LA NAZIONALIZZAZIONE DELLE BANCHE.
Il PCL è stato l’unico partito della sinistra a sollevare pubblicamente , nella stessa campagna delle elezioni politiche, la rivendicazione della nazionalizzazione delle banche.
Quando sollevammo questo tema, appena 10 mesi fa, incontrammo una reazione generale di incredulità, scetticismo, o addirittura irrisione. E non solo negli ambienti borghesi liberali, com’è naturale. Ma nell’ambito stesso della sinistra e dei suoi stati maggiori. L’obiezione borghese, ancora imbevuta dell’ipocrisia “liberista,, ci accusava di intollerabile “statalismo”. Gli stati maggiori delle sinistre (PRC- PDCI-SC) irridevano, con sufficienza, al nostro “astratto propagandismo ideologico, che non si confrontava con la realtà”. Ed in effetti..”la realtà” di allora vedeva tutte le sinistre votare un regalo di 10 miliardi di euro alle banche ( tra cuneo fiscale del 2006 e taglio IRES del 2007), pur di compiacere un governo Prodi e un PD che vantavano il sostegno dei principali banchieri. La parola d’ordine della nazionalizzazione delle banche non poteva che suonare lunare alle orecchie del loro mondo.
Da allora sono passati solo 10 mesi. E sull’onda della grande crisi del capitalismo internazionale, l’intero vocabolario ideologico del mondo appare capovolto. Il tema della nazionalizzazione delle banche entra prepotentemente nel dibattito pubblico dominante. Molti vecchi campioni del liberismo borghese si scoprono improvvisamente statalisti, e plaudono all’”intervento pubblico” nel sistema creditizio. Mentre gli stati maggiori della sinistra, totalmente frastornati e politicamente a pezzi, ripetono come un disco rotto il vecchi rosario “antiliberista” col rischio di accodarsi alla truffa delle nazionalizzazioni borghesi : incapaci, ieri come oggi, di una propria proposta indipendente all’altezza della crisi.
LIBERISMO E STATALISMO. IL LINGUAGGIO DELLA CONFUSIONE
La riscoperta ideologica, dal versante borghese, del tema “nazionalizzazioni”, dopo 20 anni di ubriacatura liberista, è tuttaltro che irrilevante. In un certo senso è la misura indiretta della profondità della crisi capitalistica. Il combinarsi della crisi finanziaria e bancaria con la recessione internazionale, e la straordinaria rapidità della dinamica della crisi, hanno scosso profondamente la borghesia mondiale, ponendola di fronte a compiti nuovi, su un terreno largamente inesplorato dalle sue ultime generazioni.
La svolta borghese non è affatto rappresentabile come passaggio “dal liberismo allo statalismo”, se non nello schermo distorto dell’ideologia. Occorre diradare il fumo dell’ideologia per evidenziare la realtà. Nella realtà, la borghesia non è mai stata “liberista” in passato, come non è diventata “socialista”oggi. La borghesia difende sempre, ieri come oggi, in forme diverse e con diversi strumenti, il proprio sistema di oppressione e di sfruttamento. Nella cosiddetta era “liberista”, gli Stati imperialisti hanno svolto un ruolo centrale nella liberalizzazione dei mercati finanziari, nelle privatizzazioni bancarie, industriali e dei servizi, nell’abbattimento del prelievo fiscale sui profitti, nello smantellamento delle protezioni sociali dei lavoratori, nell’imporre ai Paesi dipendenti la rimozione di ogni protezione del loro mercato interno ( mentre erigevano barriere doganali a difesa del proprio mercato dai prodotti di quei Paesi). Il “liberismo” contro i lavoratori e i popoli oppressi era solo il manto ideologico delle politiche statali del capitalismo, entro una nuova competizione mondiale tra Stati. Specularmente, nella nuova fase statalista che si va aprendo, ogni intervento dello Stato nell’economia capitalista non solo non ha nulla di “socialista” o di “progressivo”, ma serve a tutelare il mercato capitalistico dagli effetti rovinosi della sua crisi planetaria. Entro un nuovo quadro di relazioni mondiali segnato dal declino americano e dalla rottura dei vecchi equilibri. Lo “statalismo” o addirittura i civettamenti linguistici con il “socialismo” (“siamo tutti socialisti” titolava New Sweek), sono solo la copertura ideologica delle politiche di salvazione del capitalismo contro i lavoratori e tutte le sue vittime sociali.
