I governi di unità nazionale sono la peggiore iattura possibile per le classi lavoratrici in quanto in essi , anche se provvisoriamente, si risolve la contraddizione fra la sostanziale unità d’interessi delle classi dominanti e dei loro partiti e la forma della democrazia parlamentare borghese che, per apparire tale, deve mostrare nelle istituzioni una forza di governo e una di opposizione che possano alternarsi fra loro.
Tale contraddizione impedisce il pieno dispiegarsi , nelle fasi normali di sviluppo del capitale, di una efficiente azione di governo. Ma nelle fasi di crisi dei profitti i vari settori dei ceti dirigenti , che normalmente configgono attraverso i loro partiti, sono costretti ad unificarsi per concentrare le loro forze contro le classi lavoratrici.
Inoltre, aldilà di ogni alchimia di alleanze politiche ( di governo o di appoggio esterno ) o definizione storicamente determinata : compromesso storico, governi di unità o solidarietà nazionale, delle larghe intese ecc, essi hanno sempre rappresentato una svolta nella storia del nostro paese.
In particolare sul compromesso storico proponiamo un articolo di Marco Ferrando, scritto dieci anni fa e proprio per questo ancor più significativo per aver previsto la sostanza dei processi politici attualmente in corso.
Questo articolo si trova anche nella Home page di questo Blog sotto il titolo :” contro Berlinguer”, ma abbiamo deciso comunque di ripubblicarlo come esempio di analisi politica altamente formativa sulla disastrosa fine del PCI e le relative conseguenze nel movimento operaio italiano.
Falaghiste
IL “COMPROMESSO STORICO” NELLA STORIA DEL PCI: IL MITO E LA REALTA’
di Marco Ferrando
“Gli avvenimenti cileni sono stati e sono vissuti come un dramma da milioni d’uomini sparsi in tutti i continenti… ma i combattenti per la causa della libertà e del socialismo non reagiscono con lo scoramento ma cercano di trarre un ammaestramento…
“Noi abbiamo sempre pensato – e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che l’unità dei partiti dei lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia… Ecco perché noi parliamo non di un’alternativa di sinistra ma di un’alternativa democratica, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di un’intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari d’ispirazione cattolica…
“L’errore principale da cui bisogna guardarsi è quello di giudicare la DCcome una categoria astorica, destinata per sua natura ad essere o a divenire sempre e ovunque un partito schierato con la reazione… Noi abbiamo avuto sempre ben presente il legame tra la DCe i gruppi dominanti della borghesia… Ma nella DC si raccolgono anche altre forze, vaste categorie di ceto medio, strati popolari e anche operai. Dobbiamo agire perché al suo interno pesino sempre più, sino a prevalere, le tendenze che con realismo storico e politico riconoscono la necessità e la maturità di un dialogo costruttivo e di un’intesa tra tutte le forze popolari, senza che essa significhi rinuncia alle diversità e distinzioni ideali e politiche…
“Non bisogna credere che il tempo a disposizione sia indefinito. La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di forze reazionarie, la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e democratico, rendono sempre più urgente che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande “compromesso storico” tra le forze che rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano.” (“Rinascita” del 9 ottobre 1973). Con queste parole Enrico Berlinguer, segretario generale del Pci, lanciava, trent’anni fa, la proposta politica del “compromesso storico”…………………………………………..
Un dibattito distorto
Su questa proposta si è sviluppata nel tempo, all’interno del movimento operaio, una discussione vasta ma raramente segnata dall’onestà intellettuale (e quasi mai dal metodo marxista).
Quali erano le ragioni e i fini della proposta? Quale bilancio storico trarre dall’esperienza concreta dell’unità nazionale (1976-78) cui quella proposta apriva la strada? Le risposte a questi interrogativi che si sono confrontate nella sinistra italiana hanno spesso registrato, al di là delle divergenze, un comune schema d’approccio: e cioè una rappresentazione del compromesso storico come astratta proposta politica ideale, come una particolare concezione della “transizione”, di cui magari leggere criticamente radici culturali e risultanze politiche, ma tutta mossa in definitiva dalla tensione morale verso un’altra Italia e realmente ispirata dal dramma del Cile.
Questo approccio “metafisico” al compromesso storico ha resistito tanto tenacemente nel tempo da unire, su versanti capovolti, l’interpretazione che ne diedero all’epoca i dirigenti storici del Pci con l’interpretazione che oggi ne danno i loro epigoni neoliberali. Cos’era il compromesso storico, nella rappresentazione ideologica interna che ne diedero Berlinguer e i suoi giovani tenenti degli anni settanta (Occhetto, D’Alema, Fassino, Veltroni)? Era la concretizzazione strategica della “via italiana al socialismo” e quindi “la corretta traduzione, nelle condizioni nazionali, di una linea di classe”. Cos’è il compromesso storico in sede di bilancio nella rappresentazione storiografica che oggi ne fanno i neoliberali Occhetto, D’Alema, Fassino e Veltroni? La concretizzazione strategica della via italiana al socialismo e, quindi, l’espressione di un classismo nobile ma miope, di un rifiuto generoso ma utopico della modernità, di un incolmabile ritardo storico che – unito al berlinguerismo degli anni ottanta – avrebbe condannato il Pci al declino.
La verità è che i dirigenti liberali della maggioranza diessina avvalorano le mistificazioni della propria gioventù staliniana per lustrare presso le classi dominanti il proprio attuale liberalismo borghese ed esaltare l’entità dello “strappo” compiuto. Di converso tanti reduci della storia del Pci, ancora legati al movimento operaio, proprio per contrastare il liberalismo DS e il suo cinismo sono portati a rivendicare l’effige di Berlinguer, a denunciare il tradimento della sua figura, a nobilitare lo stesso compromesso storico, rappresentandolo al più come “un errore”.
La risultante di questa dinamica di confronto non è solo il riprodursi, per autoalimentazione, di una mistificazione storica ma, perciò stesso, un danno politico per il movimento operaio di oggi, per la comprensione delle sue necessità e dei suoi compiti. Per questo è utile sottrarre al compromesso storico l’aureola della leggenda e restituirlo alla sua effettiva realtà.
La mistificazione ideologica della “via italiana al socialismo”
La proposta del compromesso storico, nella sua sostanza politica non nasce dal dramma del Cile: nasce dalla tradizione storica dello stalinismo, ed è sospinta politicamente dall’intera evoluzione della situazione politica italiana dei primi anni settanta. Il golpe fascista in Cile fu piuttosto occasione e cornice della sua nuova esplicitazione e rilancio.
