Qualche giorno fa, la direzione Electrolux, in una lettera indirizzata ai sindacati e al Governo dichiarava di sostenere “la proposta avanzata dai sindacati al Governo di ripristinare la decontribuzione a favore delle imprese che applicano i contratti di solidarietà come mezzo per abbassare il costo del lavoro senza intaccare i salari”.
La solita storia: soldi alle imprese con sgravi fiscali, contratti di solidarietà, CIG da usare come flessibilità e, magari, nuovi esuberi e aumento dei carichi di lavoro.
Ma sostenere che la decontribuzione alle imprese non intacca i salari è una sciocchezza, indicativa della malafede dei vertici sindacali e delle imprese, in quanto il salario reale non è composto soltanto da quello diretto (che i lavoratori incassano ogni mese) ma dal salario indiretto e differito (servizi sociali e pensioni).
In Italia, nel 2013, sono andati circa 30 mld di euro pubblici alle imprese private. Una cifra vicina alla metà di quanto lo Stato versa ogni anno alle banche come interesse sul debito.
Questa tipo di politica economica è in realtà la giustificazione ideologica dell’assistenzialismo pubblico alle imprese private.
Essa ha subito una forte accelerazione a partire dall’abolizione della scala mobile (1992-Governo Amato) con i voti della “sinistra” (PDS – ex PCI) e approvata dai sindacati confederali. È proseguita poi, con la precarizzazione del lavoro (1997-pacchetto Treu del governo Prodi; 2003-legge trenta del governo Berlusconi), con i continui tagli allo stato sociale e al “cuneo fiscale” (IRAP e IRES che pagano banche e imprese).
A questo si devono aggiungere le continue riforme delle pensioni; in realtà tagli brutali praticati sistematicamente dai governi di ogni colore negli ultimi venti anni (ultimo la riforma Fornero). Anche l’evasione e l’elusione fiscale sono rimaste altissime insieme al diffondersi dell’economia criminale. Il risultato di tutto questo è stato il trasferimento di più del 30% dei redditi da lavoro ai profitti da capitale (più o meno legali).
Questa è la realtà. Sono stati principalmente i lavoratori dipendenti e in parte i segmenti minori del ceto medio (piccoli artigiani e commercianti) a finanziare i capitalisti con i tagli alla sanità, ai servizi, alla scuola, allo stato sociale, ai salari, agli stipendi e alla previdenza sociale.
Tutto questo senza nessun risultato positivo; ma al contrario, producendo contrazione della domanda interna, aumento del debito pubblico, (dello Stato e dei Comuni), crescita continua della povertà e della disoccupazione.
Come sempre, le imprese hanno investito le donazioni pubbliche in tecnologie per risparmiare lavoro e aumentare la produttività (labour-saving) o delocalizzato le produzioni (o parte della produzione) in paesi a più basso costo del lavoro, alimentando il circolo vizioso della crisi.
L’ascesa di Renzi, come referente della ritrovata unità della borghesia, significa che le nostre classi dirigenti (nazionali e locali) intendono proseguire, anzi accentuare, la politica di spoliazione delle classi popolari. Ma questo produrrà inevitabilmente l’accentuarsi del conflitto sociale e, di conseguenza, l’inasprirsi della repressione del dissenso.
Con l’esaurirsi dei margini di mediazione fra capitale e lavoro, la questione centrale del prossimo futuro non riguarderà l’onestà, né l’efficienza di una presunta nuova classe politica, ma quale classe sociale debba dirigere la società: la maggioranza che vive del proprio lavoro o una minoranza che per arricchirsi distrugge il lavoro?