Quello che Cristicchi dimentica. Magazzino 18, gli «italiani brava gente» e le vere larghe intese
di Piero Purini, dal sito Giap – Wu Ming
Abbiamo chiesto allo storico Piero Purini – o Purich, cognome della famiglia prima che il fascismo lo italianizzasse – di guardare il discusso spettacolo di Simone Cristicchi e recensirlo per Giap.
Purini è autore del fondamentale Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975, appena ristampato da KappaVu con una prefazione di Jože Pirjevec.
Consigliamo questo libro a chiunque voglia conoscere e capire la storia del confine orientale nel Novecento. L’autore ha scovato, consultato e confrontato non solo fonti “nostrane”, come troppo spesso accade, ma anche fonti in lingua tedesca, slovena, croata e inglese.
Per potersi dedicare alla ricerca degli «esodi» e delle migrazioni forzate nella zona che va dal Friuli orientale al Quarnero, Purini è dovuto andare all’Università di Klagenfurt, visto che in Italia aveva trovato solo porte chiuse. Metamorfosi etniche è l’espansione della sua tesi di dottorato.
Piero è modesto e non lo dice in giro, ma un paio di settimane fa lui e Poljanka Dolhar hanno messo in fuga da Radio 3 Marcello Veneziani, e senza nemmeno fargli «Buh!» Cliccare e ascoltare per credere, ma solo dopo aver letto l’articolo qui sotto.
In calce, una nostra postilla su «memoria condivisa» e rimozione del conflitto.–
Magazzino 18 di Simone Cristicchi mi è sembrato un’operazione teatrale molto furba con uno scopo politico più che evidente: fornire uno strumento artistico efficace per propagandare la cosiddetta memoria condivisa, tanto cara al mondo politico «postideologico», secondo cui tutti gli italiani devono riconoscersi in una storia comune. Storia comune di cui, fin dal nefasto incontro Fini-Violante del 1998, le foibe e l’esodo sono pietre angolari.
Questa finalità prettamente politica è andata decisamente a scapito del valore artistico dello spettacolo: ne è risultata una pièce teatrale che mette insieme in maniera piuttosto bislacca generi disparati, richiami furbeschi all’immaginario collettivo italiano, imitazioni di spettacoli o film più o meno familiari allo spettatore medio. Un mix nazionalpopolare (a mio avviso piuttosto noioso e stucchevole) in cui troviamo un impiegato romano burino (che risulterà nostalgicamente simile ad alcune macchiette di Alberto Sordi); suggestioni musicali che si ispirano evidentemente a Schindler’s List (a suggerire per l’ennesima volta l’improprio paragone tra l’esodo giuliano-dalmata e la Shoah); imbarazzanti imitazioni di Marco Paolini, sia nella struttura dello spettacolo, sia nella recitazione; discutibili inserti tipo musical (alcuni brani non stonerebbero in film Disney come Pomi d’ottone e manici di scopa o Tutti insieme appassionatamente).
Secondo me, proprio l’ultima di queste canzoni – una via di mezzo traAladdin e Il re Leone – mostra l’ambiguità che permea l’intero spettacolo. La canzone si intitola Non dimenticare e recita: «Non è un’offesa che cede al rancore / non è ferita da rimarginare / è l’undicesimo comandamento: / non dimenticare».
E’ sottinteso, ciò che non si deve dimenticare è la tragedia delle foibe e dell’esodo, ma per ricordare questi eventi Cristicchi non esita a dimenticarne o trascurarne completamente altri che potrebbero risultare estremamente scomodi per lo scopo del suo spettacolo: appunto la creazione di una memoria collettiva esclusivamente italiana.
Cinque minuti e poi…
Innanzitutto Cristicchi dimentica di contestualizzare storicamente l’esodo. E’ vero che nello spettacolo è stata inserita una scena in cui vengono narrati i suoi antefatti storici, ma questa scena è del tutto assente nel cd allegato al libro e, se non sbaglio, ridotta nella lunghezza in alcune repliche, in quanto – almeno così mi sembra confrontando la trasmissione Rai, il cd e alcuni spezzoni tratti da YouTube – lo spettacolo viene modificato a seconda del luogo dov’è rappresentato.
