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“LAVORARE PER IL MONDO” n°4 – Il riconoscimento hegeliano

Pubblichiamo un articolo del compagno Stefano Garroni del collettivo filosofico marxista “Maurizio Franceschini” di Roma. L’articoloè stato pubblicato sul sito “il comunista”il 20 marzo 2013.

 

Il tema hegeliano del “riconoscimento” 

 



Hegel è tutto fuorché un intellettualista: senza la creazione mediante l’azione negatrice non c’è contemplazione del dato. La sua antropologia è fondamentalmente differente dall’antropologia greca, per la quale l’uomo dapprima sa e si riconosce, quindi, agisce.” (Alexandr Kojève).

I

Negli anni Venti del nostro secolo, il neopositivista Moritz Schlick sottolineava come conoscere (erkennen) sia propriamente un ri-conoscere (wieder-erkennen).
Com’è noto, questo tema del conoscere come riconosceregià lo abbiamo incontrato in Hegel; dunque, può destare qualche meraviglia ritrovarlo in un ambiente (quello neo-positivista), che di solito considera Hegel il campione del pensiero speculativo e metafisico, contro cui si indirizza l’analisi linguistica, proposta, a partire dal Wienerkreis (Circolo di Vienna, 1929), quale strumento terapeutico contro gli abusi linguistici[1]e di pensiero………………
La stessa puntualizzazione, che chiarisce come per Hegel non si tratti esattamente di erkennen/wiedererkennen (riconoscere), ma sì di erkennen /anerkennen (riconoscere, ma nel senso di legittimare), non ci toglie dall’imbarazzo, dato che M. Schlick usa wiedererkennen, intendendo dire che   equivale a ritrovare in X la possibilità di ricondurlo a una certa forma o regola, nella quale la ragione ritrova o riconosce se stessa; dunque, per Schlick, affermare che la ragioneconoscendo, riconosce X, significa dire che la ragione legittima X, testimonia della sua razionalità, lo accetta nel dominio del razionale. A questo punto wiedererkennen vale esattamente anerkennen.
Da quanto detto, si possono ricavare due conseguenze:
(i) comune a due grandi momenti del razionalismo moderno (pensiero di Hegel e Wienerkreis[2]) è la concezione del conoscere (che ha nella scienza la sua espressione più compiuta[3]) come riconoscere/legittimare;
(ii) ciò posto, possiamo esaminare il tema nel solo Hegel, pur avendo lo scopo di mettere in evidenza come conoscere/riconoscere implichi certe condizioni, che valgono probabilmente per qualunque razionalismo moderno.
In Hegel, anerkennen (riconoscere/legittimare) gioca –non per caso– un ruolo importante sia in ambito epistemologico[4], sia in ambito etico-politico. Perché? Rispondere ci obbliga ad un breve détour.
Chiarisco che quando parlo di tradizione dialettica intendo la linea di pensiero Leibniz – Hegel – Marx. Ciò non significa, ovviamente, ignorare le profonde radici aristotelico-platoniche del pensiero di Hegel  (e quindi le fondamenta nell’antichità classica dell’atteggiamento dialettico); né significa ignorare il contributo grande, che alla dialettica hanno dato personaggi come Descartes, Kant e lo stesso Fichte.  Significa semplicemente proporre i tre autori, che ho citato (Leibniz, Hegel, Marx), come coloro, che più compiutamente hanno dato espressione all’atteggiamento dialettico. Ora, di cosa si occupa la dialettica? Qual è lo spazio, il dominio del suo svolgersi?
La risposta sembra indubbia: la dialettica è qualcosa cha ha senso, entro il dominio dell’esperienza storico-naturale dell’umanità.
In altre parole, la dialettica non ci parla del mondo, ma sì dell’esperienza dell’uomo nel mondo; la dialettica non ci parla della società, ma sì dell’esperienza dell’uomo nella società.
