di BelvaLa visione immediata e semplificata dell’uomo comune di oggi vede l’economia in un’ottica nazionale, figlia della retorica dello stato-nazione, che non coglie le reali dinamiche esistenti: le vicende economiche riguardano
il paese, questa specie di fantasma della mente, somma delle attività economiche degli italiani (o dei tedeschi o di chiunque altro), mai distinti nei loro differenti ruoli nella riproduzione sociale complessiva e nella contrapposizione di classe che li divide – spesso non viene fatto nemmeno il piccolo sforzo mentale di intuire la possibilità che gli interessi dell’impiegato di banca e del banchiere siano oggettivamentediversi, anche se concittadini. Non si vuole nemmeno ammettere che una bella fetta della ricchezzadel paese è prodotta da chi di quel paese non è cittadino: il capitale italiano si viene anche a formare dall’acquisizione di plusvalore, quindi dal ricavo di profitto, proveniente da altri paesi, sia sotto forma di vendita di merci sia sotto forma di sfruttamento di forza-lavoro immigrata a minor costo rispetto a quella indigena – il problema è quando questi lavoratori pretendono di essere trattati come persone… Difficile risulta anche conciliare come le aziendedovrebbero lavorare in un’ottica di “sistema-paese” (come piace ripetere ai servi del padrone del PD), quando la maggior parte delle loro attività avviene in paesi diversi da quello d’origine. È proprio il caso, questo, della Trevi S.p.A., azienda cesenate tra le prime nel suo settore che può ben illustrare di cosa parliamo quando opponiamo, all’ideologia comune del paesecome soggetto economico centrale, l’esistenza reale del capitale transnazionale all’interno del processo di mondializzazione del capitalismo.La fondazione della Trevi è emblematica della situazione storica italiana: nel 1957, in quel periodo di forte crescita economica noto come boom, Davide Trevisani fonda a Cesena la “Impresa Palificazioni Trevisani”, inzialmente una piccola azienda di trivellazione. A differenza del classico e maggioritario capitalismo palazzinaro e straccione italiano, però, la Trevi sarà tra quelle aziende capaci, al pari delle loro omologhe nei paesi a capitalismo avanzato come Germania e Stati Uniti, di basare il proprio successo sulla superiorità tecnologica e sulla capacità di competere nel mercato mondiale, più che sul supersfruttamento della forza-lavoro e sulla speculazione marcescente.
Durante gli anni ’60 la Trevi registra vari brevetti all’avanguardia e separa il reparto dei macchinari operanti nel sottosuolo nella Soilmec (1969). Fra gli anni ’70 e ’80 la Trevi conosce un’espansione a livello mondiale e si articola in varie agenzie operanti nei diversi teatri economici in tutto il globo, diventando “Trevi S.p.A.” nel 1983 e avviando un processo di acquisizione che porterà i fratelli Trevisani al controllo di 36 società e 45 sedi in 40 diversi paesi: mentre la sede ufficiale della Trevi rimane il complesso di Pievesestina, sostanzialmente lo stesso dal ’69, il processo di mondializzazionedell’azienda è innegabile: la sola Soilmec conta 3 stabilimenti in Italia e 7 all’estero. C’è da osservare come, al pari della compaesana Technogym, la Trevi ha trovato in Italia, e nella Romagna del PCI-PDS-PD, un ambiente complessivamente favorevole al suo sviluppo come colosso capitalistico: essendo un’azienda incentrata sui macchinari e su colletti bianchi piuttosto che su masse di operai, ha evitato episodi importanti di lotta di classe, premurandosi comunque di operare in contesti esteri (da cui arriva la maggior parte delle commesse) dove la sicurezza di fare profitto è assicurata da governi compiacenti.
C’è da dire però che non sempre le cose procedono come l’aziendaprevede: è il caso dei lavori di ampliamento della metropolitana di Copenaghen; qui la Trevi ha vinto un’importante appalto in associazione, tra gli altri, con l’Ansaldoe la Salini, altri colossi italiani del settore.
I lavori in Danimarca consistono nella costruzione ex novodi due linee della metro in aggiunta alle due esistenti, le quali percorrono la città da nord-ovest a sud-est; le nuove due dovrebbero coprire l’asse est-ovest e collegare ad anello varii punti del centro. L’appalto, che nel suo complesso in origine è stato stimato a poco più di 3 miliardi di euro, è di notevole portata per un paese piccolo con una piccola capitale come la Danimarca (rispettivamente 5,9 e 1,2 milioni di abitanti), dove il principale datore è il comune di Copenaghen (circa 40.000 dipendenti, e controlla al 50% l’azienda responsabile del cantiere), che di conseguenza è uno dei principali attori economici dell’intera Scandinavia: il progetto è stato approvato nel 2005 e le nuove stazioni dovrebbero essere pronte per il 2018.
