Recensione del libro “Maelstrom” di Salvatore Ricciardi
“Inquieto ralenti di un assalto al cielo”
Maelstrom di Salvatore Ricciardi, è un salto nella storia sociale e politica del nostro paese vista con
gli occhi di chi, per un quindicennio, ha tentato di mutarne gli assetti istituzionali ed economici. Il
sottotitolo è esplicativo: si tratta di «scene di rivolta e autorganizzazione di classe in Italia dal 1960
al 1980» (DeriveApprodi, pp. 369, euro 22). Ricciardi è stato un militante delle Brigate rosse, ma il
suo non è l’ennesimo libro di ricordi sull’organizzazione armata, «versione del militante» che
racconta in soggettiva il proprio cammino. L’autore prova a ricostruire, intrecciando ricerca storica
e sociologica, il percorso di almeno due generazioni, trovando negli anni Sessanta i prodromi di
quello che poi sarebbe accaduto nel decennio successivo, cosa fino ad ora troppo spesso evitata da
quanti si sono occupati dei cosiddetti «anni di piombo».
In molte ricerche la complessità dei rapporti sociali e di classe è stata infatti sacrificata in nome di
ricostruzioni che passavano da un fatto di sangue all’altro limitandosi all’analisi della spinta
personale e usando una categoria, quella di violenza politica, che nulla ha di storico e poco di
sociologico. Maelstrom invece corre su un doppio binario, quello dell’esperienza carceraria, che si
lega al rapimento del giudice d’Urso operato dalle Br nel 1980 e alla conseguente rivolta nello
«speciale» di Trani, e quello delle lotte sociali che toccarono l’Italia a partire dalla crisi del
cosiddetto boom economico. Crisi alla quale la classe dirigente non seppe reagire e che innescò una
serie di fenomeni inediti che mutarono il volto del paese, dal sindacalismo di base alle rivolte
studentesche, fino al periodo delle stragi, segnate dal tragico dicembre 1969. Fu la perdita
dell’innocenza, si chiede Ricciardi? La risposta è diretta: «nel paese e in Europa non c’era traccia
d’innocenza. Dopo il massacro della guerra ci presentarono l’altra scena, quella della ricostruzione.
L’arrivismo egoistico, l’accaparramento senza timore, il profitto sui morti, la borsa nera,
l’affamamento e il supersfruttamento, l’arricchimento sulla pelle altrui (…). Era questo ciò che le
generazioni precedenti ci avevano lasciato in dote. Dove stava l’innocenza?».
Non è l’unico caso nel quale l’autore rovescia il significato di termini entrati oggi nell’immaginario
collettivo con un preciso senso. Per esempio, la «memoria» per un carcerato è qualcosa da evitare:
«stop ai pensieri sul passato, e se hai una pena lunga o l’ergastolo, anche quelli sul futuro». Lo
«scontro di civiltà», espressione divenuta famosa grazie al libro di Samuel Huntigton, viene visto da
Ricciardi come la contrapposizione tra chi era sfruttato e chi sfruttava. Anche l’espressione «morti
bianche», usata per i caduti sul lavoro, viene rovesciata. Il ricordo di un giovanissimo collega
caduto da un’impalcatura, il colpo secco che gli spezza la schiena e il sangue sparso sulla terra (che
una volta uscito non rientra più), danno un senso di rabbia al sentire questa locuzione: si tratta
dell’ipocrisia di chi vuole addolcire l’accaduto, mentre la verità è che sono persone uccise,
«assassinate».
Anche il concetto degli opposti estremismi viene criticato. Altro che «rossi» e «neri»: in quegli
anni, per l’autore, era in gioco la rivoluzione proletaria, abbattere il capitalismo e costruire una
società diversa, senza le galere, la scuola selettiva, le morti sul lavoro, le gerarchie e le guerre. I
«neri», i fascisti, entrarono in quella dinamica «con lo stesso ruolo che hanno i guardioni agli
ingressi delle discoteche: aggredire chiunque non si conforma alle regole e all’ordine esistente, alle
gerarchie e alla proprietà». Da Piazza Statuto ai morti di Reggio Emilia, dalla strage di piazza
Fontana alla bomba alla stazione di Bologna, il libro ripercorre gli strappi che l’Italia ha patito con
il distacco dello studioso, senza cercare giustificazioni per le scelte dell’autore, il suo impegno nella
guerriglia, la parabola prima ascendente e poi impietosamente discendente dell’organizzazione alla
quale è appartenuto. Ricciardi non racconta però la storia delle Br, ma la inserisce all’interno di
quella italiana, evitando di cadere nel tranello teso da anni ai lettori italiani dalla dietrologia, che
vede in quella organizzazione armata il braccio esecutivo di un grande complotto finalizzato a
fermare l’ingresso del Pci al governo.