Tale spiegazione storica è comunque troppo breve (cinque minuti scarsi su uno spettacolo di un’ora e tre quarti), superficiale, inesatta e abbonda di luoghi comuni. Talmente sbrigativa che sembra essere stata inserita al solo scopo di prevenire eventuali accuse di scarsa obiettività e dare un’apparenza bipartisan allo spettacolo.
La complessità etnico-linguistico-nazionale del territorio è liquidata dicendo che «per questo fazzoletto di terra ci sono passati tutti: italiani, austriaci, francesi, ungheresi, slavi». Già con questa descrizione Cristicchi può creare confusione nel pubblico: lo spettatore inconsapevole non sa che in questo territorio c’erano popolazioni autoctone (italiani, sloveni e croati) presenti da secoli, spesso fuse e mescolate tra loro, mentre Austria-Ungheria e Francia furono le entità statali che lo amministrarono.
Anche sul termine «italiani» ci sarebbe da ridire, in quanto, più che di «italiani» si trattava di popolazioni che parlavano il dialetto istroveneto della zona. Probabilmente la maggior parte degli italofoni residenti a Trieste o a Gorizia avevano la percezione di sé come fedeli sudditi asburgici, mentre l’irredentismo era appannaggio di una limitata ma rumorosa minoranza di altoborghesi (che proprio per la loro posizione sociale riusciva ad amplificare a dismisura le tesi favorevoli all’Italia) e di un’altrettanta sparuta minoranza di giovani contestatori che vedevano nel mito dell’Italia la contrapposizione ad un’Austria percepita come vecchia, bigotta ed opprimente. Esisteva anche una comunità di diverse decine di migliaia di persone di lingua tedesca, che risiedeva sul territorio da almeno 120 anni, e una miriade di piccole ma culturalmente vivacissime comunità non italiane: ebrei, serbi, cechi, greci, armeni, svizzeri, rumeni, turchi.
Gli altri esodi prima dell’esodo
Ciò che Cristicchi dimentica è che questo equilibrio e questa (fragile) convivenza non furono interrotte dal fascismo – come sostiene inMagazzino 18 -, ma già dalle autorità militari italiane subito dopo la conquista del territorio nel 1918.
Cristicchi dimentica che con la vittoria nella Grande Guerra l’Italia si annesse un territorio che comprendeva circa 500.000 non italiani.
Cristicchi, che ha voluto scrivere uno spettacolo sull’«Esodo», dimentica che quello giuliano-dalmata non fu il primo spostamento forzato di popolazione di questo territorio: già a partire dal novembre ’18 si verificò una diaspora degli abitanti della zona, che se ne andavano perchè temevano l’arrivo delle truppe italiane o perché la nuova sistemazione politica del territorio impediva loro di poter restare.
Cristicchi dimentica che le autorità militari italiane già nel novembre 1918 chiusero tutte le scuole della comunità tedesca della Venezia Giulia trasformandole in buona parte in caserme;
dimentica che insegnanti tedeschi, sloveni e croati persero il lavoro, furono espulsi o addirittura internati perchè continuavano ad insegnare clandestinamente nelle loro lingue;
dimentica che migliaia di reduci dell’esercito austroungarico non poterono tornare alle proprie case perchè le autorità militari permettevano il rientro ai soli reduci di lingua italiana;
dimentica che già nel primo anno di occupazione (1918-’19) l’intellighenzia culturale slovena e croata (850 persone tra sacerdoti ed insegnanti) venne internata nel Meridione perché rappresentava il veicolo di sopravvivenza della lingua e della cultura delle due minoranze;
dimentica che vi fu una campagna di delazione nei confronti di chi in casa parlava ancora tedesco, o che molti di coloro che erano definiti “austriacanti” (anche di lingua italiana) vennero fatti salire senza troppe cerimonie sui treni e spediti a Vienna o a Graz.
Dal 1918 al 1920 la vox populi locale parlò di oltre 40.000 partenze dalla sola Trieste verso Austria e Jugoslavia.
Cristicchi dimentica (o non sa) che l’esodo da Pola di cui parla nel suo spettacolo fu preceduto da un altro che nel 1918-’19 vide la partenza di oltre un terzo degli abitanti, e che fu questo esodo a rendere la popolazione così compattamente italiana, dal momento che se ne andarono la stragrande maggioranza dei tedeschi e una parte consistente dei croati e degli sloveni.