Aldilà della retorica tipicamente PDina dei nordici europei come popoli di civiltà superiore dove le cose funzionano meglio, il cantiere della metro presenta forti somiglianze con quello TAV in Val Susa: i costi lievitano durante i lavori, la popolazione si lamenta dell’opera e i lavori sono in ritardo. In particolare, gli abitanti di Nørrebroparken, con modalità certamente molto meno conflittuali di quelle dei noTAV, si lamentano da tempo per la decisione del Comune di firmare una delega che ha permesso alle ditte appaltatrici di far funzionare i loro macchinari 24 ore al giorno potendo arrivare alla soglia media dei 55 decibel orari invece della precedente soglia assoluta dei 40 decibel. Davanti alla volontà dei cittadini di poter riposarsi serenamente di notte e di vedere l’inquinamento sonoro e atmosferico ridursi, il Comune e il Ministero dei Trasporti hanno risposto che senza tale deroga il cantiere perderebbe il 75% della sua produttività (cioè sarebbe meno redditizio per Trevi&Co.!) e si rischierebbe di poter inaugurare le nuove linee solo nel 2024 con un sovraccosto stimato di circa 200 milioni di euro – anche se probabilmente, visto come vanno a finire questi cantieri solitamente, i costi lieviteranno in ogni caso. Il tentativo dell’amministrazione a guida socialdemocratica di far ricadere la responsabilità di possibili ritardi e costi aggiuntivi sulla popolazione è piuttosto ridicolo, se si considera che tre diverse fonti del Copenaghen Post (il giornale cittadino in lingua inglese) hanno confermato che “una combinazione di pianificazione scarsa, leadershipinetta e piani sbagliati” ha comportato già un forte ritardo sulla tabella di marcia (“2 anni”) e che probabilmente ci saranno altri ritardi. In particolare, il sito di Nørrebroparken è in ritardo di più di un anno: gli scavi veri e propri, non ancora inziati, avrebbero dovuto cominciare nell’ottobre del 2012. Proprio come in tanti cantieri italiani, una conduzione “leggera” dei lavori cerca di essere coperta mediaticamente sfruttando le legittime proteste della popolazione coinvolta.
Riepilogando, nell’affare del cantiere di Copenaghen ritroviamo varie caratteristiche del capitalismo odierno di cui la Trevi è esempio:
La transnazionalità: aziende provenienti da vari paesi partecipano all’appalto; il capitale necessario per l’opera è in buona parte estero, e nel caso della metro è evidente la tendenza all’aumento del capitale fisso, con un’automazione e un utilizzo di macchinari sempre crescenti, a detrimento del saggio di profitto;
L’intervento statale nell’economia: al contrario di ciò che alberga nelle malate menti dei neoliberisti, l’economia capitalista, senza l’intervento dello Stato come arbitro tra i vari interessi e attore economico dalle facoltà relativamente importanti, precipiterebbe subito nell’anarchia più totale e nell’abisso della guerra e della barbarie;
Il conflitto tra capitale (e suoi agenti) e società: nel caso dei cantieri inquinanti e rumorosi il capitale si manifesta compiutamente “come una potenza sociale, estranea, indipendente, che si contrappone alla società come entità materiale e come potenza dei capitalisti attraverso questa entità materiale”, che non ha come priorità la sua sotenibilità sociale o ambientale, ma il semplice riprodursi socialmente, cioè il poter garantire al capitalista un profitto sufficiente a non farlo soccombere durante il ciclo generale di riproduzione del capitale stesso.
Purtroppo in Danimarca da tempo il proletariato e la popolazione urbana si sono abituati ad essere vessati dallo Stato (neocorporativo più che socialdemocratico ormai) e dalla borghesia, essendo ormai incapaci di sviluppare lotte che respingano gli attacchi della classe avversaria e che si colleghino a quelle degli sfruttati fuori e dentro l’UE. Le forze “comuniste” sono poche, disperse e lontane da una sicura prassi rivoluzionaria… ma delle forze politiche danesi scriveremo più avanti.