Innanzi tutto il compromesso di governo con la DC non era un’improvvisazione di Enrico Berlinguer. Era un’esperienza già compiuta dal Pci di Palmiro Togliatti nell’immediato secondo dopoguerra (1945-1947) e un’ispirazione strategica di fondo della burocrazia del Pci lungo il corso tormentato dei decenni successivi. Lo stesso Berlinguer rivendicò apertamente nello scritto di “Rinascita” la radice antica del compromesso storico, il suo segno di continuità col passato: “Il nostro partito non ha mai deflettuto dalla sua linea unitaria verso gli altri partiti di massa, il Partito socialista, il Partito democristiano… Dopo la Liberazione, dopo l’avvento della Costituzione, frutto di un accordo tra i grandi partiti di massa (Pci, Psi, DC) fu il partito democristiano – nel clima di divisione dell’Europa e nel mondo creato dall’incipiente guerra fredda – il principale artefice della rottura dell’alleanza di governo con i comunisti…” (9 ottobre 1973).
Parole di verità: ma che nascondono dietro un riferimento storico notarile ragioni e bilancio della “linea unitaria” verso la DC.
Dopo la svolta del settimo congresso dell’Internazionale comunista (1935), con la nuova linea dei “fronti popolari”, i partiti del Comintern si erano votati ad una prospettiva di governo con la propria borghesia “democratica e liberale”, secondo gli interessi di fondo della burocrazia sovietica e della sua diplomazia internazionale, nel nome del “socialismo in un solo paese”. Così fu in Italia.
Nel 1926 il congresso di Lione del PcdI, sotto la direzione di Gramsci, aveva finalizzato l’opposizione comunista al fascismo alla prospettiva strategica del “governo operaio e contadino”: l’unica prospettiva capace di realizzare l’avvento di un nuovo blocco storico alla testa dell’Italia e di condurre a soluzione le questioni storiche irrisolte, a partire dalla questione meridionale. “Non può esservi altra rivoluzione in Italia che una rivoluzione socialista” scriveva Antonio Gramsci. Ogni ipotesi di blocco di governo con forze borghesi liberali, ogni concezione del PcdI come “ala sinistra” dell’opposizione unitaria antifascista, veniva esplicitamente respinta come capitolazione alla socialdemocrazia e al liberalismo (vedi Tesi di Lione n. 26).
Ciò non significava affatto escludere, in termini di previsione storica, la possibilità che un futuro crollo del fascismo potesse aprire le porte, nell’immediato, ad una soluzione democratico-borghese. Ma quella soluzione avrebbe avuto precisamente lo scopo di bloccare la rivoluzione proletaria. E i comunisti pertanto, non solo non dovevano subordinarsi a tale prospettiva, ma dovevano battersi, con tutte le proprie forze, per costruire l’egemonia proletaria sull’opposizione di massa antifascista, in alternativa al liberalismo e nel nome della propria prospettiva indipendente. Solo a partire da questa politica di classe, un’eventuale soluzione democratico liberale, se anche si fosse realizzata, avrebbe potuto costituire obiettivamente un breve passaggio intermedio sulla via della conquista proletaria del potere.
Lo stalinismo italiano, sotto la guida di Togliatti, capovolse esattamente questa impostazione. L’intera linea del Pci durante la resistenza si ispirò al blocco strategico con la borghesia liberale italiana. La ribellione operaia antifascista, a partire dal marzo 1943, e il grosso del movimento partigiano furono subordinati nei Cln all’alleanza “paritaria” con la DCe il Partito liberale. La nuova prospettiva strategica fu esplicitata solennemente nella cosiddetta svolta di Salerno: “lo scopo del nostro partito non è oggi la rivoluzione socialista ma la ricostruzione democratica dell’Italia” (Togliatti). Dentro la cornice di quella divisione del mondo in aree di influenza che Stalin avrebbe pattuito con gli imperialismi vincitori.
Su queste basi “tricolori”, il “partito nuovo” di Togliatti prese parte ai governi di “unità nazionale” con la DC che si susseguirono dal 1945 al 1947. I ministri staliniani, a braccetto con la DC, reintrodussero i capitalisti cacciati dai lavoratori nei loro posti di comando, ripristinarono la disciplina nelle fabbriche, concordarono la liberalizzazione dei licenziamenti, gestirono il disarmo del movimento partigiano, decretarono un’ampia amnistia per i fascisti, diressero la repressione di movimenti di disoccupati. Era il programma della ricostruzione del capitalismo italiano e dell’apparato borghese dello Stato, usciti a pezzi dell’avventura del fascismo e della guerra. Solo il Pci forte del proprio controllo sulle masse, poteva garantire alla borghesia italiana il ritorno indolore alla sua democrazia: contro il movimento operaio e le aspirazione più profonde della resistenza. Ma la borghesia “democratica” rimessa in sella dallo stalinismo non mostrò gratitudine verso il Pci: non appena i rapporti di forza lo consentirono e la svolta internazionale della guerra fredda lo suggerì, la Democrazia cristiana di De Gasperi cacciò il Pci all’opposizione e inaugurò la lunga stagione anticomunista che percorse tutti gli anni cinquanta contro i lavoratori e la Cgil.
Significativa fu la protesta di Palmiro Togliatti, dalla tribuna dell’assemblea costituente. Per questa imprevista estromissione dal governo: “Cosa si rimprovera alla classe operaia?… Gli operai, avvenuta la liberazione, hanno compreso la situazione, dando prova di un mirabile senso politico e nazionale. Essi hanno capito che l’aver salvato le fabbriche non li autorizzava a porre il problema di un’immediata trasformazione socialista della società… Sappiamo bene che per la ricostruzione nazionale sono necessari i ceti produttori capitalistici e infinite volte abbiamo detto loro “collaboriamo”… Ma gli operai hanno fatto di più: hanno moderato il loro movimento, l’hanno frenato, l’hanno contenuto nei limiti in cui era necessario contenerlo per non turbare l’opera della ricostruzione. Hanno accettato la tregua salariale senza che vi fosse la sospensione dell’aumento dei prezzi… hanno dimostrato capacità di direzione politica ed economica della vita del paese. Nulla si può rimproverare agli operai e i partiti che li rappresentano non possono essere oggetto della manovra (d’esclusione dal governo).” (20 giugno 1947). Non poteva esservi confessione più autorevole e penosa del tradimento della classe operaia e della Resistenza da parte della burocrazia del Pci. Né poteva esservi un’invocazione tanto pietosa della riammissione del Pci nel governo della borghesia.