Cristicchi ignora che nel periodo tra le due guerre oltre 100.000 abitanti della Venezia Giulia partirono per Jugoslavia, Austria o Argentina perché le condizioni del territorio sotto l’Italia erano per loro invivibili;
dimentica – o più probabilmente non sa, perchè la storiografia italiana non ne ha quasi mai parlato – che nel 1919 più di mille ferrovieri tedeschi e sloveni del compartimento di Trieste vennero pretestuosamente licenziati in tronco durante uno sciopero e spediti in Austria e in Jugoslavia per poterli sostituire con personale ferroviario italiano;
dimentica che lo Stato italiano portò avanti una campagna di insediamento di italiani provenienti soprattutto dal Veneto e dalla Puglia per sostituire i non italiani che erano partiti e che dal ’18 al ’31 furono quasi 130.000 gli immigrati nella Venezia Giulia, un numero tale che le autorità dovettero addirittura proibire l’immigrazione nelle nuove province, perché la situazione economica del territorio non permetteva di fornire occupazione a tutti.
I primi immigrati ad arrivare furono 47.000 tra militari, carabinieri, poliziotti, guardie carcerarie, che dovevano imporre un controllo di stampo quasi coloniale alle nuove terre. La militarizzazione del territorio è particolarmente evidente se viene confrontata con la situazione prebellica: prima del conflitto l’Austria manteneva di stanza nel Litorale solamente 25.000 tra soldati e gendarmi, di cui ben 17.000 concentrati a Pola, dove si trovava la più grande base militare della marina austroungarica.
Cristicchi, poi, dimentica (ma più probabilmente ignora) che nel settembre del 1920, per piegare un sciopero, l’esercito cannoneggiò le case del rione “rosso” di San Giacomo, caso unico nella storia d’Italia di uso dell’artiglieria pesante contro un centro abitato in tempo di pace.
L’incendio del Narodni Dom
Nella sua scena di «introduzione storica» Cristicchi parla delle violenze contro i non-italiani (attribuendole tutte al fascismo, ancor prima che il partito fascista esistesse) e cita – giustamente – l’incendio del Narodni Dom, l’enorme casa del popolo, centro culturale e simbolo degli sloveni, dei croati e dei cechi nel centro di Trieste. Cristicchi sostiene che la sua distruzione fu «la prima grande frattura tra gli italiani della Venezia Giulia e la popolazione slovena e croata». Affermazione discutibile, visto che tensioni e violenze ce n’erano già state prima, e che – ad esempio – già in epoca asburgica il principale partito italiano, quello liberalnazionale, aveva ottenuto che a Trieste venisse impedita la costruzione di un liceo sloveno.
L’incendio del Narodni Dom di Trieste, 13 luglio 1920
Per giunta Cristicchi presenta l’incendio del Narodni Dom come una reazione all’uccisione di due militari italiani a Spalato. La stampa nazionalista dell’epoca aveva però omesso di dire che quei due militari avevano appena mitragliato i partecipanti ad una manifestazione, uccidendone uno, e pure Cristicchi omette questo particolare. Invece, rispetto all’incendio, in un’intervista a Repubblica ha sostenuto che ci sono «dubbi e chiaroscuri» (aggiungendo tra l’altro «Lì è morta una persona soltanto»!), insinuando forse l’interpretazione in voga durante il fascismo secondo cui dal palazzo si sparò e vennero gettate bombe contro gli assedianti, versione già ampiamente smentita dalla stampa non fascista e dalla stampa straniera dell’epoca, nonché da storici titolati e decisamente non sospettabili di simpatie filoslave come Carlo Schiffrer.
Chi ha detto «Italiano = fascista»?
Magazzino 18 descrive le prevaricazioni che il fascismo adottò per legge contro le minoranze:
il divieto di utilizzare lingue straniere nei tribunali e negli uffici pubblici (ma dimentica che gli sloveni riottennero questo diritto solo nel 2001!);
la totale chiusura delle scuole slovene e croate;
la rimozione delle tabelle in lingue slave (ma dimentica che ancor oggi nel centro di Trieste non ci sono le tabelle bilingui per non urtare la sensibilità di qualcuno…);
l’italianizzazione di «molti» cognomi (si parla di 100.000 persone solo a Trieste, mezzo milione in tutta la Venezia Giulia… Solo «molti»?) e quella dei toponimi (con paesi che ancor oggi, nonostante gli esiti di referendum locali, non possono tornare ufficialmente al nome originario perché è necessaria una votazione in parlamento)…
«Gradualmente,» dice Cristicchi, «gli spazi culturali, economici e sociali degli slavi vengono soppressi». Corretto. Ma non sarebbe stato male aggiungere che accanto alle chiusure per legge avvenivano veri e propri pogrom antislavi, con distruzione di tipografie, circoli, case private, negozi. Chi parlava sloveno o croato in pubblico rischiava bastonate, sputi (alcuni zelanti maestri erano usi sputare in bocca agli alunni che non parlavano in italiano), olio di ricino e addirittura olio da motore, come quello che venne somministrato al dirigente di coro Lojze Bratuž, che morì un mese dopo.