LE NAZIONALIZZAZIONI BORGHESI: LA SOCIALIZZAZIONE DELLE PERDITE
La questione “nazionalizzazioni” si pone in questo quadro. Lo sdoganamento borghese di questo termine “proibito” si combina con il rovesciamento di segno del suo significato. Le nazionalizzazioni di cui parlano, in forme diverse, Obama e Merkel, Sarkosy e Berlusconi, Brown e Zapatero, non espropriano banche ma socializzano le loro perdite, ad esclusivo vantaggio dei loro profitti e del loro rilancio . E a carico di lavoratori e contribuenti.
A tutte le latitudini del mondo, le grandi banche capitaliste, protagoniste della ventennale rapina finanziaria, hanno due problemi di fondo: liberarsi dei titoli tossici e ridurre il rapporto tra debito e capitale. Gli Stati e i governi capitalisti di ogni colore si affannano a risolvere questi problemi.
Le forme del loro intervento sono tra loro molto diverse.
Lo Stato può prestare risorse pubbliche alle banche private, o attraverso l’intervento della banca centrale, o attraverso l’acquisto di obbligazioni bancarie ( come i Bond di Tremonti). Una pratica di cui hanno usufruito sinora decine di grandi banche in tutto il mondo ( ma senza risultati..)
Lo Stato può mettere a disposizione delle banche risorse pubbliche sotto forma di “garanzia pubblica dei depositi” dei risparmiatori, al fine di impedire il ritiro dei depositi e di sostenere il valore delle azioni bancarie in Borsa, quindi il patrimonio dei banchieri. E’ ciò che ha fatto in parte il governo Berlusconi con i decreti d’ottobre ( ma le azioni bancarie hanno continuato a calare).
Lo Stato può acquistare i titoli tossici delle banche ( porcherie accumulate con speculazioni e truffe senza confini) e depositarli in una ( o più) cosiddetta “ bad bank”: al fine di ripulire le banche speculatrici e rilanciarle sul mercato. E’ ciò che ha in progetto il decantato governo Obama, con un’operazione calcolata in oltre 1000 miliardi pubblici; è ciò che ipotizza il governo Brown con un investimento di 500 miliardi, e che non escludono i governi tedesco e italiano. E’ l’operazione che è stata fatta in Italia con il Banco di Napoli alla metà degli anni 90. Ed è l’operazione ad un tempo più costosa e più cinica: lo Stato accolla ai contribuenti il costo sociale delle speculazioni per salvare gli speculatori.
Lo Stato può infine acquisire con soldi pubblici pacchetti azionari delle banche in crisi, al fine di allargare il loro patrimonio e salvarle dal fallimento: e può farlo sia con l’acquisizione di quote di minoranza e con azioni prive di diritto di voto ,sia conseguendo in casi particolari la maggioranza azionaria e dunque il controllo pubblico ( come è avvenuto con la Northern Bank in GB). Sono anch’esse operazioni costose per le risorse pubbliche, e sono a termine: lo Stato risana la banca coi soldi pubblici per poi rivenderla agli speculatori privati, quando la bufera è passata, a vantaggio dei loro profitti.( E’ l’operazione fatta dal governo svedese nel 79). Salvo che oggi la bufera non è ordinaria, ha una dimensione mondiale, e le risorse pubbliche oltre una certa soglia scarseggiano.
Sono, come si vede, operazioni di diversa portata su un terreno spesso sperimentale e accidentato, segnato dalla recessione internazionale dell’economia reale, dal rischio default di diversi Paesi dell’Est europeo, dalle contraddizioni esplosive tra i diversi paesi capitalisti. E tuttavia qual è il tratto comune di queste diverse soluzioni? Salvare il capitalismo e i capitalisti dalla loro bancarotta, con risorse sottratte ai salari, alle protezioni sociali, ai servizi pubblici. Sottrarre ulteriori risorse a coloro che hanno sempre pagato per darle a chi non solo non ha pagato mai, ma è il responsabile, da tutti riconosciuto, del grande crak: il banchiere e il capitalista. Chiamare tutto questo “ nazionalizzazioni” è solo la misura dell’ipocrisia borghese. E’ l’eterno tentativo- come diceva Marx- di spacciare per interesse generale l’ interesse particolare della borghesia.