Nei successivi trent’anni di opposizione, tutta la politica dell’apparato del Pci fu finalizzata a riaprire il varco di quella collaborazione di governo con la DC, che quest’ultima aveva affossato nel 1947. La cosiddetta “via italiana al socialismo” fu per trent’anni l’involucro ideologico di questa prospettiva. Non una ingenua illusione, ma una consapevole mistificazione.
Dal primo al secondo compromesso storico
Trent’anni dopo il compromesso storico si ripresentò in condizioni storiche molto diverse. Ma la dinamica della sua realizzazione presenta anche alcune significative analogie.
Nell’immediato secondo dopoguerra il Pci era approdato al governo non solo in ragione dell’aspirazione governista della sua burocrazia, ma in virtù del combinarsi di due fattori di fondo: l’ascesa della classe operaia, nei termini allora di una dinamica insurrezionale, e la crisi profonda della direzione politica borghese, entro un processo di disgregazione dell’apparato statale. Solo in queste condizioni eccezionali il capitalismo italiano fu costretto ad appoggiarsi su un partito staliniano per organizzare la propria rinascita. E solo in queste condizioni un apparato staliniano poteva realizzare quel compromesso di governo che il Cremlino gli aveva commissionato.
Il secondo compromesso storico promosso nel 1973 da Berlinguer vedeva un Pci sensibilmente diverso da quello degli anni quaranta. Il suo apparato burocratico aveva approfondito la propria integrazione nella società borghese. Le sue radici materiali nelle istituzione dello Stato, nelle amministrazioni locali, nel sistema cooperativo si erano enormemente estese. I suoi canali di comunicazione con le classi dominanti si erano moltiplicati. Sotto molti aspetti la base materiale della burocrazia Pci era divenuta assai simile alla base materiale di una socialdemocrazia classica. E ciò dava, di riflesso, un diverso fondamento alla sua stessa aspirazione di governo: nel 1945 la vocazione di governo di un apparato staliniano uscito dalla clandestinità dopo vent’anni di fascismo rifletteva prevalentemente gli interessi di Mosca e della sua burocrazia; alla soglia degli anni settanta la vocazione di governo dell’apparato del Pci, dopo trent’anni di democrazia borghese, rifletteva gli appetiti della propria burocrazia: del suo ceto dirigente, dei suoi amministratori, del suo ceto parlamentare.
E tuttavia il Pci di Berlinguer conservava nonostante tutto un tratto strutturale che lo differenziava da un ordinario partito socialista: il perdurante legame col Cremino. Certo, questo legame si era allentato nel tempo entro un processo di graduale autonomizzazione che rifletteva l’integrazione del Pci nella società borghese (la dissociazione del Pci dall’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, a differenza del sostegno fornito nel 1956 alla repressione degli operai ungheresi misurava questa evoluzione). Ma per quanto indiretto il legame con l’Urss permaneva ben saldo: e non solo come eredità residuale e simbolica di una tradizione passata ma come legame materiale (anche finanziario) e come rapporto politico diplomatico legato a una geografia bipolare del mondo, figlia indiretta della rivoluzione d’Ottobre, che era ancora lontana dal dissolversi.
Questa peculiare diversità del Pci era, agli occhi della borghesia, il principale ostacolo alla sua integrazione di governo: non le sue radici di massa, tanto meno i suoi programmi riformisti, entrambi affini a quelli di altri partiti socialisti in Occidente; ma le specifiche relazioni del Pci con l’altro blocco internazionale, con i suoi interessi diplomatici, con la sua potenza statuale. Il “Corriere della sera” in un celebre editoriale del 1975 lo chiamò il “fattore K” (K come Kremlino) e lo additò come un impedimento organico all’ingresso al governo del Pci.
Berlinguer era ben consapevole dell’ordine dei problemi e degli ostacoli, anche internazionali che si frapponevano all’accoglimento di un nuovo compromesso storico. Ma coglieva perfettamente che altri fattori, non meno potenti, aprivano al Pci una potenzialità nuova. Questi fattori, tra loro combinati, erano essenzialmente due: la nuova ascesa della classe operaia e la nuova crisi di direzione politica della borghesia. In forme e con intensità profondamente diverse erano non a caso gli stessi fattori che avevano sospinto il primo compromesso storico del dopoguerra.
Ascesa operaia e avanzata del Pci: una relazione contraddittoria
La ripresa della classe operaia, dopo una fase di dure sconfitte aveva segnato, seppur in modo non lineare, il corso degli anni sessanta. La rivolta di massa contro il governo Tambroni nel luglio 1960 fu il primo segnale del disgelo. Una nuova generazione faceva progressivamente il proprio ingresso nelle lotte sindacali e politiche. La crescita quantitativa e la concentrazione di massa della classe operaia industriale – prodotta dallo sviluppo capitalistico del dopoguerra – dava a questa lenta ripresa una robusta base materiale d’appoggio. L’autunno caldo del ’69 fu il punto d’approdo di questo processo e al tempo stesso la leva e il motore di una svolta profonda nei rapporti di forza tra le classi in Italia. Le vecchie politiche sindacali, a lungo difese dal Pci (dalla conservazione di commissioni interne sclerotizzate al moderatismo salariale) furono nei fatti travolte dalla pressione operaia. Gli aumenti salariali uguali per tutti, l’unità tra operai e impiegati, il potere di contrattazione in fabbrica, nuove forme di rappresentanza democratica dei lavoratori si affermarono come rivendicazioni egemoni a livello di massa. La nascita dei consigli di fabbrica dava la misura della nuova forza operaia e delle potenzialità della svolta. Una svolta che non si fermava ai cancelli della fabbrica, ma investiva profondamente la società italiana: si intrecciava con l’ascesa della mobilitazione studentesca; spostava gli orientamenti di vasti settori di piccola borghesia, di masse popolari del sud, di forze intellettuali; trascinava una nuova sensibilità democratica e una potente domanda di cambiamento.
L’apparato del Pci lavorò a contenere questa spinta: da un lato cavalcandola, dall’altro smussandone tutte le potenzialità anticapitalistiche. Il cavalcamento dei nuovi consigli di fabbrica e la loro successiva subordinazione “istituzionale” al nuovo patto interconfederale del 1972 furono al riguardo emblematici; non meno – su un altro piano – della linea di attacco frontale e di “clima rovente” (Cossutta 1972) nei confronti della neonata “sinistra extraparlamentare”. Peraltro tutta la credibilità del Pci agli occhi della borghesia era affidata alla sua capacità di contenere l’ascesa di massa dentro gli argini della società borghese.