Detta altrimenti, la dialettica non parla di cose (il mondo, la società, la natura), ma sì di sistemi dinamici di relazione: dunque, se il suo dominio è quello dell’esperienza, ciò significa che è quello del continuo, inarrestabilerapporto/scontro/conciliazione/ e così di seguito,  tra uomo, società e natura.
L’indagine dialettica mira fondamentalmente –al suo livello più alto, speculativo- a definire la grammatica (per così dire) dell’inarrestabile dinamica dell’esperienza, a coglierne le forme generali e il modo, la ragione del loro succedersi l’una dall’altra. A questo livello, la dialettica può giungere ad una comprensione piena dei processi –ma, appunto, a questo livello, in cui ciò che si conosce non sono determinate situazioni, determinaticontenuti, ma sì la forma del loro svolgersi.
Come si vede, la piena, assoluta conoscenza, che la dialettica può raggiungere, ha un limite di un certo rilievo: è la piena, compiuta conoscena di … nulla, di nulla di determinato.
Ma esiste, anche, un altro livello: quello di un’analisi più puntuale, dello studio per così dire di , di situazioni determinate, che tuttavia costituiscano un tutto, sufficientemente definito.
Perché, in realtà, comprendere quale sia lo spazio della dialettica significa, certo, cogliere la centralità della dimensione dell’esperienza, ma appunto nei termini, che abbiamo già usato –intendo l’ in quanto sistema dinamico di relazioni uomo / natura / società. Ma questo è, appunto, un tutto, il quale –essendo un inarrestabile rapporto/conflitto/conciliazione e così via-, non è qualcosa di lineare, di sempre identico a sé; piuttosto è qualcosa di travagliato, ricco di torsioni e tensioni, insomma, un , che ospita dentro di sé la contraddizione, lo scompenso, la disarmonia, il .
E’ un  tutto–in questo senso qualcosa di identico a sé-; ma un tutto travagliato, contraddittorio –e che, dunque, ha dentro di sé l’altro da sé, ciò che lo smentisce, lo tormenta, lo minaccia. E’ un tutto sì, ma dialettico, contraddittorio, ed esattamente per questo dinamico, inarrestabile.
Come si vede, il paradosso essenziale di questo tutto è di comprende entro di sé l’uguale e il diverso, l’identitario e il differenziante : ciò significa che la realtà di questo tutto, paradossalmente, sta proprio nel dinamico richiamarsi dell’identico e del diverso, del positivo e del negativo, ognuno dei quali trova nell’altro la propria conferma.
Abbiamo già detto che il tutto di cui parliamo è l’esperienza storico-naturale, di cui l’uomo è, ad un tempo, risultato a protagonista: ma qual è la condizione perché esista una tale esperienza?
Evidentemente la vita sociale; solo in società, infatti, l’uomo può avere rapporto con gli altri uomini e con la stessa natura; solo in società, l’uomo può –mediante il rapporto sociale di lavoro- trasformare la natura e, nello stesso momento, suscitare in sé nuove capacità, plasmare sé stesso con nuove e più complesse abilità. Se comprendiamo questo, comprendiamo facilmente come il tema del riconoscere/anerkennen, in Hegel, passi con totale facilità dal piano propriamente epistemologico a quello etico-politico.
Ad es., per Hegel è vero che la mia volontà diviene qualcosa di sicuro, stabile ed obiettivo, mediante la forma giuridica, cioè il riconoscimento sociale; dunque, in ambito etico-politico, è vero che la possibilità di affermare rimanda all’esistenza di una collettività organizzata in modo pubblico, ovvero mediante regole da tutti conosciute. In altre parole, in quanto vivo nel contesto d’una esperienza sociale organizzata, è vero che significa  riconosciuto da una volontà collettiva, strutturata mediante istituzioni; in questo senso, la pubblicità del diritto non è solo una garanzia per il singolo contro l’arbitrio del Potere, ma sì anche un modo per dare effettiva consistenza all’individuo mediante la società ed alla società mediante l’individuo.

