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Il Pozzo Camorra oggi. |
di Volodia
A chi non la conosce, la vicenda si racconta in poche righe. Ribolla è un piccolo villaggio dell’entroterra maremmano, sorto intorno alla miniera di lignite di proprietà della Montecatini (che poi si fonderà con Edison, dando vita alla Montedison). Il 4 maggio 1954, il Camorra, uno dei pozzi della miniera, viene interessato da due forti esplosioni, che uccidono 42 minatori (il 43° morirà in seguito). Si tratta del più grave disastro minerario del dopoguerra. La “verità” processuale, come da triste tradizione italica, vedrà tutti assolti.
Oggi le miniere del grossetano sono tutte chiuse, murate, i 400 chilometri di gallerie che le collegano sono ancora pieni di macchinari, pompe, travi, vagoni, materiali, icone di santa Barbara, tutto è rimasto sotto terra.
Camminando distrattamente per Ribolla non ci si accorge di nulla, forse si inveisce un po’ per la viabilità arruffata, si nota la mancanza di una piazza o di un centro storico o si avverte il sentore fascista di qualche edificio. Qualcuno in giardino ha una strana costruzione piramidale, ma non è facile intuire che è una discenderia e che il fragile cancello che la chiude è una bocca su un inferno profondo centinaia di metri che si srotola sotto il paese. Si deve arrivare al cinema e al monumento per incontrare, visivamente, il momento di tanti anni fa in cui l’intera Ribolla si è congelata.
Se si chiede in giro, qualcuno sicuramente indicherà la strada sterrata che dal paese sale verso il pozzo 10 e il pozzo Camorra, tra ulivi, strane colline e costruzioni difficilmente interpretabili. Ai pozzi non vi è un singolo cartello che documenti quanto successo, o cosa siano le rovine rimaste, ormai invase da eucalipti, fichi e fagiani.
Il monumento ai morti sorge sul terreno privato della tenuta Zonin, acquistato a seguito della dismissione frettolosa e totale di tutto ciò che riguardava la miniera operata dalla Montecatini.
Tanto le miniere ormai non esistono più
Nell’era di Internet, del credit crunch e dei precari, le miniere e i minatori sembrano relitti del passato, ma le strategie dei padroni, siano di una miniera o di un call center, sono sempre le stesse.
Bordiga scriveva: “I procedimenti erano quelli di secoli fa, e quelli che le descrizioni dell’Ottocento attribuiscono alle miniere inglesi e francesi di combustibili fossili”
: nelle miniere maremmane si lavorava come in Germinale di Émile Zola. L’arretratezza era endemica. I guanti, mirabolante dispositivo di protezione individuale, arrivarono solo negli anni Sessanta.
I minatori scendevano stipati nelle gabbie, rudimentali ascensori che volavano nell’oscurità a 6 metri al secondo, praticamente in caduta libera.
Nelle gallerie, a centinaia di metri dalla superficie, la temperatura era intorno ai 40 °C, l’umidità al 95%, si lavorava mezzi nudi con i piedi nell’acqua. I minatori estraevano il materiale facendo esplodere il fronte della galleria, spaccando il resto con il martello pneumatico (“il bambino”, 35 kg di peso) e caricando tutto su vagoni che, trainati dagli asini o spinti a mano, giungevano ai nastri trasportatori, alla superficie e alla cernita. Qui lavoravano spesso anche le donne, addette alla selezione del materiale.
“Ventidue tonnellate di carbone in otto ore… due bimbe! Perché a 15 anni siamo du’ bimbe! Se si sbagliava, poi, ci facevano anche la multa! Se lo immagina! Con le gonnelline perché se si portava i pantaloni s’era poco per bene a quei tempi! Sicché sempre con la gonnellina! Picchiava qui il carbone, fino alle gambe…”
Vi era un minimo che era obbligatorio raggiungere (“l’economia”), altrimenti si veniva richiamati e poi licenziati, il resto veniva retribuito a cottimo. Ovviamente era possibile percepire l’extra solo con un superlavoro, al limite delle possibilità umane, che fruttava all’azienda profitti enormi, dato che ogni vagone di cottimo veniva pagato un terzo del lavoro in economia.
Contro questo sistema retributivo venne indetto uno sciopero eccezionale nel 1951, i minatori di tutta la Maremma occuparono le miniere per cinque mesi. Non ottennero nulla, ma si dimostrarono una forza sociale potente, in grado di impensierire non poco la borghesia.