Ma il Pci sarà anche il beneficiario politico, alla lunga, della nuova stagione sociale. Nel 1974-75 il riflesso politico di anni di lotte di massa si espresse nella clamorosa vittoria sul tema del divorzio, nella grandezza e radicalità delle mobilitazioni antifasciste, ma soprattutto nell’ascesa elettorale impetuosa del Pci; che nelle elezioni amministrative del 15 giugno 1975 conquistava le grandi città del nord e del sud rompendo i confini tradizionali del proprio insediamento storico e incamerando ovunque nuove forze e nuove domande.
L’apparato del Pci dirà a lungo, per tacitare il dissenso interno, che questa avanzata del partito esprimeva un consenso di massa alla linea del compromesso storico. Era falso. Le masse non votano linee politiche, esprimono bisogni e domande attraverso i canali di cui dispongono. L’avanzata del Pci nel 1975 esprimeva una gigantesca domanda di svolta dopo trent’anni di dominio democristiano: una domanda che si incanalava, come era naturale, verso quella forza di opposizione che per consistenza, insediamento, tradizione appariva agli occhi della masse come l’unico possibile strumento della svolta.
Il paradosso storico – ricorrente nella relazione dinamica tra lotta di classe e direzioni riformiste – è che proprio la linea di compromesso storico con la DC che confliggeva con la domanda di svolta, uscì rafforzata dall’ascesa di massa: accrescendo enormemente il peso negoziale dell’apparato staliniano nei confronti della borghesia e della DC.
La crisi economica e politica del capitalismo italiano
Congiuntamente all’ascesa operaia e al rafforzamento del Pci, si manifestava una crisi profonda delle classi dominanti. Con la crisi economica internazionale del 1974-75 e i suoi pesanti riflessi in Italia, la lunga fase del boom post-bellico, già da tempo in progressivo esaurimento, poteva dirsi definitivamente conclusa. Nel capitalismo italiano si apriva una fase nuova. Una serie di distorsioni strutturali legate ai caratteri della DC e del suo blocco di potere iniziavano a rivelarsi ostacoli sempre più ingombranti per la competitività capitalistica nazionale. Il peso eccezionale del capitalismo di Stato, la consistenza della rendita, il clientelismo parassitario, il carattere pletorico dell’amministrazione pubblica entravano nel mirino della campagna borghese. L’anomalo tasso d’inflazione (sino a soglie del 20%), la crisi di competitività industriale sul mercato internazionale (nonostante i ripetuti crolli della lira), l’innalzamento abnorme del saggio di sconto (alzato dall’8% al 12% nel solo 1974) apparivano sempre più a vasti settori di grande capitale come il prezzo insostenibile delle “anomalie strutturali”. Era uno degli aspetti del cosiddetto “caso italiano”.
Ma, soprattutto, in quel contesto, si rivelavano sempre più onerose per il capitale le conquiste strappate dall’ascesa operaia. Le concessioni considerevoli che la borghesia aveva fatto alla pressione di massa sino alla metà degli anni settanta (dallo Statuto dei lavoratori al punto unico di scala mobile) avevano avuto come fine quello di disinnescare il rischio di una precipitazione rivoluzionaria in Italia: le riforme furono strappate non “dal Pci” (come a lungo si disse) ma dalla minaccia di un conflitto sociale ingovernabile che proprio il Pci si era prodigato ad evitare. Tuttavia sullo sfondo della nuova crisi economica il peso strutturale di quelle concessioni divenne progressivamente insostenibile per il capitalismo italiano. La crescita dei livelli salariali, la forza operaia in fabbrica, la rigidità del posto di lavoro a partire dalle grandi aziende, ponevano alla borghesia l’esigenza di una controffensiva. Arretrare non si poteva più. E si doveva innestare, nelle condizioni date, una decisa inversione di marcia.
L’interrogativo era: con quale strategia politica? Una linea di scontro frontale col movimento operaio era – dentro i rapporti di forza dati – improponibile. Dal punto di vista sociale avrebbe significato un’avventura, capace di favorire un ulteriore radicalizzaione dello scontro e quindi di trascinare nuove obbligate concessioni. Non di meno dal punto di vista politico: l’avanzata del Pci, erodendo la base di consenso del Psi e influenzando settori popolari cattolici si accompagnava ad una crisi sempre più netta del centrosinistra che aveva da tempo esaurito ogni forza propulsiva; e chiedere a quel centrosinistra e alla stessa DC una linea di scontro col Pci significava votarlo alla disfatta. Peraltro il tentativo di svolta a destra intrapreso nel 1972 col varo del governo DC-Pli (Andreotti-Malagodi) era durato lo spazio di un mattino. A maggior ragione suggestioni reazionarie e golpiste – che pur aleggiarono più volte in settori dell’apparato statale, a misura della gravità della crisi, e che avevano alimentato la cosiddetta strategia della tensione – non solo non ebbero mai alcuna credibilità politica nei circoli decisivi del capitale finanziario: ma apparvero ai loro occhi come corresponsabili del processo di radicalizzazione politica a sinistra delle classi subalterne.
Vi era dunque un solo modo per la borghesia di uscire dall’impasse e riprendere in mano la situazione: aprire ad una progressiva integrazione e corresposabilizzazione del Pci nell’ambito degli equilibri di governo.
La borghesia italiana apre al Pci
Contrariamente a un diffuso luogo comune, il compromesso storico, nei suoi termini reali, non fu solo una proposta del Pci alla DC, ma anche una proposta della borghesia italiana al Pci. Anzi, la forza della proposta berlingueriana stava esattamente nella sua rispondenza con la speculare apertura borghese.
Berlinguer coniò la sua proposta alla fine del 1973 con parole significative “la DC ha dovuto abbandonare la linea e la prospettiva del centrodestra. Essa avverte che può essere gravido di avventure fatali, per tutti o per se stessa, giocare la carta della contrapposizione e dello scontro. Ma non è giunta ancora ad intraprendere con coerenza una strada opposta…” (“Rinascita” del 20 ottobre 1973). La strada appunto del compromesso di governo con lo stalinismo.