LE SINISTRE: DAL VOTO ALLE PRIVATIZAZIONI ALL’AVALLO DELLE NAZIONALIZZAZIONI BORGHESI
Proprio per questo colpisce l’afasia delle sinistre italiane di fronte a questo scenario. Tutto il riformismo italiano ed europeo ha rimosso da alcuni decenni lo stesso termine “ nazionalizzazione”, persino nella sua torsione riformistica. Nella battaglia interna al PRC, la rivendicazione della nazionalizzazione delle banche, avanzata ostinatamente per 15 anni dalla sinistra rivoluzionaria di quel partito ( futuro PCL), è stata assunta a emblema dell’”estremismo ideologico” da combattere: e non solo dai gruppi dirigenti riformisti, ma dagli stessi dirigenti di Sinistra Critica. “ Ha senso rivendicare solo ciò che è immediatamente ottenibile”, ci hanno spiegato tutti per anni, con aria saccente, contro la rivendicazione delle nazionalizzazioni. Salvo votare, una volta al governo ( o nella sua maggioranza), le..privatizzazioni della borghesia (certo “ottenibilissime” senza sforzo).
Ora che la realtà della crisi capitalistica ha superato il loro limitato immaginario; ora che i circoli borghesi evocano loro stessi le “nazionalizzazioni”, cosa fanno i dirigenti riformisti e centristi? Si accodano “criticamente” alla moda corrente, e avallano “criticamente” le “nazionalizzazioni” della borghesia. La politica economica della nuova amministrazione Obama è salutata dal riformismo italiano con estatica ammirazione: i suoi versamenti stratosferici a grandi imprese e banche sono stati assunti come esempio di intervento pubblico nell’economia e di svolta “antiliberista”. Persino l’evocazione populista di Berlusconi sulle nazionalizzazioni è stata salutata come “una buona idea” da Paolo Ferrero e come “una rivendicazione comunista” dal PDCI, forse con ironia, ma con scarso senso del ridicolo. La proposta testuale del PRC è quella di “acquisire quote di proprietà pubblica” delle banche, e di destinare risorse pubbliche alle imprese “solo in cambio di impegni occupazionali”( v. il volantone di partito al sciopero fiom del 13 febbraio). Ma per quale ragione si dovrebbero spendere soldi pubblici( cioè dei contribuenti lavoratori) per sostenere il patrimonio delle banche, per di più in posizione di minoranza? Per queste misure non serve Ferrero, è sufficiente Brown o Merkel. E quale valore avrebbero gli improbabili “impegni” occupazionali dei capitalisti, a fronte del regalo materiale di nuovi miliardi di euro che Ferrero e Diliberto sarebbero disponibili a concedere loro, alla coda di tutti i politicanti borghesi? I casi di General Motors o di Pegeout o della stessa Fiat non sono sufficientemente eloquenti? . Tanti impegni, tanti soldi pubblici intascati, tanti licenziamenti.
Ma c’è di più: la burocrazia dirigente della CGIL ha sentito il bisogno di dichiarare pubblicamente la propria preoccupazione per l’”autonomia” degli istituti di credito minacciati dall’invadenza “statalista”del governo. Si è schierata con Bankitalia e i banchieri speculatori contro l’invocazione prefettizia di Tremonti. Il che significa che il principale sindacato italiano, nel momento stesso della sua opposizione a Berlusconi è riuscito, in un colpo solo, a difendere i banchieri e a prendere sul serio il Cavaliere, avallando le sue mistificazioni populiste. Come ci si può meravigliare se, nonostante la crisi, il governo continua a raccogliere il ( tragico) consenso di un settore significativo dello stesso mondo del lavoro?
La verità è che la borghesia, a suo modo, si mostra infinitamente più radicale, nel suo stesso linguaggio e propaganda, di chi dovrebbe combatterla. E che una cultura riformista e centrista, impregnata di realismo minimalista e di adattamento alle vecchie regole del gioco, si trova totalmente spiazzata dalla più grande crisi capitalista degli ultimi 80 anni, e dalla stessa disinvoltura della svolta ideologica borghese.
L’ESPROPRIO DELLE BANCHE, QUALE UNICA VERA NAZIONALIZZAZIONE
Questa stessa crisi è invece un’eccezionale occasione storica per l’intervento dei comunisti rivoluzionari. E la questione della “ nazionalizzazione delle banche” è al riguardo paradigmatica.
Ad una borghesia costretta a contraddire, nel modo più clamoroso, tutto il corso ideologico iperliberista post89; costretta per la prima volta sulla difensiva – in campo culturale- dalla grande crisi del capitalismo; costretta a nobilitare, controvoglia, la stessa tematica delle nazionalizzazioni, non si può rispondere col vecchio approccio sindacale e minimale, né con l’armamentario culturale “antiliberista”, se non al prezzo di una nuova subordinazione. Si può e si deve rispondere opponendole un’alternativa di sistema, che restituisca alla rivendicazione della nazionalizzazione il suo significato anticapitalista e rivoluzionario.