II

Com’è noto, la Fenomenologiahegeliana analizza la categoria scientifica di forza, in quanto appartenente alla dimensione conoscitiva dell’intelletto (o –per dire la stessa cosa con altre parole-, in quanto appartiene a quell’atteggiamento –non solo conoscitivo-detto ). Dunque, con la nozione di forza, abbiamo sì lasciato il livello della certezza immediata, ma ancora non siamo giunti al livello della ragione.[5]
In questa fase, precisa Hegel, la coscienza, nella percezione, giunge a pensieri, che essa raccoglie, in primo luogo, nell’universale incondizionato. Questo universale incondizionato è, ormai, l’oggetto della coscienza, la quale, però, nonconcepisceancora il  proprio concetto come concetto (ovvero come suo prodotto): è per questo che essa non si riconosce nell’oggetto riflettuto.[6]
In altre parole, la conoscenza intellettuale si basa sulla distinzione/separazionetra un soggetto conoscente ed un oggetto da conoscere che sta di fronte al soggetto, come qualcosa di esterno e di dotato di caratteristiche proprie.
Al soggetto non resta che prender atto che così e così è quell’; dunque, il soggetto non è ancora consapevole che l’universale o concetto è il risultato della sua fatica, del suo sforzo, storicamente circoscritto, di organizzazione del reale. Al contrario, il soggetto lo assume, questo reale, come un che di dato, di assoluto (infatti, Hegel usa l’espressione <universale incondizionato>).
Dunque, per  via di questo iato, tra soggetto e oggetto c’è mera contrapposizionee, nell’oggetto, il soggetto non è chez soi–ovvero, quel concetto o quell’universale, che è il contenuto della conoscenza, risulta estraneoal soggetto, quest’ultimo non sa riconoscersiin esso. La conoscenza –entro la dimensione dell’intelletto o, se si vuole, posto l’atteggiamentointellettuale- è caratterizzata -non per caso- dall’oggettivismo.[7]
Ma cosa significa esattamente per  il soggetto nell’oggetto (al contrario di quanto avviene nei limiti dell’intelletto)?
Significa che nella relazione conoscitiva la polarità soggetto/oggetto risulta ormai mediata, ovvero, che l’opposizione di soggetto e oggetto è ’tolta’ – in questo caso, la razionalità dell’oggetto (il concetto, l’universale) si media con la razionalità del soggetto e, dunque, la pur esistente contrapposizione fra i due risulta essere solo un lato della medaglia, l’altro essendo il superamento di quella contrapposizione stessa e, così, il riconoscersi(della razionalità) del soggetto nell’oggetto (ovvero, nella sua razionalità).
Come esplica Kojève, “ogni verità –per Hegel- può e deve essere espressa da parole. La Verità è il reale rivelato dalla conoscenza, e questa conoscenza è razionale, concettuale. Essa è dunque esprimibile mediante un discorso razionale (Logos). … La Vita (Leben), e l’unità del soggetto e dell’oggetto in generale, si rivelano mediante la Ragione …” [8]
Per esprimere il punto di vista di Hegel, così scrive Löwith: “la filosofia deve riconoscere come lo spirito sia per se stesso(dunque, nella sua autonomia e completezza), solo nel caso in cui contrapponga a sé la materialità, in parte come propria corporeità, in parte come mondo esterno in generale, e solo nel caso in cui riconduca questa distinzione all’unità con sé, mediata dall’antitesi e dal suo superamento (ecco, di nuovo, l’esser chez soi dello spirito). Tra lo spirito ed il suo proprio corpo ha luogo naturalmente un collegamento ancora più intimo che non quello tra il resto del mondo esterno e lo spirito. Proprio a causa di questa connessione necessaria del mio corpo con la mia anima, l’attività esercitata immediatamente da quest’ultima nei confronti del primo non è affatto… semplicemente negativa. Io debbo quindi mantenermi anzitutto in questa armonia immediata della mia anima e del mio corpo… Non devo trattare quest’ultimo con disprezzo