Con un perfetto parallelismo, all’inizio del 1974, Guido Carli prestigioso governatore della Banca d’Italia, in un celebre articolo sull’”Espresso” indicava per la prima volta l’opportunità di coinvolgere il Pci nell’area di governo, come possibile fattore di “stabilità sociale e politica” e di “risposta al disordine sociale”. La grande borghesia italiana aveva scelto. La Confindustrianel 1975 aprì alla Cgil di Lama e al Pci con la concessione del punto unico di contingenza: l’ultima riforma concessa al movimento operaio chiedeva come contropartita non solo la fine delle rivendicazioni salariali ma l’avvio del coinvolgimento politico del Pci nel processo di stabilizzazione sociale. Non a caso fu Gianni Agnelli – come presidente di Confindustria – l’artefice diretto del messaggio. A sua volta l’apertura borghese dislocò in termini nuovi l’intera dialettica politica nazionale. Il Pri di Ugo la Malfa, portavoce chimicamente puro della linea confindustriale, divenne il principale propositore del coinvolgimento governativo del Pci. Dentro tutti i partiti borghesi si rafforzò giorno dopo giorno la linea aperturista verso lo stalinismo (persino nel Pli).
Ma fu soprattutto nella DC, architrave della rappresentanza politica borghese, che maturarono rapidamente, pur in un quadro contraddittorio, dinamiche nuove. Aldo Moro e Giulio Andreotti, da versanti diversi, compresero meglio e prima di altri dirigenti democristiani che un equilibrio politico era finito: e che non vi era altra strada per tentare di uscire dalla drammatica crisi del capitalismo italiano (e in parte della stessa DC) che aprire al compromesso storico.
La partita di scambio del compromesso
Dopo le lezioni politiche del 20 giugno 1976 – che avevano registrato il miglior risultato elettorale del Pci di tutto il dopoguerra – il compromesso storico iniziò a conoscere una concreta traduzione politica. La sua linea di attuazione tra il 1976 e il 1978 fu progressiva e graduale. Nel 1976 nasceva il governo Andreotti come “governo delle astensioni”: il Pci non aveva formalmente una integrazione al governo e neppure in maggioranza, ma per la prima volta dopo trent’anni rimuoveva la propria opposizione, dichiarando la “non sfiducia”. Nel 1977 nasceva un secondo governo Andreotti, chiamato il governo delle “convergenze programmatiche”: il Pci non era formalmente incluso in maggioranza ma aveva discusso ufficialmente per la prima volta il programma di governo, nei fatti corresponsabilizzandosi apertamente. Il 16 marzo 1978 un terzo governo Andreotti teneva a battesimo l’ingresso organico del Pci nella maggioranza politica di governo.
La gradualità del processo rispondeva solo in parte a preoccupazioni elettorali della DC sul versante del tradizionale elettorato anticomunista. Rispondeva invece essenzialmente alla natura di fondo dello scambio pattuito, che era poi la vera natura del compromesso storico. La burocrazia staliniana aveva usato la spinta di massa del movimento operaio per aprirsi la strada del governo con la borghesia. La borghesia, e il suo principale partito,usarono l’apertura al Pci come leva della normalizzazione sociale contro le conquiste del 1969-75. Questo compromesso doveva essere vigilato e alimentato in un gioco di pressioni, garanzie, contropartite reciproche e richiedeva dunque gradualità. Per tre anni l’apparato del Pci rivendicò l’accelerazione del proprio ingresso diretto nell’esecutivo, condizionando le proprie disponibilità antioperaie all’avanzamento degli equilibri politici. Per tre anni i vertici della DC condizionarono l’avanzamento progressivo di quegli equilibri all’impegno antioperaio del Pci, alle prove della sua affidabilità sul versante delle politiche borghesi.
La storiografia del Pci degli anni ottanta tese spesso a distinguere il compromesso storico proposto da Berlinguer dall’unità nazionale del 1976-78: presentando quest’ultima come una traduzione imperfetta da parte del partito dell’“alto disegno” di trasformazione – “purtroppo incompreso dalla base” – che Berlinguer aveva concepito. Era il tentativo di salvare il compromesso storico (e Berlinguer) dal bilancio del suo fallimento.
In verità, l’unità nazionale fu esattamente il compromesso storico reale, liberato dall’alone propagandistico e illusionista che dal 1973 aveva accompagnato la proposta.
Austerità e sacrifici
“Austerità e sacrifici”: questi due termini più di altri incardinarono l’intera esperienza dell’unità nazionale. Per lungo tempo, da più parti, si è rappresentata la parola d’ordine berlingueriana dell’austerità come una critica al “modello capitalista”, una denuncia della sua irrazionalità, una proposta di società più libera e più umana: addirittura un “socialismo” per il nostro tempo.
Questa rappresentazione lirica capovolge precisamente la realtà. L’austerità fu nei fatti la cornice ideologica della nuova politica antioperaia del Pci in subordine alle esigenze del capitalismo italiano. Questa politica non solo cancellava definitivamente ogni traccia residuale del vecchio propagandismo togliattiano di opposizione degli anni cinquanta e sessanta (“riforme di struttura”, “nazionalizzazione di alcuni monopoli”, ecc.); non solo cancellava ogni eredità del sindacalismo tradunionista, tardivo e strumentale, del 1969-70; ma metteva apertamente in discussione conquiste, istituti, rapporti di forza realizzati dalla classe operaia dal 1969 al 1976, lungo una linea di progressione inequivoca.
Nell’ottobre del 1976, appena varcata la linea dell’astensione, il Pci difese le misure del governo Andreotti dagli scioperi spontanei dei lavoratori (indirizzati in particolare contro il rincaro dei prezzi e l’aumento della benzina), lanciando la nuova campagna del rigore contro la crisi: la classe operaia doveva iniziare a farsi carico delle difficoltà nazionali, moderare le proprie rivendicazioni, mostrare “spirito responsabile e costruttivo” verso il padronato. In poche parole doveva accettare un ridimensionamento della propria condizione.
Nel luglio del 1977, in corrispondenza col varo della “convergenza programmatica” tra DC e Pci, la “proposta di progetto a medio termine” varato dal comitato centrale del partito dava alla nuova linea del rigore una confezione ideologica impegnativa. Il testo dichiarava come proprio proposito “il concreto collegamento tra l’impegno, i sacrifici, il rigore, che si venivano sollecitando come condizione indispensabile per il superamento della crisi e la prospettiva di una trasformazione della società.” (dall’introduzione di Giorgio Napoletano). Ma l’intero testo – che si apre con l’elogio dell’austerità – assume come proprio terreno di riferimento il programma a “medio termine” della borghesia italiana. Nei “successivi tre-cinque anni” il progetto a medio termine del Pci rivendicava “lo spostamento di risorse dai consumi agli investimenti” (leggi: contrazioni salariali in cambio di maggiori profitti alle imprese); “una vera e propria guerra allo spreco non solo nella sfera dei consumi privati ma nella sfera della spesa pubblica” (leggi: contenimento delle spese sociali in nome di maggiori risorse per l’accumulazione capitalistica); “la lotta all’inflazione come condizione di recupero della competitività nazionale e il rifiuto dell’assistenzialismo e dell’occupazione improduttiva” (leggi: salario e posto di lavoro coma variabile dipendente del capitale). In definitiva la “trasformazione della società” progettata dal Pci voleva assicurare alla borghesia la piena restaurazione del controllo capitalistico.