Lojze Bratuž, italianizzato in Luigi Bertossi. Morto a Gorizia nel 1937 a soli trentaquattro anni. Una squadra fascista lo sequestrò e gli fece bere a forza olio da motore. Il giorno della sua morte, gli amici si radunarono di fronte all’ospedale e cantarono una canzone slovena (gesto proibito dal fascismo), poi fuggirono per non subire violenze a loro volta.
Cristicchi scrive che il risentimento produsse tra sloveni e croati l’equazione «italiano = fascista». E anche qui c’è una bella dimenticanza. In realtà questa uguaglianza non fu un’invenzione di sloveni e croati, ma per un ventennio fu portata avanti dalla propaganda fascista: proclamando l’entrata in guerra contro l’Etiopia, dal balcone di palazzo Venezia, il Duce aveva enfaticamente affermato: «L’identità tra Italia e fascismo è perfetta, assoluta, inalterabile». Dunque anche qui si attribuisce agli slavi come errore di valutazione una parola d’ordine che invece era ben radicata nell’ideologia fascista e probabilmente gradita a non pochi italiani.
Occupazione fascista e Resistenza
Cristicchi passa poi all’analisi del periodo bellico: cita l’invasione della Jugoslavia, gli incendi di villaggi, i massacri di civili, i crimini di guerra per cui nessuno ha mai pagato, gli ordini delittuosi di Roatta, le migliaia di morti nei campi di internamento, in primis quello di Arbe (anche se attribuisce tutto ciò a Mussolini, quando invece dietro di lui c’era tutto un apparato militare e amministrativo-burocratico che sosteneva le sue avventure belliche al di là dell’appartenenza al fascismo).
Tutto corretto storicamente, ma troppo sbrigativo: quelle che sono le cause principali di foibe e deportazioni sono liquidate in poche frasi. Forse Cristicchi avrebbe potuto ricordare la città di Lubiana, circondata da filo spinato e trasformata essa stessa in un enorme campo di concentramento; avrebbe potuto spiegare come i militari italiani a Podhum uccisero 91 abitanti, ne deportarono 900 e rasero al suolo l’intero paese, non diversamente da quanto i tedeschi fecero a Sant’Anna di Stazzema o a Marzabotto. Avrebbe potuto dire che la Slovenia ebbe un numero di vittime pari al 6,3% della popolazione, addirittura la città di Lubiana raggiunse il 9% di vittime; avrebbe potuto dire che la Jugoslavia contò un milione e centomila vittime su una popolazione di 15 milioni (solo a titolo di paragone l’Italia su 43 milioni ebbe circa 450.000 vittime).
Soprattutto, Cristicchi dimentica (o non sa) che molti di quelli che sfuggirono ai massacri italiani e tedeschi andarono ad ingrossare le fila della resistenza antifascista di Tito.
Partigiani della divisione italiana Garibaldi, inquadrata nel II° Korpus dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia.
I partigiani, nel racconto di Cristicchi, ad un certo punto «scendono dalle montagne dell’interno dove sono accampati» ed iniziano a girare casa per casa alla ricerca delle loro vittime su cui sfogare la propria vendetta.
Cristicchi omette di dire che i partigiani non fecero campeggio in montagna per poi andare ad ammazzare gli italiani: sostennero una lotta durissima contro le forze dell’Asse, contro i nazifascisti e dopo l’8 settembre 1943 contro i tedeschi e contro i collaborazionisti italiani che continuarono a combattere a fianco dei nazisti. Perché anche questo Cristicchi dimentica: che con l’armistizio e la dissoluzione dell’esercito italiano, una parte dei soldati italiani riuscì a tornare a casa, mentre altri si unirono proprio a quelle forze di Tito che sarebbero «scese dalle montagne» per «colpire gli italiani che sono un ostacolo» alla grande Jugoslavia (termine inventato: non è mai esistita una «grande Jugoslavia», a significarne l’espansionismo, a differenza di «grande Serbia», o «grande Germania»).