Padri Padroni
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Il pozzo Camorra ai tempi della miniera. |
La Montecatini, dopo la fruttuosa collaborazione con il regime fascista, negli anni Cinquanta scatenò un’offensiva senza precedenti contro i lavoratori, che rivendicavano condizioni di lavoro più umane.
A Ribolla tutto era di proprietà della Montecatini, a partire dalle case dei minatori che così, in caso di licenziamento, perdevano reddito e alloggio. Gli operai erano schedati uno per uno, di ognuno erano note le idee politiche, la partecipazione agli scioperi, le frequentazioni. Gli appartenenti al PCI erano vessati in ogni modo, licenziamenti, richiami, multe, mancate promozioni, trasferimenti da una miniera all’altra, tutto ciò che oggi chiamiamo mobbing era prassi comune.
“Ogni astuzia è messa in opera per impedire agli operai di ritrovarsi insieme. Le ditte che gestiscono i trasporti degli operai a mezzo pullman sono state severamente diffidate a rispettare la puntualità delle partenze.[…] Specie all’esterno, dove il controllo degli operai è più facile, si arriva al punto che se due si fermano un momento a parlare, interviene la guardia e vuol sapere di che cosa parlavano.
Ai figli dei comunisti non veniva concesso il trasporto in autobus per fare la quinta elementare a Grosseto, fornito gratuitamente ai figli dei crumiri e degli impiegati. Della Montecatini erano i divertimenti, il cinema, il dopo-lavoro. La Montecatini pagava persino il “prete di fabbrica”, che ebbe un ruolo fondamentale nello spingere le vedove a non costituirsi parte civile durante il processo per la sciagura del 1954. Sembra che il prete percepisse anch’egli un premio di produzione.
Il prete in miniera poteva entrare, così come i rappresentanti di CISL e UIL, ma non quelli della CGIL. Della Montecatini era l’ambulatorio, la squadra di calcio e anche lo spaccio cittadino, in cui i minatori spendevano il salario per mangiare. Sua anche l’acqua:
“Ogni giorno la Montecatini manda in paese la botte, ma non ci toccano più di due brocche. Due brocche a famiglia per cucinare, pulire, lavarsi, bere.[…] Allora mi lavo con l’acqua del pozzo, ma è acqua cattiva, acqua e polvere, la solita polvere.”
La Montecatini aveva vietato le riunioni nei piazzali, la diffusione di stampa in miniera o nelle aree adiacenti, tre giorni di sospensione, senza paga, a chi portava via un po’ di legna di scarto dai cantieri per scaldarsi. Vi erano premi anti-sciopero e concessioni di case, gite e vantaggi vari a chi si asteneva dalla lotta politica. L’azienda rifiutò di fornire i locali per la casa del popolo, che i minatori costruirono poi con le proprie mani e a proprie spese.
La celere era una presenza fissa. Ribolla era insomma un feudo padronale in cui le libertà fondamentali erano sospese e il sistema di sfruttamento era totale. Sorveglianti e guardie svolgevano regolarmente opera di intimidazione e spionaggio politico.
La strategia della direzione era chiara: dividere i lavoratori, impedire il collegamento con gli impiegati, isolare chi parlava di sicurezza, spazzare via tutto ciò che stava tra l’azienda e il massimo profitto.
Tuttavia sarebbe riduttivo classificare il sistema Montecatini solo come supersfruttamento economico. Anche la componente sociale ebbe grande importanza: la strategia dell’azienda non era solo ottenere profitti enormi, ma realizzare una costante oppressione sociale e di classe, attraverso sistemi fascisti, proiettando contemporaneamente un’immagine paternalistica.
La coltivazione a rapina
Dal 1948 al 1950 la Montecatini aumentò la produzione del 28% pur riducendo il personale del 10%, i dati testimoniano chiaramente lo sfruttamento inumano a cui era sottoposto il personale. Nel 1951, dopo la lotta dei cinque mesi, la Montecatini inviò a Ribolla il proprio strumento di repressione e smantellamento della miniera, l’ing. Padroni, un “duro” venuto a “mettere a posto gli operai”
. Sotto la sua direzione si adottò, nel 1952, il sistema a franamento del tetto. Dopo aver sfruttato una galleria, questa veniva disarmata, togliendo le travi di sostegno e lasciando franare il soffitto. Era un espediente estremamente pericoloso perché intrappolava nel crollo sacche di grisù. Nello stesso anno venne adottato il cosiddetto sistema a fondo cieco. Le gallerie venivano scavate direttamente nel banco di materiale: la via di accesso era anche l’unica via di fuga per il minatore, in esplicito contrasto con i regolamenti minerari. Per chi lavorava in miniera era un vero e proprio scempio, oltre che un gravissimo pericolo.
