Alcune osservazioni sulla lotta alla povertà nei paesi capitalistici
La condizione di continuata o cronica deprivazione delle risorse indispensabili a vivere in condizioni dignitose e al godimento dei diritti umani inalienabili è il prodotto di un sistema politico-economico globale che ogni giorno, ogni istante, riproduce accresciute le disuguaglianze sociali e schiaccia gli individui.
Partendo dall’ovvio assunto che la povertà non possa essere avversata da chi sostiene e promuove un ordine caratterizzato da scelte politiche neoliberiste che hanno effetti sociali devastanti, ne consegue che questa condizione non possa essere combattuta solo attraverso un processo di auto-emancipazione e di autorganizzazione dei ‘poveri’ (ossia di tutti gli uomini e tutte le donne che lavorano sottopagati, che sono disoccupati, che devono migrare …) ossia da noi.
L'”Employment Outlook 2009″ dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, OCSE, che raggruppa i paesi capitalistici più avanzati, dice una verità molto semplice sulla crisi economica in atto: il peggio, che per i padroni è (forse)passato, per i lavoratori viene adesso.L’anno che verrà nell’area OCSE i disoccupati arriveranno a 57 milioni, con un tasso molto vicino al 10% delle forze attive di lavoro. Per l’Italia la crescita della disoccupazione toccherà il 10,5%. Come riconosce il rapporto stesso, ci troveremo ad affrontare la situazione peggiore dal dopoguerra.
Sull’Italia l’OCSE dice che l’impatto della crisi sul mercato del lavoro italiano è stato fino a oggi “moderato” rispetto a molti altri paesi. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 7,4% nel marzo del 2009, ma “stime preliminari suggeriscono un ulteriore significativo incremento nel secondo trimestre”. E aggiunge che in Italia “il tasso di disoccupazione sarebbe stato più alto se un gran numero di lavoratori non avesse rinunciato a cercare attivamente lavoro”.
Le statistiche del rapporto dell’OCSE traducono in numeri astratti e generali gli innumerevoli casi particolari che la cronaca ci ha presentato in queste ultime settimane: crisi aziendali, chiusure, licenziamenti collettivi, precari lasciati a casa.
Ma anche, per fortuna, mobilitazioni, proteste clamorose e ostinate resistenze.Di fronte alla tempesta in arrivo, tuttavia, la resistenza caso per caso non potrà bastare. Per ogni situazione che riuscirà a salvarsi, quante saranno,quelle che affonderanno Lottare, anche duramente, non basterà.
E’ quanto mai necessario coordinare le situazioni che resistono e attrezzarsi per una risposta generale.
Servono obiettivi rivendicativi adeguati: il blocco dei licenziamenti; un netto aumento dell’integrazione salariale per chi è sospeso e dell’indennità di disoccupazione per chi ha perso il lavoro; l’esproprio e la nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori delle aziende che chiudono e licenziano, per evitare smantellamenti e speculazioni; la riduzione dell’orario a parità di paga fino al riassorbimento degli esuberi e dei disoccupati; l’abrogazione delle leggi di precarizzazione e delle norme punitive contro gli immigrati che trasformano in “clandestino” chi perde il lavoro; infine investire in un piano del lavoro per lo sviluppo delle fonti energetiche alternative, per opere di risanamento ambientale e di recupero e riqualificazione del patrimonio edilizio, per ampliare i servizi di utilità sociale come la scuola, la sanità, i trasporti pubblici…
So già che mi si obietterà che queste rivendicazioni sono “impraticabili”, e non ho difficoltà a riconoscere che l’attuale quadro di passività sociale senz’altro pare dare ragione a queste obiezioni.
Ma l’esperienza storica insegna che è proprio nelle situazioni drammatiche determinate dalle grandi crisi che sono possibili le svolte più radicali, i rovesciamenti “impossibili” fino al giorno prima, l’adozione di provvedimenti che proprio la crisi costringe a praticare… D’altra parte credo non abbia senso parlare di abolizione della povertà se non si cercasse con tutti i mezzi di determinare una svolta di questo tipo.
Maddalena Robin