Altri soldati italiani continuarono a combattere assieme ai tedeschi. Cristicchi dimentica di dire che spesso questi collaborazionisti italiani si incaricarono del «lavoro sporco» (rastrellamenti, torture, esecuzioni), forse facendo – questi sì – odiare gli italiani in quanto fascisti.
Inoltre, quando parla dei partigiani Cristicchi li descrive sempre come «bande», «titini», «ribelli» rimuovendo il fatto che i soldati di Tito non furono bande feroci e selvagge, bensì un esercito che combatteva contro l’Asse e considerato parte integrante delle forze alleate.
Infoibare la storia
L’argomento foibe, poi, è un condensato di luoghi comuni e dimenticanze.
Innanzitutto Cristicchi omette la distinzione tra le cosiddette «foibe istriane» (1943) e le «foibe triestine» (1945). Le prime furono una sorta di jacquerie, di rivolta contadina contro chi aveva detenuto il potere fino ad allora, in cui la rappresaglia politica potè mescolarsi in alcuni casi a vendette personali. Cristicchi esclama: «Sta gente è stata ammazzata in tempo de pace!», ma dimentica che nel settembre ’43 c’era ancora la guerra.
Sulle foibe triestine, Cristicchi sfrutta il solito luogo comune secondo cui tutte le vittime sarebbero state infoibate. Come sa chiunque si occupi anche lontanamente dell’argomento, gli scomparsi del maggio ’45 finiti effettivamente nelle voragini carsiche sono stati una minoranza: qualche decina di persone. Gli altri furono deportati in quanto appartenenti a forze armate che avevano combattuto contro l’esercito jugoslavo, al pari di quanto accadde agli italiani catturati da inglesi, francesi, americani e russi. Le condizioni della prigionia non erano certamente delle più facili (ma i soldati catturati in Russia o in Africa non ebbero condizioni migliori); va detto però che buona parte di chi non aveva responsabilità personali riuscì a tornare.
Per fascisti e collaborazionisti vennero allestiti processi che si conclusero anche con condanne a morte. Il fatto però che le persone venissero liquidate «in quanto italiane» è smentito sia dal fatto che alcuni fascisti colpevoli di crimini vennero liberati dagli jugoslavi che non li riconobbero (il che la dice lunga sulla «terribile efficienza» della polizia segreta jugoslava), sia dai numeri. Cristicchi dà cifre vaghe (500, 5.000, 10.000, 14.000), mentre quasi tutti quelli che sono andati a spulciarsi uno per uno le liste dei “desaparecidos” concordano su un numero tra 1.000 e 2.000 persone. Cifre analoghe a quelle dei morti negli ultimi giorni di guerra a Genova, a Torino o in Emilia. Dove però mai nessuno è stato ucciso «in quanto italiano». Mi sembra dunque che questi numeri siano la riprova numerica del fatto che in queste terre le esecuzioni del maggio ’45 non hanno risposto ad una logica di pulizia etnica, bensì siano state la – purtroppo – fisiologica resa dei conti di un conflitto che era stato atroce e fortemente ideologico.
Se poi si vanno a confrontare le cifre delle vittime a guerra finita in Jugoslavia, si nota come altrove – dove Tito non doveva temere di rendere conto agli alleati – la mano della giustizia partigiana fu estremamente più pesante rispetto alla Venezia Giulia dove sarebbe avvenuta la «pulizia etnica».
Sorvolo sul caso Norma Cossetto, sulla descrizione della foiba (che sembra tratta pari pari dal racconto del sedicente sopravvissuto Graziano Udovisi) e sulla strage di Vergarolla, in quanto Cristicchi le interpreta come avvenimenti sicuri, ma dimentica di segnalare che si tratta invece di singoli episodi sui quali sono cresciuti a dismisura racconti mai corroborati da prove, o al massimo si sono fatte ipotesi investigative.
Davvero «non si può vivere senza essere italiani»?
Rispetto all’esodo è interessante come Cristicchi generalizzi l’esodo da Pola, facendo credere che anche l’esodo dalle altre parti dell’Istria, da Fiume, da Zara, dalla Zona B, dal Muggesano si sia svolto nello stesso modo. La questione è che l’esodo da Pola risponde a tutti i clichés di cui lo spettacolo ha bisogno: la partenza in tempi brevi, le navi, il trasporto delle masserizie, la neve, la bora.