A più riprese, sindacati, singoli minatori e associazioni femminili denunciarono i pericoli di una tale gestione, senza alcun risultato.
Si sapeva che la disgrazia sarebbe arrivata, si cominciava a temere la miniera.
Lo scoppio
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I tentativi di soccorso sono inutili. |
Quella di Ribolla era notoriamente una miniera particolare, vi si sviluppavano spesso incendi difficili da domare. Complice il sistema di aerazione in palese contrasto con l’arte mineraria, la mattina del 4 maggio uno dei focolai entrò in contatto con il grisù e la polvere di carbone, provocando due esplosioni.
Al momento dello scoppio, un’intera “gita” era sottoterra: un turno composto da 47 persone fu spazzato via quasi completamente.
La preparazione a eventi del genere era nulla. I compagni si precipitarono in fondo ai pozzi, ma gli autorespiratori non erano sufficienti. La direzione fece fermare la produzione negli altri pozzi solo a distanza di ore.
“La sciagura di Ribolla non fu dovuta a una “tragica fatalità”, ma alla consapevole inadempienza di precise norme di polizia mineraria. […] Non è stata la fatalità, ripetiamo; la sciagura è successa perché non si teneva in sufficiente e doverosa considerazione la vita dei minatori.”
Ai funerali parteciparono cinquantamila persone. Nessuno raccolse e portò le corone di fiori inviate dalla Montecatini. Lo fecero due guardie. Finiti i funerali, tornò la celere.
Il processo
Le perizie sulla disgrazia di Ribolla furono essenzialmente tre: quella della CGIL, redatta subito dopo lo scoppio, quella governativa e quella della Montecatini. La CGIL fu la prima a denunciare il “sistema Montecatini” come causa diretta della tragedia, la coltivazione a rapina, la violazione delle norme del regolamento minerario, il supersfruttamento a cui erano sottoposti gli operai.
Anche la perizia governativa mise in luce le inadempienze della Montecatini. Tuttavia, la precisa dinamica dello scoppio, secondo la commissione, poteva essere solo ipotizzata. Sulla mancanza della pistola fumante la Montecatini costruì la propria linea difensiva: era stata una fatalità che nulla aveva a che vedere con la gestione della miniera.
Dopo la tragedia, l’azienda riversò denaro e aiuti vari sulle famiglie dei morti che, schiacciate tra il lutto e il bisogno, accettarono in massa gli indennizzi. In cambio rinunciarono a costituirsi parte civile al processo che, nel frattempo, era stato spostato a Verona per legittima suspicione.
Il fronte di lotta che fino a quel momento si era mosso compatto contro la Montecatini si sfaldò. Il parroco spinse le vedove ad accettare i risarcimenti, si schierò da subito dalla parte dei padroni, addirittura avallò certe voci che insinuavano che la tragedia fosse stata il frutto di un atto di sabotaggio degli operai stessi.
Il PCI e la CGIL erano consapevoli della pericolosità e dell’efficacia della strategia della Montecatini, ma non riuscirono a fornire alle famiglie colpite il sostegno necessario per proseguire la lotta.
L’epilogo fu terrificante e scontato. Nella sentenza di assoluzione con formula piena si legge:
“Nulla è perfetto e la perfezione, meta sempre irraggiungibile dagli umani, non alberga certo nelle tenebrose viscere di nessuna miniera del mondo, mastodonticocomplesso spesso soggetto al disfrenarsi di forze occulte ed a imprevedibiliavvenimenti.”
La fatalità è servita. I 43 morti del 4 maggio 1954 sono stati fagocitati dalle viscere di un mostro che abita le oscure profondità della terra, disumano e imprevedibile. La colpa non è di nessuno.
La voglia di normalità è stata tanto forte da far dimenticare che si vive, si mangia e si dorme sopra questo mostro famelico. Si sono sbarrate tutte le porte di questo dedalo, il Minotauro è chiuso dentro.
Dei mostri veri, dei responsabili in giacca e cravatta, non si ha paura. Sono liberi di muoversi da un posto all’altro, da una “disgrazia” all’altra, da Marghera a Taranto, nelle migliaia di piccole fabbrichette e grandi stabilimenti che continuano a ingoiare vite umane per pura fatalità. Niente cambia. Le miniere, e i minatori, esistono ancora.