Ma fu nel 1978 che il nuovo corso economico sociale del partito conobbe la traduzione più “provocatoria”, con pesanti ricadute sulla lotta di classe. In perfetto parallelismo con l’ingresso del Pci nella maggioranza politica di governo la burocrazia della Cgil sotto la guida di Luciano Lama inaugurò all’Eur una svolta profonda di indirizzo del principale sindacato italiano. Questa svolta non stava nella trasformazione di un “sindacato di classe anticapitalista” in un sindacato collaborazionista, come spesso si è affermato in ambienti centristi di estrema sinistra. Stava nel passaggio della burocrazia riformista della Cgil da una funzione tradunionistica di scavalcamento e contenimento della spinta di massa, connessa alla collocazione di opposizione del Pci, ad una funzione di svendita delle conquiste operaie, connessa alla nuova collocazione di governo dello stalinismo. Il significato di questa svolta la diede lo stesso Lama in una storica intervista al giornale “la Repubblica” (24 gennaio 1978). Lama criticò apertamente “gli eccessi e gli errori sindacali” del 1969-76. Condannò definitivamente la concezione rivendicativa del salario come variabile indipendente annunciando l’“austerità salariale”. Aprì inoltre una campagna sindacale per la crescita della produttività del lavoro affermando che l’orario reale di lavoro medio in Italia era molto più basso che in altri paesi capitalistici concorrenti e che la Cgil sarebbe stata disponibile a negoziare il suo allungamento. Infine fece propria la tesi padronale dell’“esuberanza” di mano d’opera nelle fabbriche riconoscendo la legittimità della sua riduzione. “La Cgil è pronta ad impegnarsi per sacrifici sociali non formali, ma sostanziali” dichiarò Lama. Il messaggio era inequivoco: la burocrazia Cgil, per conto dello stalinismo italiano provava a presentarsi alla borghesia come garante delle rinunce operaie e della normalizzazione nelle fabbriche. In buona sostanza della chiusura della stagione del 1968-69.
La classe operaia “si fa Stato”: il Pci baluardo dell’ordine
Al tempo stesso l’accesso all’area di governo si combinava con un nuovo corso del partito sul terreno più strettamente politico.
La classe operaia non era solo chiamata a identificarsi negli interessi nazionali del capitalismo in crisi. Era chiamata a identificarsi nello Stato borghese, a “farsi Stato”. La domanda di potere che in qualche modo era emersa, con molte contraddizioni, nella dinamica di massa del 1969-76 e nella coscienza dell’avanguardia proletaria veniva in qualche modo capovolta e sublimata nella partecipazione subalterna al potere avversario. La classe operaia che “si fa Stato” doveva perciò spesso dissolvere il proprio interesse di classe nell’interesse generale dell’ordine borghese. Doveva assumere essa stessa in prima persona la difesa dell’ordine avversario. Migliaia di funzionari e attivisti fedeli di partito furono arruolati nel nuovo compito di tutori dell’ordine e del governo di unità nazionale: nelle fabbriche, nei quartieri, nelle manifestazioni.
La campagna contro l’estrema sinistra e l’opposizione di classe conobbe in quegli anni un deciso salto di qualità, con un ruolo diretto dell’apparato staliniano. L’esplosione del terrorismo delle Brigate rosse e di Prima linea, alimentato dalla disgregazione della vecchia estrema sinistra, non solo contribuì a distorcere e compromettere l’idea stessa di rivoluzione nella percezione di vasti settori di massa, ma incoraggiò la repressione dello Stato contro l’avanguardia di classe. Settori di estrema sinistra che nulla avevano a che vedere col terrorismo furono duramente colpiti nell’isteria generata dalla nuova legislazione d’emergenza sospinta a coperta dal Pci. E, al di là delle dirette misure repressive, ampi strati di lavoratori d’avanguardia ostili all’unità nazionale subirono un effetto obiettivo di intimidazione, una restrizione reale degli spazi di opposizione.
La repressione non fu generale ma selettiva. Non colpì direttamente le masse organizzate e sindacalizzate, di cui il governo – tramite il Pci – cercava anzi, in qualche modo, il sostegno: ma tutti quei settori d’avanguardia delle classi subalterne che, al di là delle loro specifiche posizioni, apparivano fuori e contro l’unità nazionale. La verità è che l’apparato staliniano del Pci voleva valorizzarsi agli occhi della borghesia non solo come l’insostituibile garante dei sacrifici sociali, ma anche come l’insostituibile baluardo dell’ordine e della stabilità, contro ogni resistenza e insorgenza ribellistica.
Eurocomunismo e stalinismo
A questa politica interna corrispose, significativamente, la politica estera del compromesso storico. Era questo un terreno delicatissimo per le speranze di ingresso organico del Pci nell’esecutivo. Il “fattore K” continuava ad ostacolare in modo decisivo questo sbocco. Nell’impossibilità di rimuoverlo, occorreva nuovamente ridimensionarlo e diluirlo. Il lancio propagandistico nel 1976, su spinta del Pci, del cosiddetto “eurocomunismo” (Pci, Pcf, Pce) serviva a questo scopo.
Sulla natura dell’eurocomunismo sono prosperate le più diverse interpretazioni e letture. Il gruppo dirigente del Pci si sforzò di presentarlo come una sorta di “rifondazione democratica del comunismo europeo”. Settori di estrema sinistra finirono con l’avallare, magari criticamente, questa rappresentazione propagandistica. Ancora oggi, un compagno come Livio Maitan rappresenta retrospettivamente l’eurocomunismo come espressione di una “contraddizione dei partiti stalinizzati” tra il condizionamento “decisivo” dei gruppi dirigenti dell’Urss e l’impossibilità di “crescere e acquistare un’influenza duratura senza rispondere ai bisogni delle masse operaie e popolari delle società capitalistiche” (vedi Livio Maitan in La strada percorsa.
La realtà fu di segno opposto. L’eurocomunismo nella sua breve stagione (1976-79) coincise esattamente con il massimo impegno dell’apparato burocratico del Pci nell’intimidazione delle lotte e nella contrapposizione “ai bisogni delle masse operaie e popolari”. E questo per una ragione molto semplice. Esso non rifletteva affatto una pressione “democratica e sociale” della base del partito o del movimento operaio. Rifletteva al contrario l’enorme pressione della borghesia italiana e, indirettamente, dei circoli dominanti dell’imperialismo Usa per una netta recisione dei rapporti del Pci con Mosca quale condizione di ogni sua piena legittimazione di governo.
