Gandhi: la realtà fuori dal mito
Per anni mi sono scontrata contro coloro, oltre a professarsi pacifisti e non violenti tout court, portavano a sostegno di quel dannoso atteggiamento delle frasi di Gandhi (alcune estrapolate da scritti e contesti generali ed adattate alla bisogna per trasformare Gandhi in “uomo da prendere a modello”, altre solo attribuite dalla leggenda metropolitana, un po’ come la famosa poesia di Neruda, scritta da Martha Medeiros anni dopo la morte del poeta), ma ecco che, finalmente, uno storico autorevole viene in soccorso a tutti noi: mi riferisco al libro di Domenico Losurdo “La non-violenza – Una storia fuori dal mito”, edito da Laterza, dove finalmente si opera una corretta disamina della realtà dei fatti per quanto riguarda l’opera di Gandhi, il cosiddetto “non-violento”, un borghese che applaudì a tutte le guerre della sua epoca fino a diventare reclutatore di soldati. Leggendo il libro, ciò che emerge chiaramente dall’analisi dei fatti storici (e in quanto tali inconfutabili) è che Gandhi, nella prima fase della sua lotta politica in Sud Africa, non pensò mai ad una emancipazione generale dei popoli coloniali.
Egli, al contrario, invitava la potenza coloniale, la Gran Bretagna, a non confondere il popolo indiano, che al pari degli inglesi poteva vantare un’antica civiltà e origini razziali “ariane”, coi neri, anzi per utilizzare le sue parole: coi rozzi Kaffir (termine spregiativo per neri africani, usato dai mercanti di schiavi arabi a indicare i non credenti), la cui occupazione è la caccia e la cui sola ambizione è di radunare un certo numero di capi di bestiame al fine di acquistare una moglie per poi trascorrere un’esistenza di indolenza e nudità.
Pur di conseguire la cooptazione del popolo indiano nella razza dominante (ariani e bianchi) ed entrare in tal modo a far parte dei dominatori, agli inizi del Novecento Gandhi chiamò i suoi connazionali a mettersi al servizio dell’esercito imperiale britannico impegnato in una feroce repressione a danno degli zulù. Soprattutto, in occasione della prima guerra mondiale, il presunto campione della non-violenza si propose di reclutare 500mila uomini per l’esercito britannico e lo fece con così tanto zelo e tanto orgoglio da scrivere al segretario personale del viceré: Ho l’impressione che se divenissi il vostro reclutatore capo, potrei sommergervi di uomini. Poi, rivolgendosi sia ai suoi connazionali sia al viceré, Gandhi continuò a celebrare il valore della vita militare e del combattimento al fronte, insistendo in modo quasi ossessivo sulla disponibilità al sacrificio cui era chiamato a dar prova il popolo indiano: Occorre offrire il nostro appoggio totale e deciso all’Impero»; «[l’India] deve essere pronta a offrire tutti i suoi figli idonei come sacrificio per l’Impero in questo suo momento critico – il concetto ribadito più volte in diversi discorsi e scritti – dobbiamo dare per la difesa dell’Impero ogni uomo di cui disponiamo»; «dobbiamo offrire il nostro appoggio totale e deciso all’Impero»; «è nostro dovere offrire nell’ora critica tutti i nostri figli validi in sacrificio all’Impero. Con ferrea coerenza (bellica) Gandhi non escludeva neppure i suoi propri figli tra quelli che auspicava si sarebbero sacrificati in guerra in nome della potenza britannica.
In seguito, Gandhi si trovò a fronteggiare due avvenimenti, uno di carattere internazionale e l’altro nazionale, che lo portarono ad un parziale cambiamento di rotta. A livello internazionale, la rivoluzione d’ottobre e la diffusione dell’agitazione comunista nelle colonie e nella stessa India costituirono un fenomenale colpo di piccone all’ideologia della piramide razziale e fecero apparire obsoleta l’aspirazione alla cooptazione nella razza bianca o ariana, quella stessa razza che ora reprimeva la rivolta generalizzata dei popoli di colore.
