Estratti da il diritto all’ozio
Paul Lafargue […] Lavorate, lavorate, proletari, per aumentare il patrimonio sociale e le vostre miserie individuali; lavorate, lavorate, affinchè, diventando più poveri, abbiate maggiori motivi per lavorare ed essere miserabili. Questa è la legge inesorabile della produzione capitalistica. Dato che, prestando ascolto alle fallaci parole degli economisti, i proletari si sono abbandonati anima e corpo al vizio del lavoro, essi precipitano l’intera società in quelle crisi industriali di sovrapproduzione che sconvolgono l’organismo sociale. E quindi, essendovi pletora di merci e penuria di compratori, gli opifici chiudono e la fame sferza le popolazioni operaie con la sua frusta dalle mille corregge. I proletari, abbrutiti dal dogma del lavoro, senza comprendere che il superlavoro che si sono inflitti durante il periodo di pretesa prosperità è la causa della loro attuale miseria, invece di correre al granaio e gridare “Abbiamo fame e vogliamo mangiare!… È vero, non abbiamo un soldo in tasca, ma per quanto pezzenti siamo, abbiamo mietuto noi il grano, e noi abbiamo vendemmiato l’uva…” […] Invece di approfittare dei momenti di crisi per una distribuzione generale dei prodotti e una baldoria universale, gli operai, sul punto di crepare di fame, vanno a battere la testa contro le porte della fabbrica. Con la faccia smunta, il corpo smagrito, essi assillano i fabbricanti con discorsi pietosi: “Buon signor Chagot, gentile signor Schneider, dateci del lavoro, non è la fame, ma la passione per il lavoro che ci tormenta!”. E quei miserabili, che hanno appena la forza di stare in piedi, vendono dodici e quattordici ore di lavoro due volte meno caro di quando avevano il pane nella madìa. E i filantropi dell’industria, eccoli approfittarsi della disoccupazione per produrre più a buon mercato. […]
[…] Queste miserie individuali e sociali, per grandi e innumerevoli che siano, per eterne che appaiano, spariranno come le iene e gli sciacalli all’avvicinarsi del leone, allorché il proletariato dirà: “Lo voglio”. Ma perché pervenga alla coscienza della sua forza, è necessario che il proletariato schiacci sotto i piedi i pregiudizi della morale cristiana, economica, libero-pensatrice; è necessario che ritorni ai suoi istinti naturali, che proclami i Diritti dell’ozio, mille volte più sacri e più nobili degli asfittici Diritti dell’uomo, escogitati dagli avvocati metafisici della rivoluzione borghese; che si costringa a non lavorare più di tre ore al giorno, a non far niente e a far bisboccia per il resto della giornata e della notte.
Fin qui il mio compito è stato facile, non avevo che da descrivere dei mali reali a noi tutti, ahimè, ben noti! Ma convincere il proletario che la parola d’ordine che gli è stata inculcata è perversa, che il lavoro sfrenato al quale si è dato dagli inizi del secolo è il più tremendo flagello che mai abbia colpito l’umanità, che il lavoro diverrà un complemento del piacere dell’ozio, un benefico esercizio per l’organismo umano, una passione utile all’organismo sociale solo quando sarà saggiamente regolamentato e limitato a un massimo di tre ore al giorno, questo è un compito arduo al di sopra delle mie forze; solo dei fisiologi, degli igienisti, degli economisti comunisti potrebbero affrontarlo. Nelle pagine che seguono, mi limiterò a dimostrare che, dati i mezzi di produzione moderni e la loro illimitata capacità riproduttiva, bisogna reprimere la passione aberrante degli operai per il lavoro e obbligarli a consumare le merci che producono. […]
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