Con la conferenza eurocomunista di Madrid del 1976, a fianco di Pcf e Pce, Enrico Berlinguer volle dunque inviare al capitalismo italiano un segnale preciso: il Pci è disposto a fare un nuovo passo avanti sul terreno dell’autonomizzazione dalla burocrazia del Cremino e della propria integrazione nell’occidente capitalistico. Il 15 giugno del 1976, a pochi giorni dal voto nelle elezioni politiche Berlinguer rilasciava sul “Corriere della sera” una dichiarazione clamorosa: “Mi sento più sicuro sotto l’ombrello della Nato che altrove”. Era il definitivo seppellimento della tradizione antiatlantica del partito e una dichiarazione di fedeltà piena al quadro capitalistico e imperialistico.
In realtà Berlinguer gettava il cuore oltre l’ostacolo: i legami con l’Urss non potevano essere recisi entro le condizioni storiche del bipolarismo internazionale e infatti si protrarranno ancora per oltre dieci anni sino alla soglia dello scioglimento del partito. Ma certo lo slancio occidentale dell’apparato del Pci era quanto mai significativo. Al punto da incontrare, non a caso, il cauto interessamento dell’imperialismo Usa (come ormai risulta pubblicamente dai materiali d’archivio della Cia) e la speculare resistenza della burocrazia di Mosca. Se il primo compromesso storico aveva avuto il consenso e il mandato del Cremino, il compromesso storico di Berlinguer, trent’anni dopo, trovò Mosca diffidente e ostile. Era uno dei metri di misura del progressivo approfondimento delle contraddizioni interne dello stalinismo internazionale e del loro carattere potenzialmente esplosivo.
Contraddizioni e declino dell’unità nazionale
Ma l’ostentata fedeltà di Berlinguer alla borghesia italiana, al suo Stato, al suo campo internazionale non fu sufficiente a garantire il successo al disegno politico del compromesso storico.
Per alcuni aspetti concorse paradossalmente alla sua crisi: e infatti la vicenda del compromesso storico reale tra il 1976 e il 1978 è in larga parte la storia del progressivo esaurimento delle sue basi d’appoggio.
In primo luogo, sul piano sociale, la politica dell’Eur fece fatica ad affermarsi, trovò significative resistenze e produsse numerose contraddizioni a livelli diversi.
Settori importanti dello stesso apparato sindacale, soprattutto nelle categorie dell’industria, si trovarono nell’impossibilità di applicare in modo coerente la nuova linea di Luciano Lama: sia sul terreno dell’impostazione delle piattaforme contrattuali, sia sul terreno della gestione delle lotte.
Lo sciopero nazionale e la grande manifestazione della Flm nel dicembre 1977 – nettamente critica verso il governo Andreotti, sostenuto dal Pci – rivelava bene la contraddizione interna della Cgil e del partito. Berlinguer “usò” quella manifestazione come leva di pressione sulla DC per chiedere ancora una volta il proprio ingresso diretto nel governo. Ma nel sentimento operaio quella manifestazione rifletteva disorientamento e distacco dall’unità nazionale. Non a caso Luciano Lama riconoscerà dieci anni dopo che la resistenza operaia nelle grandi fabbriche alla politica dell’Eur aveva costituito “un grosso problema” per lo stesso Pci (vedi L. Lama, L’intervista sul sindacato, 1987).
La politica del compromesso storico non riportò certo risultati migliori nel rapporto con la gioventù.
Nel 1977 un consistente movimento giovanile a base studentesca e semiproletaria si sviluppò in collisione frontale col quadro politico di unità nazionale, le sue politiche sociali, i suoi risvolti repressivi, misurando un processo di rottura profonda tra l’apparato del Pci e la sensibilità di una parte rilevante della gioventù italiana. La cacciata di Lama dall’università di Roma (al di là di ogni specifica considerazione sull’avvenimento in sé) così come la grande manifestazione di massa contro la repressione a Bologna nel settembre del 1977 registrarono questo clima generale e contribuirono ad amplificarlo.
Infine, in questo contesto, si moltiplicarono nella base del Pci ed anche in settori del suo quadro intermedio, scossi dal nuovo clima, segni di disorientamento e incomprensione verso il nuovo corso governista del partito.
In secondo luogo i programmi sociali di “austerità e sacrifici” al di là dell’annuncio, registrarono risultati contraddittori e comunque ben inferiori alle attese della borghesia italiana. Una prima manomissione del meccanismo di contingenza con lo scorporo di alcune voci del paniere e la sterilizzazione del calcolo di scala mobile sulle liquidazioni furono materialmente il principale trofeo che il Pci poté esibire agli occhi di Confindustria: era un colpo reale ai lavoratori, ma del tutto insufficiente agli occhi di un padronato gravato dalla crisi. Peraltro la gestione consociativa DC-Pci sul terreno dell’occupazione dello Stato, delle nomine negli enti pubblici, della definizione quotidiana dell’equilibrio di compromesso su ogni singola scelta (a livello di parlamento, di amministrazione pubblica, di giunte locali) sembrò ingigantire nella percezione borghese quei fenomeni di dispendioso parassitismo burocratico e di “ingerenza partitica” che da tempo la classe dominante aveva denunciato e di cui chiedeva il superamento.
I circoli del capitale finanziario che avevano investito realmente sul compromesso storico iniziarono dunque a manifestare inquietudine e delusione.
La demoralizzazione delle masse
Ma se l’unità nazionale deludeva le aspettative della borghesia, rappresentava un colpo mortale per il movimento operaio e la dinamica della lotta di classe.
E’ vero, il grosso delle conquiste operaie, nell’immediato, resse alla svolta. Nell’immediato il padronato non sfondò sul terreno materiale dei rapporti di forza. Ma il morale delle grandi masse, quello sì, conobbe una rapida e drastica inversione di segno. Milioni di lavoratori e lavoratrici, giovani e donne che avevano intrapreso dal 1969 una grande ascesa sociale segnata da una domanda centrale di svolta vedevano “i propri” dirigenti predicare la rinuncia alle conquiste strappate e la fine della mobilitazione sociale. Un ampio settore di base del Pci che aveva a lungo lottato per l’alternativa alla DC vedeva i vertici del proprio partito teorizzare e praticare l’abbraccio con l’avversario politico di sempre; e sentiva crescere attorno al “proprio” partito un clima di distacco, estraneità, contestazione diffusa lungo un processo di segno opposto a quello dei primi anni settanta.