e ostilità … Se io mi comporto conformemente alle leggi del mio organismo corporeo, la mia anima è allora libera nel suo corpo… L’anima non può tuttavia arrestarsi a questa unità immediata con il suo corpo. La forma dell‘immediatezza di quella armonia contraddice al concetto dell’anima, cioè alla sua determinazione di essere un’idealità riferentesi a se stessa. Per diventare conforme al suo concetto, l’anima deve trasformare la sua identità con il corpo in una identità mediata, ossia posta dallo spirito, deve cioè impadronirsi del corpo, plasmarlo come strumento docile e adatto alla propria attività, deve trasformarlo in modo da poter in esso riferire se a se stessa” .[9]La pagina di Löwith serve bene a rimarcare un tratto fondamentale del pensiero di Hegel.
Questi non intende affatto né negare le duplicità e opposizioni, che si offrono nel reale; né pretende sacrificare questo opposto in nome di quell’altro –ad es., la sensibilità, la passione, in nome della ragione, l’irrazionale in nome del suo opposto. Tutt’al contrario, prender atto dell’opposizione serve a Hegel per costruire una prospettiva di riconoscimento.
Ovvero, una prospettiva, in cui l’opposizione tra mediato e immediato, tra sensibilità e riflessione, si ricomponga in una nuova dimensione, in cui la sensibilità, il corpo –pur nella loro realtà, nella loro differenza– siano, però, la sensibilità e il corpo dello spirito.
In questo senso, non si trova in Hegel la negazione idealistica del corporeo, ma sì la volontà di umanizzazione di quest’ultimo, di sua trasformazione da mero opposto dello spirito, a componente dello stesso, dunque, in qualcosa, in cui lo spirito può riconoscersi.
Ma, è chiaro, questa umanizzazione del corporeoo, in altri termini, questo riconoscersi dello spirito nell’altro da séè, realmente, un processo, una storiache si sviluppa.[10]Per questo, non va perduta la puntualizzazione di Lukàcs, quando scrive che è stato “Hegel ad avvertire per primo sia la struttura complessa dei fenomeni, sia la processualità della loro essenza, dei loro nessi, ed a metterle (questa struttura e questa processualità) al centro dell’edificio metodologico di qualsivoglia filosofia.”[11]Non può certo meravigliare se questo suo ‘taglio’ la filosofia di Hegel lo esibisca pure in ambito politico.
Anche la filosofia politica di Hegel –rimarca Löwith- è un riconoscimento, una conciliazione con . Il pensiero è ora tutto presso di sé e, al tempo stesso, come idea organizzata, abbraccia l’universo, cioè il mondo divenuto comprensivo e trasparente … <Sembra che allo Spirito del mondo sia ora riuscito di sbarazzarsi da ogni essenza estranea e oggettiva e … di generare da sé ciò che gli diviene oggettivo e, comportandosi con calma, di tenerlo in suo potere.”[12]
Vediamo, dunque, che nel linguaggio di Hegel, <conciliazione con ciò che è>  non ha, banalmente, un significato conformistico, conservatore, di chi insomma si contenta dello stato di cose esistente (senonché, questa è l’interpretazione che di solito vien data, quando si insiste sull’idealismo di Hegel).
Significa, invece, che è possibile la mediazione tra lo spirito e “ciò che è”, nel senso che il primo può riconoscersi nel secondo, ovvero che “ciò che è”  è conoscibile, è retto, è guidato nel suo movimento, nella sua storia –così come capita anche al soggetto, che lo conosce- dal dinamismo della ragione.
Giusta questa impostazione, è facile comprendere l’ostilità hegeliana nei confronti di ogni forma di soggettivismopolitico e morale ed, al contrario, il suo orientarsi verso una fondazione oggettiva (razionale)del movimento e dell’agire politici, nonché  della scelta morale.[13]