A livello nazionale, a svolgere un ruolo decisivo nella modifica di atteggiamento di Gandhi fu il massacro di Amritsar perpetrato, nella primavera del 1919, dagli Inglesi nel corso di un raduno per festeggiare l’arrivo della primavera, che accogliendo migliaia di indiani sfidava l’articolo della legge marziale che proibiva le riunioni di cinque o più persone in città.
Le truppe inglesi aprirono il fuoco sulla folla provocando in totale quasi 1600 vittime tra morti e feriti. All’enorme costo in vite umane si unì anche una terribile umiliazione nazionale e razziale, con l’obbligo per gli abitanti della città ribelle di doversi trascinare a quattro zampe per tornare a casa o uscirne. Per dirla con Gandhi, uomini e donne innocenti furono obbligati a strisciare come vermi, sul ventre. L’ondata d’indignazione per le umiliazioni, lo sfruttamento e l’oppressione inflitti dall’Impero britannico fecero dileguare tra gli indiani il desiderio di essere cooptati in una razza dominante che ora appariva odiosa e capace di ogni infamia. In questo contesto si effettuò un fazioso cambiamento nella politica di Gandhi, che non significò, si badi bene, la fine della disponibilità a chiamare i suoi connazionali ad accorrere sui campi di battaglia a fianco della Gran Bretagna: semplicemente ora questa chiamata alle armi poneva come condizione preliminare la concessione dell’indipendenza all’India.
Certo il “secondo Gandhi” non avrebbe potuto promuovere la partecipazione dei suoi connazionali alla repressione di una rivolta come quella degli zulù (un popolo crudelmente oppresso dal colonialismo); infatti a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre e dalla repressione di Amritsar il movimento indipendentista indiano fu parte integrante del movimento di liberazione nazionale dei popoli oppressi e Gandhi s’identificò a pieno con questo movimento senza procedere ad una lacerazione tra violenti e non-violenti.
Nel giugno 1942, in una lettera indirizzata a Chiang Kai-shek, allora alleato del Partito comunista cinese, egli espresse la sua profonda simpatia e ammirazione per l’eroica lotta e gli infiniti sacrifici del popolo cinese, deciso a difendere la libertà e l’integrità.
Altrettanto clamorose le sue manifestazioni di simpatia nei confronti di Mussolini e del fascismo espresse dopo la sua visita in Italia nel 1931: Il Duce è uno statista di primissimo ordine, completamente disinteressato, davvero desideroso della grandezza della sua Patria; un Superuomo e ancora: È animato da un amore infiammato per il suo popolo e gode dell’appoggio della gran massa degli Italiani. Dichiarò inoltre ammirazione per le riforme Fasciste sostenendo che: Il fascismo è deciso e talora violento, ma siccome la violenza è alla base della società occidentale, le riforme di Mussolini sono degne di uno studio imparziale. (Ricordo a quanti mi hanno voluto segnalare che nel 1931 Mussolini non era ancora non si era ancora alleato ad Hitler, che Matteotti fu assassinato nel 1924).
E ancora, nel settembre 1946 – nel frattempo Churchill aveva aperto la Guerra fredda con il discorso di Fulton – Gandhi espresse simpatia per il grande popolo dell’Unione Sovietica, diretta da un grande uomo quale Stalin. Mi fermo qui, chi fosse interessato potrà, in rete o in biblioteca, attraverso l’analisi dei fatti storici o leggendo il libro di Losurdo continuare a documentarsi da solo; per quanto mi riguarda considero Gandhi un borghese , un politico inetto, impegnato a promuovere se stesso, che professava il suo amore per il genere umano come idea, mentre di fatto disprezzava gli individui e malgrado l’atteggiamento assunto nella seconda parte della sua politica, un razzista inesorabile che affermava nei suoi discorsi parlando degli anni di prigione: Potevamo capire di non essere classificati come bianchi, ma essere messi allo stesso livello dei nativi mi è sembrato troppo da sopportare. I Kaffir sono di solito incivili, i condannati ancora di più. Sono fastidiosi, molto sporchi e vivono come animali.
ohhhhhhhhhhhhhhhhhh e Ghandi vaffanculo!