Più di ogni arretramento materiale fu questo il fattore decisivo di demoralizzazione e ripiegamento. Fu questo il punto di svolta che segnò l’inizio della lunga pagina del riflusso operaio: un riflusso dei livelli di combattività e mobilitazione che da lì a qualche anno avrebbe consentito al padronato di passare direttamente alla rivincita sociale e alla distruzione reale delle conquiste sociali del 1968-69. Da questo punto di vista il piano inclinato delle sconfitte sociali degli anni ottanta ha la sua radice, senza alcun dubbio, nella svolta del compromesso storico alla metà degli anni settanta.
Paralisi e crollo del compromesso storico
L’unità nazionale si trovò presto arenata sullo stesso terreno direttamente politico. Sul piano internazionale, l’amministrazione americana, pur interessata all’aperturismo occidentale di Berlinguer, consigliò alla DC una cautela obiettivamente paralizzante. Sul piano interno il compromesso consociativo DC-Pci marginalizzava i partiti borghesi minori producendo un insofferenza crescente. Ma soprattutto determinava un contraccolpo profondo nel partito socialista. Col 1976 l’avvento di Craxi alla guida del Psi poneva termine progressivamente alla lunga stagione frontista Pci-Psi e inaugurava un corso politico segnato da un autonomismo marcato del Partito socialista.
L’autonomizzazione del Psi e lo sviluppo da parte di Craxi di un incursione spregiudicata e sistematica su tutti i punti di difficoltà dello stalinismo italiano (sul rapporto con Mosca, sul rapporto col sindacato, persino sul rapporto con l’estrema sinistra e sulla lotta al terrorismo) costituì da subito un fattore di profondo indebolimento del peso politico del Pci nei confronti della DC e della borghesia. E parallelamente incoraggiò nella DC e negli altri piccoli partiti borghesi, tutti gli elementi di resistenza all’avanzata politica della burocrazia del Pci.
Curiosamente, l’ingresso formale del Pci nella maggioranza politica di governo – ingresso sospinto dal rapimento di Aldo Moro e dal clima emergenziale che né scaturì – coincise con un logoramento già avanzato di tutti i fattori che avevano sospinto l’unità nazionale. Il massimo punto di avanzamento del Pci sul terreno degli equilibri politici coincise così con la massima accelerazione del declino e della crisi del compromesso storico. E l’anno di sostanziale paralisi politica che ne seguì vide non a caso il crollo di quella esperienza..
Alla vigilia delle elezioni politiche del 1979, dopo il mancato accoglimento dell’ennesima rivendicazione di ingresso diretto al governo, Enrico Berlinguer sanciva pubblicamente l’uscita del Pci dalla maggioranza, con l’intento in realtà attraverso questo atto di drammatizzazione di rilanciare in prospettiva con più forza la propria candidatura a governare.
Ma l’insieme della situazione politica aveva ormai un’altra direzione di marcia. Dopo tre anni di unità nazionale il Pci era uscito pesantemente penalizzato dalla prova delle elezioni politiche con la perdita del 4% dei voti. Il nuovo Psi di Craxi iniziava lentamente una rimonta che avrebbe consolidato il nuovo corso autonomista ai danni del Pci. Nella DC la crisi della cosiddetta sinistra morotea (drammaticamente accentuata dalla scomparsa di Moro) favorì in poco tempo l’emergere di una nuova leadership (Forlani) che puntava apertamente sul rapporto privilegiato con Craxi per isolare e ridimensionare il Pci. Ma soprattutto l’inizio degli arretramenti della classe operaia e la crisi del blocco sociale che si era raccolto attorno ad essa nella precedente fase di ascesa, privò la burocrazia stalinista della sua principale leva di pressione sulla borghesia italiana.
Come spesso accade nella storia, il riformismo è la vittima fisiologica della sua stessa politica fallimentare.
Un bilancio di fondo, una lezione per il futuro
L’esperienza reale del compromesso storico smentisce e capovolge, su ogni piano, tutta l’impostazione ideologica della proposta del compromesso storico del 1973.
L’incontro con la DC non è stato ricercato – come affermava Berlinguer – in virtù del suo cosiddetto carattere “popolare” e “nonostante” i suoi rapporti “con i gruppi dominanti della borghesia”: all’opposto è stato ricercato e realizzato proprio per il fatto che la DC era il partito centrale, storicamente dato, della borghesia italiana; l’unico partito abilitato pertanto a legittimare il Pci come forza di governo di fronte alle classi dominanti, sul piano interno e internazionale.
Così l’unità nazionale non è stata l’alleanza del Pci (fosse pure infruttuosa) con la masse popolari cattoliche, quale leva del condizionamento “a sinistra” della DC: è stata l’alleanza della burocrazia del Pci con la rappresentanza politica della borghesia contro le masse comuniste, socialiste, cattoliche.
Fu una disfatta per il Pci. Ma soprattutto una disfatta per il movimento operaio che sarebbe pesata decenni. Perciò stesso fu un successo politico della borghesia italiana che, grazie alla ciambella dell’unità nazionale, riuscì a salvarsi dall’acuta crisi sociale e politica apertasi con il 1969, adispiegare la rivincita degli anni ottanta, a porre le premesse della caduta a destra della prima repubblica negli anni novanta.
A trent’anni di distanza, Piero Fassino e Massimo D’Alema, grazie al crollo dello stalinismo internazionale, hanno potuto coronare sulle ceneri del vecchio Pci il sogno di governo, rimasto incompiuto, della sua burocrazia. Non debbono più mendicare un posto nel governo borghese quali controllori del movimento operaio. Possono aspirare direttamente alla rappresentanza politica centrale della borghesia, alla costruzione della DC della seconda repubblica: eventualmente fondendosi in unico partito con forze eredi della DC e del craxismo e al tempo stesso proponendo, dal versante borghese, un … nuovo compromesso alle forze eredi del movimento operaio (sinistra dei DS, Pdci, Prc, Cgil)
Sta oggi al movimento operaio respingere un nuovo compromesso storico con il partito borghese ulivista in gestazione, difendere la propria autonomia, costruire la propria prospettiva anticapitalistica.
Sta ai comunisti battersi nel movimento operaio e in tutti i movimenti per dare alla nuova ascesa sociale dei due ultimi anni, all’affacciarsi di una nuova generazione, uno sbocco corrispondente alle sue potenzialità. Evitando il disastro di trent’anni fa.