Come osserva Cassirer, dall’hegeliana Filosofia del dirittoricaviamo questo: “cosa sia diritto e dovere, in quanto elemento in sé e per sé razionale delle determinazioni volitive, non è essenzialmente proprietà particolare di un individuo, né [è qualcosa, che si dà] nella forma del sentimento … ma [sì qualcosa, che si offre] essenzialmente [nellaforma] delle determinazioni universali pensate, cioè nella forma delle leggi e dei precetti.”[14]
Prima di procedere nella citazione di Cassirer, è bene precisare che, per Hegel, il sentimento è una semplice forma soggettiva, è il modo nel quale qualcosa è in me, in quanto sono il soggetto di qualcosa. Questa forma rimane uguale in sé, in tutte le diversità del contenuto, ed è dunque in sé individualità propria.[15]
Essendo questa forma che “rimane uguale in sé, in tutte le diversità del contenuto”, il sentimento è un che di astratto e di separato, scisso dal suo contenuto proprio: in questo senso si può parlare di formalismo del sentimento, di una sua incompletazza; ed allora comprendiamo bene Hegel, quando scrive che “il contenuto del sapere costituisce la determinazione del sentimento”.[16]
Insomma, il sentimento è qualcosa che ha bisogno di altro per precisarsi, per determinarsi: ha bisogno, per riprendere un’espressione tipica di Marx, di un finish. E questo finish, questo completamento determinante è il contenuto del sapere, dunque, un elemento razionale.
Dall’astrattezza, dal formalismo del sentimento, si esce mediante la ragione. A questo punto possiamo tornare a Cassirer:
Lo “Stato non può riconoscere la coscienza morale nella sua forma caratteristica, cioè in quanto sapere soggettivo; tanto poco quanto, nella scienza, l’opinione soggettiva, l’assicurazione e il richiamo ad un’opinione soggettiva hanno un valore.” Una conseguenza è che ogni tentativo di costruire un cosiddetto stato ideale in conformità ai nostri canoni morali soggettivi è dunque da giudicarsi vano e futile. La filosofia può immergersi nella realtà e conoscerne il principio; ma non può creare la realtà dal nulla, né modificarne la sostanza. Questo pensiero è espresso in maniera assai notevole nelle celebri parole con cui Hegel conclude la prefazione della Filosofia del diritto: “Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. Questo è ciò, che il concetto insegna e la storia mostra necessario: che, cioè, prima l’ideale appare di contro al reale, poi, nella maturità della realtà, costruisce questo mondo medesimo … in forma di regno intellettuale.”[17]. A questo punto, andiamo a qualche conclusione significativa per la nostra ricerca.
Ricostruito in questo modo il pensiero di Hegel, comprendiamo perfettamente come il filosofo tedesco tematizzi diversamente da Rousseau il momento dell’autocoscienza, ovvero della presa di coscienza di sé da parte del soggetto.
Rousseau, abbiamo visto, per realizzare il aveva bisogno di separare l’uomo dalle proprie circostanze di vita, dalle ‘deformazioni’ introdotte in lui dalla vita sociale.
Al contrario, già con la Fenomenologia, Hegel non ha dubbi circa il fatto che la formazione dell’autocoscienza implichi l’esistenza di una pluralità di coscienze, tra le quali si realizza una complessa dialettica, che è la condizio sine qua non del sorgere, appunto, del Selbsbewußtsein (autocoscienza).
Ciò significa, in altre parole, che la formazione dell’autocoscienza consegue ad un processo di riconoscimento, per il quale io son riconosciuto dall’altro, dunque, io implico l’altro.
L’autocoscienza –scrive Hegel- comporta l’esser riconosciuto: quindi, l’autocoscienza è in e per sé, nella stessa misura in cui è per un altro; il concetto di autocoscienza non è possibile coglierlo, se non in questo incrocio, multilaterale e dai vari significati, i cui momenti (le singole autocoscienze) vanno, comunque, assunti come contrapposti.[18]
Non dunque contrapposizione tra coscienza di sé e vita sociale, ma ben al contrario quest’ultima intesa come condizione necessaria della coscienza di sé.

