Il ritorno alla strategia dei golpe
Nell’intervista rilasciata dal pacifista argentino Alfonso Perez Esquivel, emerge una posizione del tutto incapace di trarre lezioni dalla storia.
Sin dalle prime battute, si cerca di mascherare le più che evidenti responsabilità di Obama nel golpe, sostenendo testualmente: aldilà della buona volontà del Presidente Obama che è andato al governo ma non al potere (sic!). C’è stato un intervento della Cia…
Inoltre, implicitamente, si rientra nel campo di contrapposizione ideologica tra dittatura e democrazia.
Per quanto ci riguarda sappiamo che a Tegucigalpa, coma a Roma, negli Usa e in Argentina (ecc), l’unica democrazia da difendere è quella proletaria, e finchè non sarà conquistata il nostro compito è quello di combattere senza tregua contro il capitalismo e ogni sua forma di governo. Democrazia e dittatura, non sono altro che gli abiti con cui si vestono industriali e banchieri… finchè possono permetterselo indossano l’abito “per bene” della democrazia, ma appena le condizioni economiche e sociali si fanno difficili passano con estrema intraprendenza alla “giacca mimetica” della dittatura.
Nessuna fiducia in Obama, o nella “diplomazia internazionale”.
Nessuna fiducia in Zelaya, solo un governo dei lavoratori potrà liberare la classe operaia honduregna dall’oppressione militare al servizio dell’imperialismo!
*Arturo Zilli [2 Ottobre 2009] settimanale Carta
Alfonso Perez Esquivel giudica così il colpo di stato in Honduras, che è un segnale per tutti i paesi latinoamericani che vogliono sganciarsi dalle politiche statunitensi: «Pensavamo che l’epoca dei colpi di stato antidemocratici fosse finita, evidentemente non è così».
Il ricordo della morte sfiorata più volte e delle torture patite rimane per sempre impresso nell’anima di chi ha vissuto i crimini delle dittature che, tra gli anni ’60 e ’80 del secolo scorso, fecero tabula rasa della democrazia in America Latina. Adolfo Perez Esquivel è un sopravvissuto della dittatura genocida di Videla, in Argentina. Esquivel, premio Nobel per la pace del 1980 e presidente della Fundación Servicio Paz y Justicia [Serpaj], da quasi trent’anni gira il mondo per testimoniare la validità dell’opzione nonviolenta nella lotta contro le violazioni dei diritti umani e, negli ultimi tempi, anche dei diritti ambientali. Nonviolenza però non significa debolezza di giudizio e timorosa diplomazia. Le prese di posizione di Perez Esquivel sono sempre molto forti e nette. Come quando si parla della violenza che sta dilaniando l’Honduras in questi giorni, dopo il ritorno in patria del presidente legittimo Manuel Zelaya, deposto il 28 giugno scorso dal golpe capitanato da Roberto Micheletti.
La situazione che si è venuta a creare in Honduras dopo il colpo di stato rischia di mandare in frantumi la tesi – prediletta da molti commentatori politici – del tramonto dell’epoca di terrore e di repressione vissuta dai Paesi dell’America Latina. Gli avvenimenti in Honduras sono veramente la dimostrazione di un cambio di paradigma?
Non si può tentare un golpe in Honduras senza l’appoggio del governo degli Stati Uniti, aldilà della buona volontà del Presidente Obama che è andato al governo ma non al potere. C’è stato un intervento della Cia, del Pentagono, del Dipartimento di Stato. Credo che il primo a stupirsi di quanto è accaduto e sta accadendo è stato Obama stesso. Da quello che si vede e si legge in questi giorni da Tegucigalpa proviene una minaccia di destabilizzazione dei governi di tutto il continente. Ricordiamoci che non molto tempo fa ci sono già stati colpi di stato tentati in diversi Paesi: in Bolivia, in Venezuela, un tentativo di aggressione della Colombia contro l’Ecuador ovvero proprio contro quei Paesi che vogliono avere una posizione autonoma rispetto alle politiche statunitensi e che cercano alternative per quanto riguarda la sovranità e le risorse naturali che appartengono al popolo. Il colpo di stato in Honduras è un avvertimento per tutte le democrazie guidate da coloro che prendono le distanze dagli interessi economici e politici degli americani e delle grandi imprese multinazionali.
Secondo Lei quindi viviamo il pericolo di ritornare al clima degli anni ’70?
Si, la direzione è quella. Il progetto per il continente è quello del controllo e della repressione. Facciamo attenzione perché gli Usa stanno istallando sette nuove basi militari in Colombia, stanno addestrando e rafforzando le forze militari alla “Triple Frontera”, al confine tra Paraguay, Brasile e Argentina e stanno portando avanti il Plan Puebla-Panamá per i Caraibi e il Centro America. Ci si chiede perché lo facciano. Sicuramente le loro intenzioni sono serie. Il golpe contro Zelaya in Honduras è avvenuto perché quest’ultimo voleva indire una consultazione popolare per riformare la Costituzione. Nella Costituzione honduregna sono presenti articoli cosiddetti “di pietra”, ovvero immodificabili, imposti dagli Usa. Se il popolo decide di cambiare la Costituzione questo, a mio modo di vedere, sarebbe un esempio di democratizzazione della legge fondamentale dello Stato. E questo non si può permettere.
Come giudica la posizione dei Paesi europei e degli altri governi latinoamericani?
Credo che i Paesi latinoamericani finora si siano comportati in maniera adeguata e hanno protestato. L’Organizzazione degli Stati Americani ha tenuto una posizione chiara in favore di Zelaya e lo stesso ha fatto anche l’Assemblea Generale dell’Onu. La posizione di Obama invece è stata molto debole e lo stesso si può affermare di quella dei Paesi dell’Unione Europea che sembra non vogliano immischiarsi. Fa eccezione il premier spagnolo Rodriguez Zapatero che invece è stato molto deciso nella condanna. Quello in Honduras è un tradizionale golpe civico-militare dove i grandi imprenditori del settore agricolo e dell’allevamento, dell’industria mineraria e petrolifera si sono alleati con gli Stati Uniti e con le forze armate non cambiarono la mentalità golpista. Sono le stesse forze economico-militari che agiscono in tutta l’America Latina e che non vogliono che si alteri lo status-quo per mantenere i benefici di cui godono sfruttando le risorse naturali.
Il conflitto in Honduras può allargarsi e contagiare altre regioni dell’America Latina?
Certamente. Per questa ragione siamo tanto preoccupati: perché eravamo fiduciosi che, dall’epoca del tramonto delle dittature militari, l’America Latina sarebbe entrata in un processo di rafforzamento delle istituzioni democratiche. Evidentemente non è così.