discussione, massima fermezza nei principi uniti alla massima unità d’azione nel terreno della lotta di classe. Il partito è il luogo in cui si discute, ci si confronta, si elabora la produzione del partito. Una volta arrivati ad una risoluzione, tutti i militanti del partito si muovono in quella direzione. Solo in questo modo il centralismo democratico può riconquistare il suo significato originario e non assumere il volto della deformazione stalinista di strumento di repressione interno.

«Entrerei in un partito rivoluzionario, se esistesse. Ma non esiste.»

La presunta non esistenza del partito rivoluzionario è espressione frequente sia tra singole avanguardie sia come elaborazione di analisi di fase di numerosi piccoli gruppi o collettivi organizzati. “Il partito non esiste – dicono – servirebbe – si arrischia ad aggiungere qualcuno – ed è un vero peccato che non ci sia. Nel frattempo continuiamo il nostro lavoro di inchiesta o di lavoro settoriale”. Questa impostazione ha una enorme quantità di limiti che è necessario affrontare perché la questione del partito non rimanga un tabù.
In primo luogo è una posizione completamente schiacciata su un oggettivismo quasi evoluzionista. Il partito è concepito come una categoria della storia necessaria ma astratta, la cui costruzione è costantemente rinviata ad un momento in cui le condizioni “saranno mature”. In questo modo, rimuovendo la progettualità, le conseguenze sono o di ritirarsi a pura testimonianza, o di rinchiudersi in vertenzialismo o settorialismo; quando non significa il completo abbandono della militanza e della prospettiva socialista. Certamente il rapporto della costruzione del partito con la cruda materialità della fase è una questione centrale. La tattica dell’entrismo è testimonianza importante di questo dato. I marxisti rivoluzionari, di fronte allo scenario di un movimento operaio internazionale largamente egemonizzato dallo stalinismo, scelsero la tattica dell’entrismo proprio per strisciare ventre a terra e raggruppare forze intorno a sé. Ma l’entrismo, come l’attendismo indeterminato, non possono diventare strategia. Di fronte allo fase attuale, alla più grande crisi del capitalismo degli ultimi decenni, la questione della ricostruzione di un partito della rivoluzione non è aggirabile su scala nazionale e ancora di più su scala internazionale. Abbiamo letto stormi di analisti che condannavano le primavere arabe in quanto espressione diretta o indiretta di interessi imperialisti, portando come riprova di ciò la mancanza di organizzazioni rivoluzionarie nei paesi sconvolti dalle rivolte. Mancando la guida rivoluzionaria, l’egemonia delle rivolte è stata immediatamente presa dai controrivoluzionari, dagli agenti degli imperialismi, che hanno lavorato per guidare e declinare la successione al potere ai loro interessi. La lezione che si deve trarre da questo è l’onnipotenza dell’imperialismo che tutto vuole e tutto può? Certamente l’imperialismo, pur all’interno di una profonda crisi di direzione, gode di rapporti di forza significativi in primo luogo da un punto di vista militare e di intelligence nei confronti di ogni prospettiva rivoluzionaria che si apra. Ma questo non fa che rilanciare l’urgenza della costruzione del partito della rivoluzione.
Il PCL con tutti i suoi militanti è impegnato dovunque in questa prospettiva, in Italia come sul piano internazionale attraverso la lotta per la rifondazione della Quarta Internazionale.

Nicola Sighinolfi

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