Cristicchi dimentica che l’esodo fu un fenomeno estremamente complesso, che avvenne con modalità e tempi diversi: Zara fu addirittura sfollata ancora durante la guerra a causa dei bombardamenti angloamericani, l’esodo di Fiume si risolse in pochi mesi, l’esodo dalla Zona B si prolungò per anni, dando il tempo agli abitanti di fare una lunga analisi sul se, sul come e sul quando partire; quello del Muggesano coinvolse una popolazione in larghissima parte comunista cominformista che in maggioranza rifiutò l’aiuto delle associazioni dei profughi per non essere strumentalizzata dalla destra o dalla DC.
Soprattutto, Cristicchi dimentica le mille cause di questa complessità. Banalizza affermando che ci fu una causa sola: la gente partì «perché non si può vivere senza essere italiani».
In nome di questa tesi, Cristicchi rimuove il fatto che la Jugoslavia stava realizzando riforme di stampo socialista nell’economia: aveva appena approvato pesanti restrizioni nel commercio privato, imposto la distribuzione delle derrate alimentari attraverso cooperative, pesantemente tassato le rendite finanziarie, attuato una riforma agraria in base alla quale venne proclamata l’abolizione della mezzadria, del colonato e del lavoro agricolo su appalto, assegnato le terre ai contadini che dimostrassero di lavorarle da almeno quindici anni, e infine stabilito il sequestro dei latifondi e la distribuzione delle terre, nonché l’uso collettivo delle macchine agricole, tassando pesantemente le terre incolte ed i terreni oltre determinate superfici.
In un contesto del genere, che qui mi sono limitato a riassumere, è chiaro che tutta una serie di categorie (proprietari immobiliari, commercianti all’ingrosso e al dettaglio, imprenditori, locatori, addetti alla distribuzione ecc.) videro la partenza come l’unica soluzione dei loro problemi, a prescindere da quale paese vi fosse oltre frontiera. Credo che sull’esodo abbia giocato molto di più la paura di un sistema economico-politico demonizzato dal fascismo, dalla chiesa e dall’influente DC che di là dal confine spingeva per la partenza del maggior numero di persone. Non si dimentichi inoltre che per la piccola e media borghesia (quella che oggi viene chiamata middle class) la questione si semplificava in un’equazione molto banale: Jugoslavia = comunismo = miseria, Italia = Stati Uniti = ricchezza.
Un’altra paura che spingeva alla partenza era il sovvertimento di quello che fino ad allora era stato l’ordine sociale: le classi che avevano detenuto il potere venivano ad essere spazzate via da una sorta di tsunami sociale. Operai e braccianti diventavano arbitri dell’esistenza di chi fino ad allora aveva tenuto le redini del sistema sociale e ora non intendeva diventare subalterno agli ex servi. Non dunque fuga per l’italianità, quanto fuga dal socialismo, dal ridimensionamento sociale e dalla (probabile) miseria.
Lui ricorda! Ma solo quello che gli fa comodo. Per giunta, lo ricorda male.
Cristicchi dimentica che le autorità italiane spinsero sotterraneamente all’esodo: attraverso le organizzazioni degli esuli, in Istria si pubblicavano appelli per la partenza e si reclamizzavano i veri e finti vantaggi che i profughi avrebbero avuto in Italia (non si dimentichi che comunque, da un punto di vista economico, l’Istria era una delle zone più depresse del Regno d’Italia e perciò l’esodo poteva essere addirittura allettante). La DC, riuscita ad accreditarsi come la forza politica che maggiormente tutelava i profughi, doveva rendere solida la propria base nelle terre di confine e dopo il 1954 la massa di profughi fu fatta fermare a Trieste, nell’intento da parte del governo di rendere più sicura una città che in realtà molto fedele all’Italia non era mai stata (i due quinti dell’elettorato triestino si esprimevano per partiti favorevoli all’indipendenza). A Trieste i profughi ebbero precedenza nell’impiego pubblico e privato e graduatorie privilegiate nell’assegnazione di case popolari. InMagazzino 18 si dimentica che, con la saturazione del mercato del lavoro e l’impossibilità di accedere ad alloggi, circa 25.000 triestini dovettero optare per l’emigrazione in Australia.