[1] Versprechien –si noti che questo termine fa parte del vocabolario freudiano.
[2] – Sia pure per ragioni apposte, collocare il pensiero di Hegel e il Wienerkreis entro lo svolgimento del razionalismo moderno può destare qualche importante riserva. Evidenti motivi di opportunità, ci inducono –ora- a mettere tra parentesi tale questione.
[3] – Naturalmente è importante sottolineare una differenza: in Hegel, la scienza (Wissenschaft) coincide con il punto di vista speculativo o della ragione; per il Wienerkreis, al contrario, il modello della scientificità è dato dal dominio delle scienze particolari (Einzel – wissenschaft), che Hegel differenziava, invece, dallo Scientifico in senso pieno, così come differenziava l’intelletto dalla ragione.
[4] – Uso il termine semplicemente nel senso di pertinente il conoscere.
[5] – Così  A. Kojève descrive l’orizzonte del sapere scientifico-intellettuale, nella prospettiva della Fenomenologia di Hegel: ““Dapprima si presenta –dalla parte dell’oggetto- il vuoto Aldilà, senza contenuto, la pure negazione del . Dalla parte del soggetto: il sillogismo. In seguito, grazie ad una interazione del sillogismo con l’Aldilà, si arriva al : è la scienza (newtoniana). Viene poi la critica di questa scienza cara a Kant: questa scienza è mera tautologia (…).”  (A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano 1996: 59). Naturalmente, così come la dimensione della conoscenza intellettuale può essere correttamente indicata come un certo atteggiamento, che l’uomo assume in una determinata fase della sua storia; parimenti è vero che certezza immediata e ragione, anch’esse, stanno ad indicare altrettanti atteggiamenti, storicamente assunti dell’uomo.
[6] – Hegel, Phénoménologie de l’Esprit, I, traduction de J. Hyppolite, Paris 1941: 109s).
[7] – Hegel, Phénoménologie …, op. cit.: 110.
[8] – Kojève, op. cit.: 57, 59.
[9] – K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Torino 1959: 137.
[10] – “L’unità tra uomo e mondo –[per Hegel]- non si constata, non è un dato: essa deve essere realizzata mediante l’azione.” (Kojève, op. cit.: 64).
[11] – G. Lukàcs, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, Milano Guerini 1990: 120.
[12] – K. Löwith, op. cit.: 79s.
[13] – Dovrebbe essere inutile sottolineare come questo anti-soggettivismo venga pienamente ereditato da Marx. Senonché, farlo non è per nulla pleonastico, se si tien presente certo bizzarro coniugare Marx ed utopia, in cui frequentemente oggi ci si imbatte. Il nucleo razionale che, con molta liberalità, si può riconoscere a questa tematizzazione utopistica di Marx, consiste nell’indicare, in qualche modo, un problema reale: come mostra in modo particolarmente chiaro l’elaborazione di Lenin, esiste per il marxismo il problema di coniugare il marcato suo senso dell’obiettività del dinamismo storico con l’altra sua indubbia componente, ovvero, la consapevolezza della necessitò di un intervento –cosciente, volontario e organizzato– dell’uomo nella storia. Su questo, cf. “Lenin: la riflessione sul Partito. Un uso della dialettica”, in S. Garroni, Dialettica e socialità, Roma 2000: 117ss.
[14] – E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura, Bari 1965: 119. Si ricordi, d’altronde, il §. 377 dell’Enciclopedia hegeliana, in cui si legge che non significa conosci l’individuo con le sue particolarità, il suo carattere, aspirazioni, ecc.; ma sì conosci ciò che è vero nell’uomo, la sua essenza. E nell’Aggiunta al §. Hegel chiarisce che la conoscenza filosofica è la conoscenza più concreta, ma dell’idea  che realizza se stessa. “Soltanto in tempi in cui la realtà è un’esistenza vuota, priva di spirituale e di carattere, -scrive Hegel- può essere consentito all’individuo di ritrarsi indietro dalla vita reale, nell’interiorità. Socrate sorse nel tempo della corruzione della democrazia ateniese; egli volatilizzò ciò che esisteva e si ritrasse in sé, per cercarvi il diritto e il bene. Anche ai nostri tempi avviene, più o meno, che il rispetto per ciò che esiste non c’è più, e che l’uomo vuole avere ciò che vale in quanto sua volontà, in quanto cosa da lui riconosciuta.” (v. F. Valentini, Soluzioni hegeliane, Milano 2001: 93).
[15] – G.W.F. Hegel, Lezioni sulle prove dell’esistenza di dio, Bari 1970: 53.
[16] – G.W.F. Hegel, op. cit.: 44.
[17] – Cassirer, op. cit.: 119.
[18] – G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, I. Frankfurt/Main 1998: 145s.
 

 

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