Si tratta di far leva sul nuovo linguaggio ideologico della borghesia per rivolgerlo contro di essa. Al salvataggio delle banche a spese dei contribuenti va contrapposto il salvataggio dei contribuenti a spese delle banche: non un soldo alle banche; le banche vengano nazionalizzate, senza alcun indennizzo per i grandi azionisti, e sotto il controllo operaio e popolare ( visto che l’indennizzo se lo sono già pagato con decenni di truffe,rapine, mutui usurai..), mentre lo Stato garantirà pienamente ( a differenza degli attuali banchieri) il piccolo risparmio; e le risorse pubbliche così risparmiate saranno investite in salari, protezioni sociali, servizi pubblici, in tutte quelle voci sociali falcidiate per vent’anni in ogni finanziaria, su pressione delle banche. Una grande banca pubblica, sotto controllo sociale, con dirigenti eletti e revocabili, pagati col salario di un operaio medio,sarà uno strumento formidabile per riorganizzare dalle fondamenta l’intera economia e società.
Come si vede, non si tratta affatto di un approccio astratto e incomprensibile. Al contrario: tutte le rivendicazioni immediate dei lavoratori di fronte alla crisi; tutte le rivendicazioni di difesa del lavoro, di assunzione dei precari, di estensione del diritto di cassa integrazione all’insieme dei lavoratori con l’80% del salario, di reale indennità per tutti i disoccupati, di difesa ed estensione dei servizi pubblici e delle opere di pubblica utilità ( casa, scuola, sanità..), riconducono all’interrogativo naturale: chi paga?.E non c’è risposta possibile a questo interrogativo senza chiamare in causa l’immensa mole di risorse pubbliche oggi destinate alla borghesia e in primo luogo alle banche. A sua volta non è possibile privare le banche di quelle risorse, senza una loro nazionalizzazione-esproprio sotto controllo operaio e popolare. Per questo la tematica delle nazionalizzazioni può e deve acquisire, nella crisi, un carattere popolare.
IL GOVERNO DEI LAVORATORI, QUALE UNICA VERA SOLUZIONE
La prospettiva del governo dei lavoratori è sottesa organicamente, alla rivendicazione delle nazionalizzazioni. Il PCL non chiede a Berlusconi, come non lo chiederebbe a Prodi, di espropriare i banchieri. Tutta la propaganda e l’agitazione sulla rivendicazione della nazionalizzazione ha un senso esattamente opposto: ricondurre alla necessità di un governo operaio e popolare, capace di liberare la società dalla crisi del capitalismo e dalla spazzatura politica e morale delle sue classi dirigenti. Di ogni colore.
Questo resta il punto decisivo e discriminante. Tutti coloro che,a sinistra, parlano oggi di nazionalizzazioni ( dopo aver votato ieri le privatizzazioni), senza porre la prospettiva di un governo operaio e popolare, fanno loro sì, pura propaganda, subalterna e ingannevole. Continuano a illudere i lavoratori, in forme nuove, su un possibile capitalismo “sociale” e “riformato”, e su una funzione neutrale dello Stato. Per di più alla coda dell’emergente statalismo borghese, e di fronte alla catastrofe capitalistica.
La nostra proposta è opposta. La rivendicazione della nazionalizzazione delle banche, senza indennizzo, e sotto controllo dei lavoratori, è apertamente contrapposta allo statalismo della borghesia perchè vuole liberare i lavoratori da ogni vecchia illusione riformista : rivendica l’esproprio del cuore stesso del capitale finanziario, delle sue proprietà, del suo potere ; afferma l’istanza di un potere nuovo e autonomo ( il “controllo operaio”), apertamente alternativo al comitato d’affari dello stato borghese, alla sua burocrazia, al suo funzionariato. Se il ministro Tremonti evoca il controllo prefettizio sulle banche private, (col plauso di Di Pietro), per chiedere loro di dare più soldi ai capitalisti, il PCL propone il controllo dei lavoratori su un’unica banca pubblica,per dare più soldi alla maggioranza della società. Solo un governo dei lavoratori, che rovesci il dominio dei capitalisti, potrà realizzare questa misura.
intervento di Marco Ferrando