Anche i numeri confutano la tesi che gli esuli siano partiti per mantenere la propria italianità. Cristicchi, prendendo come oro colato il numero canonico di 350.000 profughi (in realtà inventato da Flaminio Rocchi), dimentica che in base al censimento del 1936 il numero di italiani residenti nelle terre perse era di 264.799. Se si dà credito alla cifra di Rocchi, si afferma automaticamente che 85.000 non italiani partirono… per restare italiani!
Non ho grandi considerazioni da fare sul pessimo accoglimento dei profughi a Bologna, salvo ricordare che purtroppo accoglienze di questo genere sono piuttosto frequenti: anche i profughi sloveni dopo la prima guerra mondiale, quando giunsero nei loro luoghi di destinazione in Jugoslavia, vennero spesso accolti con epiteti comelahi – spregiativo di «italiani» – e fašisti, proprio coloro dai quali stavano scappando.
Sulle condizioni dei campi profughi, è indubbio che esse furono terribili, ma solo una minoranza assoluta dei profughi ci visse per dieci anni (come si dice in Magazzino 18): per la maggior parte fu un periodo di transizione relativamente breve: in genere, dopo qualche anno, a volte solo qualche mese, i profughi ottenevano alloggi popolari di buona qualità. A Trieste vennero edificati interi rioni esclusivamente per profughi, come il complesso di Chiarbola con 112 edifici per un totale di 868 appartamenti.
Visita a Goli Otok
Infine due accenni: il «controesodo» e i «rimasti».
Cristicchi dimentica che, tra i cantierini monfalconesi andati in Jugoslavia per «costruire il socialismo», quelli che non abbracciarono la causa del Cominform poterono tranquillamente restare in Jugoslavia. Degli altri solo una minoranza venne arrestata ed internata. La maggior parte potè tranquillamente (e mestamente) tornarsene in Bisiacheria. I monfalconesi che finirono nei gulag della costa adriatica furono una quarantina, a dimostrazione che non ci fu alcun accanimento contro di essi «in quanto italiani», ma solo in quanto irriducibili stalinisti.
«A Goli Otok, dopo la visita nelle carceri, si ha a disposizione un piccolo esercizio alberghiero ed un negozio di souvenirs ed inoltre si puo prendere a noleggio una mountain bike per arrampicarsi sui rilievi dell’ isoletta.» Clicca sull’immagine se vuoi visitare Goli Otok.
«Non esiste un monumento, una targa. Niente. Goli Otok non c’è nemmeno sui dépliant», dice Cristicchi. Gli segnalo che i dépliant su Goli Otok ci sono eccome e ci si possono anche fare delle visite di diverse ore. Resterà un po’ deluso, perché quella che lui definisce «per quasi 40 anni la prigione della Jugoslavia» fu un carcere per prigionieri politici per non più di dieci anni. Divenne poi un penitenziario per criminali comuni e negli anni ’70 fu trasformato in riformatorio, in cui i giovani detenuti venivano indirizzati all’attività turistica. Alcuni abitanti della costa mi hanno raccontato che in estate i turisti potevano raggiungere l’isola in barca e mangiare al ristorante del riformatorio, dove i reclusi lavoravano come cuochi e camerieri. Raccontano ancor oggi di piatti di pesce ottimi e prezzi bassissimi. Dal 1988 l’intero complesso è stato chiuso ed è ora fatiscente.
I «rimasti»
Cristicchi parla della triste sorte dei rimasti, ma dimentica che le comunità italiane di Fiume, Rovigno, Capodistria, Pola, Cittanova (anzi, come piace dire a lui storpiando: Rigeca, Rovini, Coper, Pula, Novigrad…) ebbero scuole italiane, bilinguismo, la possibilità di relazionarsi con gli uffici pubblici nella propria madrelingua, circoli culturali, cori, giornali, case editrici, rappresentanti nelle istituzioni politiche ecc.
In conclusione credo che Cristicchi sia il primo a dover rispettare quel suo «undicesimo comandamento»: all’inizio di Magazzino 18 parla di un’«enorme amnesia», ma mi pare che questo spettacolo continui a perpetuare un’amnesia altrettanto enorme su altri aspetti che è assolutamente necessario conoscere per capire la storia.
Anzi, magari la prossima volta, per non dimenticare, cerca di informarti meglio.