Eppure il Partito comunista italiano in quel governo c’era stato, dal 1944 al 1947; aveva contribuito
a ricostruire il paese, governato importanti città e regioni, sostenuto, infine, esecutivi democristiani
nella metà egli anni Settanta in cambio della presidenza di commissioni parlamentari. E non perché
ci fossero le Brigate rosse ma perché, come disse in più di un’occasione Aldo Moro, dalle urne nel
1976 erano usciti due vincitori, la Dc e il Pci. Non si trattava del compromesso storico
berligueriano, visto da Ricciardi come il «punto di arrivo di una strategia elaborata dal Pci fin dal
dopoguerra», ma di una visione pragmatica della realtà politica. La Dc non poteva governare da
sola e solo il sostegno dei comunisti, mantenuti comunque fuori dal governo, avrebbe garantito
quella stabilità necessaria a politiche di sacrifici in un paese con una inflazione a due cifre. Il
brigatismo cercò di inserirsi in questa dialettica con il rapimento di Aldo Moro, ma non raggiunse lo
scopo di una trattativa con i partiti della maggioranza, che si ritrovarono uniti nel rendere
inoffensive le parole che il leader democristiano stava scrivendo dal cosiddetto «carcere del
popolo».
Fu una grande sconfitta politica per le Br e l’uccisione dell’ostaggio riuscì, forse, a dilazionarne lo
sfaldamento per un paio di anni. Per Ricciardi, il 1967 è l’anno mirabilis. Perché venne ucciso il
Che, perché Israele vinse la guerra dei sei giorni, perché in Grecia un manipolo di colonnelli
sovvertì la democrazia, instaurando un regime terroristico, sebbene non fascista e il 2 Giugno a
Berlino Ovest la polizia uccise lo studente Benno Ohnesorg durante le proteste per la visita del
golpista persiano Reza Pahlavi. Il Pci non riesce a dare risposte esaustive a tutto ciò e slogan prima
portati come vessilli diventano logori. Quando il giovane Ricciardi scoprì l’inganno del falso mito
della Resistenza tradita, la sua delusione fu enorme. Lesse più volte con altri compagni che il Pci,
durante la lotta di liberazione non voleva condurre a termine una rivoluzione sociale ma collaborare
con le altre forze antifasciste per nascita di una nuova Italia.
Era tutto vero: nessuno aveva mai avuto intenzione di trasformare quella lotta in qualcosa di
diverso, di fare come Tito in Jugoslavia, e il mito nato con lo scoppio della guerra fredda era dovuto
esclusivamente alla scelta di mantenere un rapporto privilegiato con l’Unione Sovietica: una bella
storia da raccontare ai giovani, nulla di più. Le risposte, dunque, giunsero da fuori: in Viet-Nam gli
Stati Uniti stavano incontrando una resistenza inattesa, mentre in Cina, Mao Tze Dong lanciò la
rivoluzione culturale. Tutto ciò si tradusse in Italia nella ricerca dell’indipendenza dal sistema del
capitale e nella lontananza proprio dalla politica del Partito comunista. Tutto si mise in movimento
e nacquero, da lì a pochi anni, molte organizzazioni, alcune armate, altre no. Ricciardi annota solo
che tra la crescita quasi esponenziale delle Br e la la loro repentina caduta passarono pochi anni, ma
sembrano decenni.
Lo Stato reagì con una legislazione speciale e, in alcuni casi circoscritti e giudicati dalla
magistratura, con la tortura. Poi vennero le prime delazioni, il fenomeno del pentitismo e quello
della dissociazione, una «diarrea di dissociazioni» le definisce Ricciardi. Furono le dissociazioni a
dare il colpo di grazia all’organizzazione, portando via con i protagonisti anche le singole storie,
che pezzo dopo pezzo hanno demolito la verità storica e la memoria di quella esperienza. Anche per
dire no a tutto questo Salvatore Ricciardi ha sentito la necessità di comporre la propria biografia, ma
collocandola con accuratezza dentro il risultato di una ricerca sul proprio passato e su quello del suo
paese.
Marco Clementi